Il contesto Papato, comuni e nobili volevano minare il potere imperiale La tragedia Il timore di essere tradito spinse il monarca a colpire il suo erede
di Paolo Mieli
Gli storici rivalutano Enrico, vittima dell' ira paterna Il precedente La cruenta sommossa di Messina alimentò la diffidenza del sovrano e lo indusse alla massima durezzaLa revisioneIl nuovo studio di Wolfgang Stürner attenua la severità del giudizio sul primogenito dell'imperatore. Se il giovane fallì per difetto di carattere, l'anziano mancò di aiutarlo fornendogli i giusti consigli e ingiungendogli solo l'obbedienza
Nuovo interesse per Federico II. Dopo i tre volumi sull'imperatore svevo che l'Enciclopedia Treccani ha pubblicato tra il 2005 e il 2008, la casa editrice Salerno sta per dare alle stampe l'altra opera monumentale, Federico II e l'apogeo dell'Impero di Wolfgang Stürner, nella impeccabile traduzione di Andrea Antonio Verardi. Un'attenzione particolare meriterebbe l'introduzione di Ortensio Zecchino, dove si analizza come diverse correnti storiografiche nonché diversi regimi hanno tentato di far propria la figura del sovrano vissuto tra il 1194 e il 1250, che segnò di sé l'epoca in cui visse e anche quelle successive. Ma l'imponente libro di Stürner è uno strumento indispensabile per fare luce su importanti questioni connesse all' esperienza fridericiana e ad alcune sue vicende esistenziali, prima tra tutte il conflitto che oppose l'imperatore al figlio Enrico, destinato a diventare il suo erede, e che invece segnò drammaticamente la loro vita per risolversi, infine, in tragedia. In passato Enrico è stato quasi sempre trattato dagli storici come uno stolto e spesso la denigrazione a suo danno appariva motivata più dalla necessità di cantare le lodi del padre che da suoi peccati di comportamento. Oggi - come vedremo - ci sono studiosi che rivalutano Enrico re di Germania e quasi sposano, per così dire, le ragioni che lo indussero allo scontro con l'imperatore Federico. Non è il caso dell'opera di Stürner, che però anche su questa vicenda appare più approfondita, dotta e sottile delle innumerevoli che l'hanno preceduta. Enrico, nato nel 1211, trascorse i primi cinque anni di vita con la madre, Costanza d' Aragona, alla corte di Palermo. In seguito, su disposizione del padre, si recò con Costanza in Germania (1216) e lì, allorché Federico ottenne da papa Onorio III la corona imperiale a Roma (1220), crebbe in assenza dei genitori. Incoronato re ad Aquisgrana (ma sotto la tutela di un reggente) a undici anni, a quattordici fu costretto a sposare Margherita d'Austria, che era molto più anziana di lui. Quando nel 1231 Enrico manifestò l'intenzione di divorziare dalla moglie per sposare Agnese di Boemia, Federico si oppose. Il problema di fondo, ha scritto Hubert Houben (Federico II, Il Mulino), era di natura politica: Federico voleva che il figlio governasse attenendosi scrupolosamente ai suoi ordini; Enrico dovette però considerare il divieto di separarsi da Margherita come lesivo del suo rango regale, una sorta di limitazione della sua autorità. E fu scontro. Che si concluse con la deposizione di Enrico, la sua lunga prigionia, il suo ammalarsi di lebbra e infine il suicidio (1242). Alla morte del figlio, Federico lo fece seppellire con tutti gli onori nel duomo di Cosenza e nella lettera (scritta dal capo della sua cancelleria Pier della Vigna) con la quale esortava il clero del regno di Sicilia a pregare per il defunto, si soffermò con queste parole sul conflitto che li aveva divisi: «Anche se non siamo stati piegati dalla superbia di un re vivo, siamo commossi dalla morte di questo nostro figlio; non siamo i primi e non saremo gli ultimi a sopportare i danni delle trasgressioni dei figli e ciò nonostante a piangere dopo i loro funerali... Né l'acerba sofferenza generata dalla trasgressione è per i genitori una medicina efficace contro il dolore: la natura, pungendoli, li fa dolere per la morte dei figli, anche se essi li hanno offesi con la loro irriverenza, che si oppone alle leggi della natura stessa». Stürner - come si diceva - dedica grande attenzione al dissidio tra Federico e suo figlio Enrico, mettendolo in relazione, almeno per quel che riguarda la fase iniziale, alla rivolta di Messina che esplose nell'agosto del 1232 e che costrinse l'imperatore a rimanere in Sicilia dall'aprile del 1233 al febbraio del 1234. La sommossa di Messina - che si era poi estesa a Siracusa e a Nicosia - era