di Alberto Asor Rosa
Dante, e in particolare la Commedia, stanno attraversando un periodo di grande fortuna. Merito principale, senza dubbio, delle letture gravi e profonde di Vittorio Sermonti e di quella appassionante e trascinante di Roberto Benigni (con qualche strafalcione in meno sarebbe ancora meglio). Però anche gli studi scientifico-accademici danno importanti segnali di risveglio. E' di questi giorni la comparsa di un Inferno, primo volume, ovviamente, di una terna il cui completamento s'aspetta a breve scadenza, «revisione del testo e commento» di Giorgio Inglese (Carocci, pagg. 416, euro 30): impresa d'impianto filologico classico, direi, ma sapientemente arricchita dell'enorme mole di dati linguistici e testuali accumulata nel corso degli ultimi decenni: con effetti di una chiarezza esemplare e di un'utilità interpretativa senza pari.
Pure di questi giorni è un Dante. Storia di un visionario di Guglielmo Gorni (Laterza, pagg. 346, euro 20). Attiro l'attenzione su quest'ultimo testo per i suoi molteplici pregi. Gorni è figura di studioso in sé esemplare. Insegna nelle Università una materia d'istituzionalizzazione abbastanza recente, - la filologia italiana, - che ha tuttavia acquisito un ruolo sempre più importante nelle definizioni delle problematiche proprie della storiografia letteraria (quando non sia caduta, come talvolta è accaduto, nelle mani di allegri dilettanti oppure di altezzosi incompetenti provenienti da aree disciplinari circonvicine). Siccome la formazione gorniana nasce dall'intersezione di due delle migliori scuole filologiche italiane, quella pavese (Corti, e anche un po' di Segre) e quella fiorentina (Domenico De Robertis), i presupposti di un'esemplare correttezza di metodi e di strumenti ci sono stati per lui fin dall' inizio della sua carriera, - e i risultati si sono visti progressivamente in maniera sempre più chiara.
Sono possibili due accezioni di metodo filologico - letterario. Una è quella che attribuisce alla filologia (da parte non di rado degli stessi specialisti del settore) una funzione eminentemente ancillare: in questo ambito essa serve a stabilire il dato certo, su cui altre forme del discorso (la critica, la storiografia letteraria) fonderanno il loro lavoro. L'altra sviluppa direttamente dall'acquisizione del dato filologico un proprio autonomo discorso, che in parte resta nel dominio della disciplina di competenza, in parte, via via crescendo, va a incrociare domini e discorsi delle altre. Guglielmo Gorni (e, lo dico di sfuggita, anche Giorgio Inglese: basti pensare ai suoi studi machiavelliani) appartiene decisamente a questa seconda variante del sapere filologico. Le sue indagini partono sempre da un'esigenza di ri-definizione circostanziata e certa di una tale questione, letteraria o storico-documentaria, per arrivare poi a una ri-discussione dei termini generali su cui quella cultura, messa in causa dall' incertezza del dato, si fonda. A questo si deve l'estrema ricchezza che caratterizza la sua produzione: sia che si tratti della poesia del Duecento o della Vita nova, di questioni di metrica o di tradizione poetica, dei problemi numerologici e ordinativi della Commedia oppure di testi umanistici o rinascimentali come quelli di Leon Battista Alberti o del Boiardo. Il Dante, di cui parliamo, rappresenta il culmine di questa lunga e intelligente ricerca.
Naturalmente, di «Danti» ne esiste un' infinità, più o meno autorevoli, più o meno condivisibili. Il fatto che se ne continui a «inventare» ha a che fare, ovviamente, con l'ineguagliabile profondità e ricchezza del Padre di ogni nostra lingua e poesia: il quale, ogniqualvolta entra o rientra in gioco, segnala un accrescimento della nostra consapevolezza critica e, al tempo stesso, un ritorno d'interesse per la nostra identità nazionale (non solo culturale). Il Dante di Gorni vuol, essere, secondo l'autore, «un ritratto in piedi», che cioè «non si limiti a raccogliere e a ordinare una bibliografia sterminata» (la quale pur tuttavia è presente ad ogni passo del libro, e discussa in tutti suoi punti nodali quando se ne manifesti la necessità), ma «che abbia un'idea forte dell'autore: tendenziosa magari, ma moderna e nuova». Quest' «idea forte», come si può capire, è quella del «visionario fallito»: tema sul quale tornerò in conclusione. Colpisce la straordinaria ricchezza del «racconto», e l'abilità, - si potrebbe definire «registica», - con cui è stato «montato» (anche nel senso della perfetta fusione tra i pezzi vecchi e quelli nuovi qui per la prima volta presentati). Gorni, infatti, affianca gli uni agli altri i capitoli più strettamente biografici e quelli di descrizione e interpretazione delle opere, in una sequenza unica e, quel che più importa profondamente unitaria. Non potendo entrare di più nel merito, mi limiterei ad osservare che riuscirebbe difficile segnalare un solo punto della vita di Dante o della sua produzione letteraria, poetica e trattatistica, che Gorni non abbia affrontato, discusso, descritto (sempre, per giunta, con grande chiarezza e piacevolezza affabulatoria) e reso plasticamente visibile al lettore dei nostri giorni. La filologia serve in questo caso mirabilmente a render perspicuo a chiunque quel che altrimenti avrebbe potuto restare, - e spesso di fatto resta, - celato sotto «il velame de li versi strani». Invece d' esser quel che più solitamente è, - un affare da specialisti, - diventa strumento per una didassi più allargata. Anche a questo si deve, - mi pare, - se il libro si legge con confortevole e gratificante accessibilità (salvo che in qualche punto necessariamente più tecnico).
Ridurrò a due le mie possibili osservazioni critiche. Per quando riguarda l'attribuzione a Dante della collana anepigrafa di sonetti denominata Il Fiore (e, conseguentemente, dell'altra che va sotto il nome di Detto d'Amore) per la quale Gorni, sia pure molto prudentemente di altri, sembra propendere, desidero dire che, destituito come sono di ogni specifica competenza in materia, condivido pienamente quelle che Gianfranco Contini, altro grande sostenitore dell'attribuzione, definiva un po' arrogantemente le «obiezioni umorali e reverenziali» dei contrari. E cioè (detto in maniera rozza e sommaria): prima di ammettere che i versi del Fiore siano stati veramente scritti da Dante, sarei disposto a farmi tagliare la mano che scrive queste righe.
Quanto al «visionarismo fallito», non si potrebbe osservare che quanto in Dante è altissima poesia o, anche più semplicemente, nobilissima ispirazione etico-politica, nasce esattamente dalla drammatica sproporzione che l'Autore, - soprattutto da un certo momento in poi della sua vita, - percepisce e coglie fra la sua personale «visione del mondo» e l'abissale, irrimediabile, inadeguatezza e mediocrità dei tempi suoi? Capita a Dante, - anche in questo compiutamente umano, - quel che è capitato a molti; di scoprire che non c'è accordo possibile fra ciò che si desidera e ciò che accade. Il fatto è che Dante, - e in ciò consiste il tratto più inconfondibile della sua fisionomia, - viene, non depresso, ma catapultato verso l'alto dal suo biografico, personale, individuale «fallimento». Del quale, dunque, dovremmo esser grati, visto che ne sono conseguiti effetti così grandiosi.
«La Repubblica» del 16 aprile 2008
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