di Marcello Foa
Che cosa unisce Berlusconi a Obama, passando per Sarkozy, Zapatero e, più indietro nel tempo, Blair, Schroeder, persino Mitterrand? Certo non il programma, né lo stile di governo, ma la «politica pop», ovvero la capacità di adattare il proprio linguaggio a quello dei media. Tema vecchio, osserverà qualcuno. Vero. Anzi, falso. Dipende come lo affronti. Se, per una volta, anziché lacerarsi sul conflitto di interessi del Cav si tenta di capire le dinamiche della comunicazione politica contemporanea, ci si accorgerà che in realtà sappiamo ben poco del modo in cui la tv ha contagiato la politica, cambiandola profondamente, non solo in Italia, ma in tutte le democrazie occidentali. E che alcune convinzioni radicate nell’opinione pubblica vanno riconsiderate. È quel che sostengono due studiosi dell’Università degli Studi di Milano, Gianpietro Mazzoleni, docente di Comunicazione politica e Sociologia della comunicazione, e Anna Sfardini, ricercatrice, in un bel saggio: Politica pop. Da «Porta a Porta» a «L’Isola dei Famosi» (il Mulino, 2009, euro 14). Un libro oggettivo, che non può essere considerato né di destra né di sinistra, né berlusconiano, né antiberlusconiano, eppure coraggioso e originale, come dimostra Gianpietro Mazzoleni in questa intervista al Giornale.
Popper definì la tv una «cattiva maestra», altri pensatori ne denunciano l’influenza nefasta e narcotizzante sulla democrazia. A torto o a ragione?
«Secondo Popper, Putnam e altri grandi studiosi la politica deve essere seria, alta, autorevole, con una spiccata funzione civica. Ma da quando si è sposata con la tv ha perso la sua sacralità e il tono si è abbassato. Oggi i criteri dominanti sono la celebrità, la seduzione, la visibilità. L’ideologia e il partito contano sempre meno, la personalità e il fascino del leader sempre di più. La politica si è adeguata al mondo dello spettacolo e allo star system, usa i suoi codici. Secondo molti studiosi si è involgarita, diminuendo la qualità della democrazia, noi riteniamo invece che il giudizio debba essere più articolato».
In che senso?
«Gli intellettuali e gli studiosi guardano i reality e inorridiscono, fanno zapping e non trovano nulla da vedere; non apprezzano questa tv, con qualche buona ragione peraltro. Ma non si interrogano sull’effetto che la tv ha sul popolo, sulla massa. Osservano dall’alto, non dal basso. Esprimono opinioni personali non suffragate però da recenti studi scientifici, che invece dimostrano una realtà diversa».
Vuole dire che la tv migliora la società?
«Dico che non è provata l’equazione secondo cui l’enorme consumo di programmi di intrattenimento provoca una fuga dalla politica e dunque l’erosione dell’impegno civico. Perché Obama ha trionfato alle ultime elezioni? Perché ha saputo usare al meglio gli strumenti della cultura popolare: la tv, il cinema, il teatro, gli spot, la musica, internet. Eppure Obama è piaciuto sia agli intellettuali che alla gente comune».
Ha vinto con un messaggio alto, promettendo una società migliore. Era pop, ma non trash...
«Esatto. Si è rifiutato di credere che il popolo fosse bue ed è stato premiato. La sua forza è stata quella di adattare il proprio programma alle esigenze e ai canoni di comunicazione degli americani».
Dunque il leader vincente è necessariamente un leader pop?
«Sì, perché sa essere in sintonia con i codici di questa società, che è sempre più spettacolarizzata. Come Obama, Reagan o Clinton e, in Italia, Berlusconi, che in quest’ottica, è tutt’altro che un’anomalia. Vince perché comunica meglio. E le reazioni di solidarietà della gente comune all’attentato di Milano, dimostrano che è davvero amato dai suoi elettori».
Nel libro spiega che cosa sono l’informazione-spettacolo e la politica-intrattenimento. Bisogna rivalutarle?
«In un certo senso sì. L’infotainement, le soft news e il politainement, ovvero l’informazione divertente, scanzonata, polemica, persino il gossip hanno anche degli effetti positivi. Avvicinano alla politica un pubblico che altrimenti se ne starebbe lontano, inducendolo a interessarsi alle vicende del Paese. Lo aiutano a tenersi minimamente informato e dunque a creare una cittadinanza sottile».