stata provocata dalla durezza, o meglio dal rigore di Riccardo di Montenegro, rappresentante di Federico in quella regione. Era stato del resto lo stesso Federico a disporre il divieto alle città di eleggere propri funzionari e giudici, a decidere per un consistente aumento degli oneri fiscali e a stabilire il mancato rinnovo dell' esenzione dalla dogana per il porto di Messina. Come reazione ebbe una sommossa di cui Riccardo di Montenegro fu solo un bersaglio apparente. E per aver ragione dell' insurrezione l' imperatore si vide costretto a promettere un perdono generale; poi però, una volta che ebbe domato la rivolta, non tenne fede alla sua stessa parola: fece arrestare i capi di quei moti, ne impiccò o mise al rogo la gran parte, imprigionò o bandì dalla città i loro seguaci e fece distruggere completamente alcune colonie che si erano distinte in quei tumulti. Perdonò, invece, e promosse di rango Riccardo di Montenegro. Scottato da quell' esperienza, Federico affrontò la questione del figlio con particolare durezza. Enrico era stato assai leale, alla fine degli anni Venti, nei confronti del padre, scomunicato da Gregorio IX nonostante avesse ottenuto - al termine di un negoziato con il sultano d' Egitto - la restituzione di Gerusalemme ai cristiani. Enrico si era scontrato con tutti coloro che si andavano alleando con papa Gregorio (in primis Ludovico di Baviera) in cospirazioni che sembrava avessero come fine la destituzione dell' imperatore. Ma il padre non gliene fu affatto grato. Anzi. Secondo Stürner l' imperatore prese spunto dal complesso rapporto tra il figlio e i principi tedeschi per rendere pubblica la sua contrapposizione a Enrico. La dieta di Worms del gennaio 1231 «aveva costretto Enrico a revocare le concessioni fatte in un primo tempo alle città sulla Mosa ma anche a ratificare il ruolo di predominio dei principi che governavano le città». I cittadini non potevano concludere patti o alleanze tra loro contro la volontà dei principi e il re non avrebbe potuto approvare tali alleanze. La successiva dieta che si tenne di nuovo a Worms, alla presenza del sovrano, dalla fine di aprile all'inizio di maggio dello stesso anno, «si spinse più in là. Richiamando l'accordo che Federico aveva stretto con i principi ecclesiastici nel 1220, i principi imperiali ottennero la ratifica della loro posizione di domini terrae attraverso un privilegio reale. Il re rinunciava espressamente a fondare città, a costruire castelli o nuove strade, istituire mercati o zecche nei loro territori senza il loro consenso». Oltre a ciò, il re «concedeva ai principi l'esercizio indisturbato della giurisdizione e dei diritti feudali e si impegnava a tenere a freno le tendenze espansionistiche delle città sul suolo regio, cui quelli guardavano, come sempre, con preoccupazione». Il re proibiva altresì «alle città di occupare i suburbi e di appropriarsi di beni, di accogliere i servi della gleba fuggiti dai loro signori, di estendere la loro giurisdizione e il diritto di scorta nei territori limitrofi e di compiere atti amministrativi a spese dei principi». Questo documento metteva in luce la forte posizione che i principi tedeschi avevano acquisito rispetto al re. A differenza del 1220, inoltre, «i principi imperiali, laici ed ecclesiastici, rappresentarono i loro interessi in maniera compatta, come un unico ceto, e il re - ciò che può risultare importante nel giudizio su Enrico - non ricevette nulla in cambio della propria compiacenza, del suo ufficiale riconoscimento dell' evolversi degli eventi a loro favore». Nel 1232 l' imperatore convocò in modo assai brusco suo figlio ad Aquileia (non si vedevano da dodici anni, da quando Enrico ne aveva nove) dove riconobbe in maniera formale e piena le sue decisioni e la sua dignità regale, ma ribadì anche l' assoluto predominio della propria posizione «obbligando Enrico a una drastica, rigorosa e perfino umiliante sottomissione al suo potere imperiale». Il re rientrò in Germania molto scosso e ferito nell' orgoglio, il padre da quel momento non si fidò più di lui. E fu la rivolta di Messina con la feroce repressione che ne seguì. In quell' occasione papa Gregorio IX, scrive Stürner, «non solo sospettò che Federico avesse messo al rogo i suoi avversari, facendoli passare per eretici, ma biasimò anche le dure misure imperiali contro l'insurrezione siciliana, definendole senza troppe perifrasi crudeli e ingiuste, e accusò inoltre Federico di aver