Occhiaie di riguardo
di Toni Capuozzo
Ma perché, Antonio Pallante, che sparò nel 1948 a Togliatti, non era uno psicolabile? Eppure ricordo, ancora molti anni dopo, le frasi scolpite nel marmo della memoria del partito, quell’invito alla calma del Migliore ferito, e quell’urlo dalla folla, a D’Onofrio: dacce er segno…. E perché, non era uno psicolabile quel John Hinckley che nel 1981 sparò a Ronald Reagan, pur di fare colpo su Jodie Foster, di cui era perdutamente innamorato? Io credo che il downgrade di quanto successo domenica a piazza Duomo, anche quando ispirato alla buona volontà di spargere calma e gesso, porti a sottovalutare quanto di quel gesto non sia più circoscrivibile alle turbe di un singolo, ma appartenga a tutta la società, e al suo momento. Io vorrei lasciar perdere la politica dei politici, e dunque anche le dichiarazioni di Rosy Bindi, di Antonio Di Pietro, e di altri, e su tutte quelle di Debora Serracchiani, che sottolinea il rischio “che da questa vicenda Berlusconi può uscirne solo mediaticamente rafforzato”. Le vorrei trascurare, anche se non sono solo pessime sortite personali, ma rappresentano umori reali del paese, pensieri sparsi in un corpo elettorale ben rappresentato da questi nomi, da questi volti. Il volto: avete notato quanto fosse somigliante l’immagine di Silvio Berlusconi ferito al volto, terreo dietro il vetro dell’auto, e l’immagine di Silvio Berlusconi che campeggiava sui manifesti del NoBday?
Avete notato quanto poca somiglianza vi sia tra il penultimo, in ordine di tempo, oltraggio al potente e il gesto di Massimo Tartaglia? Il giornalista iracheno che scagliò la scarpa contro Bush esprimeva, in modo non tollerabile, un dissenso che ha ancora a che vedere con l’ironia, la messa alla berlina, la dissacrazione. Il gesto di Tartaglia ha a che vedere con l’ossessione (“Quello lì sta rovinando l’Italia, non mi va bene niente di quello che dice…” racconta in Questura). L’ossessione di un leader che è di volta in volta accusato di aver fatto fortuna con i soldi della mafia, di aver dato mandato per stragi di mafia, di insidiare minorenni e di retribuire escort, di essere un evasore fiscale, di rendere il paese uno zimbello in campo internazionale, di essere succube nell’avventura afghana del finto pacifista Obama, di essere amico di Putin e Gheddafi, di essere filoisraeliano e di propugnare un piano Marshall per i palestinesi, di volere il ponte sullo Stretto e di volere new town in Abruzzo, di essere contro i giudici e contro la costituzione, di essere il soffocatore della libertà di stampa, di essere, di essere, di essere (non è stato scritto un libro sul corpo di Berlusconi, sul suo uso del corpo?).
E’ un’ossessione che appartiene a una parte del paese. E non si tratta solo di un fisiologico estremismo, di persone come quei settantacinque italiani che vanno a farsi arrestare a Copenaghen ma che uno fatica a immaginare impegnati un giorno solo non dico a ripulire una spiaggia o il greto di un fiume, ma anche solo a riporre le bottiglie di birra in un contenitore da raccolta differenziata. Conosco persone per bene e in età più che adulta che ormai, perso ogni altro sogno, vivono di questa sola ossessione. Un mio amico di gioventù, che difesi molte volte dalla diffidenza di tanti proletari, che vedevano in lui il marchio mal dissimulato di una famiglia benestante (“borghese”, si diceva allora), oggi coltiva una diffidenza assai peggiore, perché priva di ogni connotato sociale, nei confronti di qualunque cosa o persona – quorum ego – che ai suoi occhi abbia a che vedere con il berlusconismo. Un’altra amica chiedeva a mia madre la fotocopia dei pezzi di Adriano Sofri sull’ultima pagina di Panorama, pur di non finanziare Berlusconi con l’acquisto in edicola del settimanale.
Ho visto miei coetanei ai quali era difficile chiedere mille lire di sottoscrizione, non parliamo poi di volantinaggi all’alba o attacchinaggio notturno di manifesti, diventare rivoluzionari senili, apparentemente pronti a tutto, dall’uso indiscriminato delle parole (resistenza, regime eccetera), alla minaccia di lasciare il paese (in genere, ripresisi da choc elettorali, diventa la minaccia di spedire il berlusconismo in qualche arcipelago). Ora tutto questo sarebbe persino comico (in un paese in cui i comici fanno i profeti, e i profeti hanno spesso un involontario aspetto comico) se non rimandasse a una certa drammatizzazione dello scontro che è diventata una formula televisiva, un linguaggio giornalistico e spesso la sola apparente forma di convivenza possibile: urlare, e dimostrare che si esiste a scapito dell’altro. Tutto questo è facile, finché è senza conseguenze: si guardino i contratti anche dei più soavi e mielosi conduttori televisivi di tanta battaglia e si consideri che nessuno oggi chiede ragione ai figli di papà del loro marchio di classe, né tantomeno di sottoscrivere o regalare appartamenti.