spinto alla ribellione i sudditi con la sua politica di oppressione invece di conquistarli con l'amore, come si conveniva a un regnante cristiano: sembrava quasi che volesse negare al sovrano temporale il diritto di usare la forza». E il dispetto dell' imperatore fu assai grande allorché nell' agosto del 1233 Enrico, accompagnato a sorpresa dal vescovo di Strasburgo, ma anche dall' arcivescovo Sigfrido di Magonza e dal vescovo Ermanno di Würzburg, per oscuri motivi mosse con un grande esercito contro Ottone, figlio di Ludovico e nuovo duca di Baviera, infliggendogli una pesante sconfitta. Dispetto che si trasformò in collera quando nel dicembre del 1234 Enrico strinse un accordo con Milano e le città della Lega: «Agli occhi dell' imperatore», scrive Stürner, «quell'accordo dovette apparire un crimine assurdo e orrendo, che dimostrava con assoluta chiarezza i propositi di alto tradimento di suo figlio, miranti alla rovina dell' impero». Nel 1235 Federico scatenò la guerra contro Enrico e, nonostante quest' ultimo avesse inviato ambasciatori per chiedergli perdono e annunciare la sua sottomissione, non si fermò finché non lo ebbe sconfitto e imprigionato, con le conseguenze di cui si è detto all' inizio. Stürner a questo punto si misura con i lavori su Federico II di due importanti storici tra loro contrapposti: Christian Hillen e Theo Broekmann. Concorda con Hillen, il quale ha sostenuto che «i principi imperiali, al pari dei nobili tedeschi, ebbero contatti molto più intensi con il padre, che dimorava nella lontana Italia, che con il giovane re, furono sostenuti da Federico e contribuirono a plasmare la sua idea sugli avvenimenti tedeschi, mentre attuavano i suoi propositi. E che Enrico non riuscì, evidentemente, a creare un' analoga rete di rapporti personali incentrata su di sé: e così alla fine non ebbe più appoggi tra le personalità di rango, come pure tra i rappresentanti della ministerialità». Dissente invece da Broekmann, che ha approfondito il conflitto tra padre e figlio sostenendo che «Federico sarebbe stato influenzato dal modo di risolvere le divergenze vigente in Sicilia, fondato sul rigor iustitiae, sull' autorità e la spietata durezza, mentre Enrico, agendo in conformità con il sistema di valori vigente a nord delle Alpi, avrebbe combattuto in difesa del suo onore e del suo prestigio di re; dalla sua sottomissione egli si sarebbe quindi atteso, fino alla fine, non solo di ricevere il perdono imperiale, ma anche, grazie a questo, il proprio honor regio». Di fatto Broekmann accusa Federico di non aver saputo dar prova di misericordia. Un imperatore duro, spietato, contro un re tedesco mite. Ma Stürner gli contesta che «Federico biasima sempre, senza eccezione, la durezza del diritto romano che egli intendeva alleviare con la mitezza e la misericordia delle proprie costituzioni». Naturalmente, prosegue, «nella prassi politica lo svevo dimostrò di saper punire in maniera estremamente crudele; ma si trattò quasi sempre di casi di aperta e palese infrazione della legge o di alto tradimento, come la rivolta dei Saraceni in Sicilia o la congiura del 1246. D' altra parte fin da giovane Federico mostrò di saper perdonare le ribellioni, una volta sconfitte, richiamandosi alla propria misericordia e pietà, e promulgò il corpus di Melfi... soltanto dopo un' accurata consultazione con i rappresentanti del regno». Né «gli erano estranee le usanze nordiche, e quando giunse in Germania praticò per lungo tempo, con convinzione e successo, le forme di sovranità consuete in quei luoghi (perciò biasimate ancora da qualche storico dei nostri giorni) come dovette sperimentare anche suo figlio». Da quest' ultimo «lo separava forse soprattutto la divergenza di fondo circa il ruolo dei principi imperiali; e questa divergenza spiega il rifiuto di Enrico di recarsi alla fine del 1231 alla grande dieta organizzata dal padre a Ravenna, come pure la sua alleanza, certamente sfortunata, con i tradizionali antagonisti dei sostenitori più fedeli dell' imperatore, nonché il patto da lui stretto infine con Milano, l' acerrima nemica di Federico». Tutte decisioni, queste, che «portarono al duro contrasto tra padre e figlio, fino a renderlo insanabile; sicuramente Enrico maturò la profonda convinzione di essere stato costretto alla lite con il padre dalla volontà di tutelare la propria dignità e orgoglio regio. Ma di certo Federico poteva rivendicare lo stesso, con altrettanta convinzione, forte