Oggi nessuna carriera è ostacolata dall’essere di sinistra, tanto che scappa un sorriso a vedere improbabili militanze in attori che recitano plebeo e declamano progressista, pur di circondarsi dell’alone giusto. E’ facile finché resta parola, e stupisce i vecchi borghesi, se esistono ancora. E’ facile e perfetto, quando godi del privilegio e nello stesso tempo fai la figura del martire, della voce di chi ha capito quel che un popolo intontito non riesce più a capire, avanguardia leninista che agisce in nome del popolo che non lo sa, causa sei televisioni e bavaglio alla stampa, e allora giù programmi rivoluzionari in prima serata e giù samizdat da prima pagina. Da un certo punto di vista meglio i facinorosi scemi che proclamano “Tartaglia, uno di noi”, che i farisei che si premurano a prendere la distanza dall’untore: “Tartaglia non è uno di noi”. Perché invece bisognerebbe che tutti noi – senza i predicozzi sul senso di responsabilità, sulla misura – ci chiedessimo che responsabilità abbiamo nella piega che stanno prendendo le cose. Certo, se anche nei momenti che sono miserabile parodia dei momenti peggiori c’è qualcuno convinto di essere migliore e non sa dimostrarlo se non essendo contro, allora non c’è da meravigliarsi se poi quando c’è da votare non hanno fascino, non raccolgono sogni, ma il rancore degli incompresi dalla storia.
Avete notato quanto poca somiglianza vi sia tra il penultimo, in ordine di tempo, oltraggio al potente e il gesto di Massimo Tartaglia? Il giornalista iracheno che scagliò la scarpa contro Bush esprimeva, in modo non tollerabile, un dissenso che ha ancora a che vedere con l’ironia, la messa alla berlina, la dissacrazione. Il gesto di Tartaglia ha a che vedere con l’ossessione (“Quello lì sta rovinando l’Italia, non mi va bene niente di quello che dice…” racconta in Questura). L’ossessione di un leader che è di volta in volta accusato di aver fatto fortuna con i soldi della mafia, di aver dato mandato per stragi di mafia, di insidiare minorenni e di retribuire escort, di essere un evasore fiscale, di rendere il paese uno zimbello in campo internazionale, di essere succube nell’avventura afghana del finto pacifista Obama, di essere amico di Putin e Gheddafi, di essere filoisraeliano e di propugnare un piano Marshall per i palestinesi, di volere il ponte sullo Stretto e di volere new town in Abruzzo, di essere contro i giudici e contro la costituzione, di essere il soffocatore della libertà di stampa, di essere, di essere, di essere (non è stato scritto un libro sul corpo di Berlusconi, sul suo uso del corpo?).
E’ un’ossessione che appartiene a una parte del paese. E non si tratta solo di un fisiologico estremismo, di persone come quei settantacinque italiani che vanno a farsi arrestare a Copenaghen ma che uno fatica a immaginare impegnati un giorno solo non dico a ripulire una spiaggia o il greto di un fiume, ma anche solo a riporre le bottiglie di birra in un contenitore da raccolta differenziata. Conosco persone per bene e in età più che adulta che ormai, perso ogni altro sogno, vivono di questa sola ossessione. Un mio amico di gioventù, che difesi molte volte dalla diffidenza di tanti proletari, che vedevano in lui il marchio mal dissimulato di una famiglia benestante (“borghese”, si diceva allora), oggi coltiva una diffidenza assai peggiore, perché priva di ogni connotato sociale, nei confronti di qualunque cosa o persona – quorum ego – che ai suoi occhi abbia a che vedere con il berlusconismo. Un’altra amica chiedeva a mia madre la fotocopia dei pezzi di Adriano Sofri sull’ultima pagina di Panorama, pur di non finanziare Berlusconi con l’acquisto in edicola del settimanale.
Ho visto miei coetanei ai quali era difficile chiedere mille lire di sottoscrizione, non parliamo poi di volantinaggi all’alba o attacchinaggio notturno di manifesti, diventare rivoluzionari senili, apparentemente pronti a tutto, dall’uso indiscriminato delle parole (resistenza, regime eccetera), alla minaccia di lasciare il paese (in genere, ripresisi da choc elettorali, diventa la minaccia di spedire il berlusconismo in qualche arcipelago). Ora tutto questo sarebbe persino comico (in un paese in cui i comici fanno i profeti, e i profeti hanno spesso un involontario aspetto comico) se non rimandasse a una certa drammatizzazione dello scontro che è diventata una formula televisiva, un linguaggio giornalistico e spesso la sola apparente forma di convivenza possibile: urlare, e dimostrare che si esiste a scapito dell’altro. Tutto questo è facile, finché è senza conseguenze: si guardino i contratti anche dei più soavi e mielosi conduttori televisivi di tanta battaglia e si consideri che nessuno oggi chiede ragione ai figli di papà del loro marchio di classe, né tantomeno di sottoscrivere o regalare appartamenti.
Oggi nessuna carriera è ostacolata dall’essere di sinistra, tanto che scappa un sorriso a vedere improbabili militanze in attori che recitano plebeo e declamano progressista, pur di circondarsi dell’alone giusto. E’ facile finché resta parola, e stupisce i vecchi borghesi, se esistono ancora. E’ facile e perfetto, quando godi del privilegio e nello stesso tempo fai la figura del martire, della voce di chi ha capito quel che un popolo intontito non riesce più a capire, avanguardia leninista che agisce in nome del popolo che non lo sa, causa sei televisioni e bavaglio alla stampa, e allora giù programmi rivoluzionari in prima serata e giù samizdat da prima pagina. Da un certo punto di vista meglio i facinorosi scemi che proclamano “Tartaglia, uno di noi”, che i farisei che si premurano a prendere la distanza dall’untore: “Tartaglia non è uno di noi”. Perché invece bisognerebbe che tutti noi – senza i predicozzi sul senso di responsabilità, sulla misura – ci chiedessimo che responsabilità abbiamo nella piega che stanno prendendo le cose. Certo, se anche nei momenti che sono miserabile parodia dei momenti peggiori c’è qualcuno convinto di essere migliore e non sa dimostrarlo se non essendo contro, allora non c’è da meravigliarsi se poi quando c’è da votare non hanno fascino, non raccolgono sogni, ma il rancore degli incompresi dalla storia.
«Il Foglio» del 17 dicembre 2009
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