anche delle concezioni vive nell' impero e insistere inoltre sul suo superiore rango, come pure - fatto per lui decisivo - sull' obbedienza che il diritto divino e naturale prescriveva al figlio nei confronti del padre». Stürner, pur inserendosi nel solco degli storici tradizionali tutti impegnati a sostenere le ragioni di Federico, attenua - ed è la prima volta - il giudizio sui torti di Enrico. Imputa a quest' ultimo una «percezione troppo ottimistica dei propri spazi di azione» e gli muove l' accusa «politica» di non aver tranquillizzato - con la mutevolezza delle sue prese di posizione - la borghesia cittadina, ma soprattutto, nella collaborazione che ebbe con i principi dell' impero, di aver parteggiato per coloro che era evidente prima o poi sarebbero entrati in conflitto con la causa sveva, mettendosi in urto con quelli che erano destinati a restare fedeli alla sua famiglia. Ma il libro contiene rilievi anche per il padre. «Da parte sua», sostiene Stürner, «Federico non facilitò certo le cose, pretendendo dal figlio, senza avere con lui rapporti o vincoli personali, la sottomissione al comandamento che ingiungeva l' obbedienza al padre, ossia un atto tanto infantile quanto formale: per risvegliare nel figlio il senso di un simile dovere e al contempo conquistarlo alla propria concezione politica, avrebbe dovuto offrirgli un' attenzione paterna continua, con parole e consigli personali. Se il figlio fallì per le sue debolezze caratteriali e per un' errata percezione delle possibilità di manovra della dignità regale tedesca, il padre mancò nel compito di trasmettere al figlio questa percezione». Siamo solo agli inizi della revisione di quel rapporto tra padre e figlio, ma il riequilibrio di giudizio c' è ed è di sostanza.
Il fascino svevo non tramonta Federico II di Svevia (1194-1250), figlio di Enrico VI e della principessa normanna Costanza d'Altavilla, abbinò la corona del Sacro Romano Impero e quella del Regno di Sicilia. Uomo di raffinata cultura, colpisce e affascina ancora oggi la sua apertura al dialogo con ebrei e musulmani, insolita in un sovrano medievale. L'uscita in Italia della biografia di Wolfgang Stürner Federico II e l' apogeo dell' impero (Salerno Editrice, pagine 1127, Euro 84) si pone nella scia della Enciclopedia fridericiana in tre volumi e circa 500 voci (in tutto 1848 pagine) intitolata Federico II: un'opera di alto pregio, pubblicata dalla Treccani dal 2005 al 2008 in una tiratura limitata e realizzata sotto la direzione di un comitato presieduto da Ortensio Zecchino e composto da Girolamo Arnaldi, Arnold Esch, Cosimo Damiano Fonseca, Antonio Menniti Ippolito, Alberto Varvaro. Assai più sintetico il libro dello storico medievista Hubert Houben Federico II (pagine 208, Euro 12,50) edito quest'anno dal Mulino, che ha appena pubblicato anche il volume Gli inizi del diritto pubblico. Da Federico I a Federico II (pagine 440, Euro 28), a cura di Gerhard Dilcher e Diego Quaglioni, che raccoglie gli atti di un convegno organizzato dall'Istituto storico italo-germanico di Trento.
Il fascino svevo non tramonta Federico II di Svevia (1194-1250), figlio di Enrico VI e della principessa normanna Costanza d'Altavilla, abbinò la corona del Sacro Romano Impero e quella del Regno di Sicilia. Uomo di raffinata cultura, colpisce e affascina ancora oggi la sua apertura al dialogo con ebrei e musulmani, insolita in un sovrano medievale. L'uscita in Italia della biografia di Wolfgang Stürner Federico II e l' apogeo dell' impero (Salerno Editrice, pagine 1127, Euro 84) si pone nella scia della Enciclopedia fridericiana in tre volumi e circa 500 voci (in tutto 1848 pagine) intitolata Federico II: un'opera di alto pregio, pubblicata dalla Treccani dal 2005 al 2008 in una tiratura limitata e realizzata sotto la direzione di un comitato presieduto da Ortensio Zecchino e composto da Girolamo Arnaldi, Arnold Esch, Cosimo Damiano Fonseca, Antonio Menniti Ippolito, Alberto Varvaro. Assai più sintetico il libro dello storico medievista Hubert Houben Federico II (pagine 208, Euro 12,50) edito quest'anno dal Mulino, che ha appena pubblicato anche il volume Gli inizi del diritto pubblico. Da Federico I a Federico II (pagine 440, Euro 28), a cura di Gerhard Dilcher e Diego Quaglioni, che raccoglie gli atti di un convegno organizzato dall'Istituto storico italo-germanico di Trento.
«Corriere della Sera» del 15 dicembre 2009
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