Voi dite: la gente, anche in Italia, è più informata di quanto si creda. Perché?
«È un dato oggettivo: oggi l’italiano medio è più informato rispetto a 40 anni fa. Ma bisogna chiedersi: dove trova le notizie? In una società pop il cittadino non si informa più solo guardando il Tg o leggendo i giornali, ma ricevendo messaggi da più fonti e da diversi formati televisivi. Ad esempio, i programmi a metà tra informazione e satira - come Striscia la notizia, Le Iene e aggiungo Crozza all’inizio di Ballarò - hanno una capacità di informazione molto più elevata di quanto si è disposti solitamente ad ammettere. Non tutti gli spettatori guardano una trasmissione eccellente come Report, ma un pubblico molto ampio attraverso i programmi di infotainement apprende notizie al di là dei propri interessi. E si forma un’opinione».
Anche programmi più popolari come Verissimo e Domenica In hanno una funzione informativa?
«Oggi un politico non può fare a meno di questi programmi. Non può limitarsi ad apparire nel Tg, a Porta a Porta o a Matrix. Partecipando a questi programmi diffonde le proprie idee, parla a un pubblico che altrimenti non raggiungerebbe e, affrontando temi di attualità, finisce per diffondere informazione, per quanto leggera e superficiale».
Vale di più una battuta a Striscia la notizia o una denuncia di Annozero?
«Santoro propone un’informazione selettiva e molto interpretativa: si rivolge a un pubblico composto da simpatizzanti e da gente che lo detesta. Striscia, invece, si rivolge a tutti, il suo tono scanzonato le permette di non avere una connotazione politica, ma è vista da milioni di persone. Avendo un’audience superiore ha verosimilmente un impatto maggiore. Certe battute lasciano il segno...».
Anche i reality, come il Grande Fratello, fanno informazione?
«L’esperienza dimostra che anche un reality può aiutare a creare, sebbene minimamente, una coscienza civica. Il televoto per eliminare i candidati rende consapevole il pubblico sull’importanza della partecipazione alle urne. L’intervento di Luxuria all’Isola dei Famosi è servito molto di più a combattere i pregiudizi su gay e transessuali di qualunque campagna informativa».
Livingstone sostiene che l’appartenenza a un’audience televisiva segnala l’identità di ognuno di noi. Vale anche per l’Italia?
«Direi di sì. Il pubblico che guarda Report ha certe caratteristiche; non è quello di Domenica in, che a sua volta ha poco in comune con quello di Che tempo che fa. Un tempo bastava parlare a Rai Uno per raggiungere tutti gli italiani, oggi non più. Viviamo in una società di massa, eppure il messaggio è sempre più articolato e frammentato. E il politico deve adeguarsi».
Gianpietro Mazzoleni è ordinario di Comunicazione politica all’università di Milano. Si è a lungo occupato del rapporto tra i partiti e i media e di come le nuove forme di comunicazione abbiano cambiato il rapporto tra i cittadini e chi li governa ed è membro dell’ECReA (European Communication Research Association). Tra i suoi precedenti libri ricordiamo: «The Media and Neo-Populism. A Comparative Perspective» (Praeger, Westport, Conn.) e «La comunicazione politica» (Il Mulino, Bologna).
Popper definì la tv una «cattiva maestra», altri pensatori ne denunciano l’influenza nefasta e narcotizzante sulla democrazia. A torto o a ragione?
«Secondo Popper, Putnam e altri grandi studiosi la politica deve essere seria, alta, autorevole, con una spiccata funzione civica. Ma da quando si è sposata con la tv ha perso la sua sacralità e il tono si è abbassato. Oggi i criteri dominanti sono la celebrità, la seduzione, la visibilità. L’ideologia e il partito contano sempre meno, la personalità e il fascino del leader sempre di più. La politica si è adeguata al mondo dello spettacolo e allo star system, usa i suoi codici. Secondo molti studiosi si è involgarita, diminuendo la qualità della democrazia, noi riteniamo invece che il giudizio debba essere più articolato».
In che senso?
«Gli intellettuali e gli studiosi guardano i reality e inorridiscono, fanno zapping e non trovano nulla da vedere; non apprezzano questa tv, con qualche buona ragione peraltro. Ma non si interrogano sull’effetto che la tv ha sul popolo, sulla massa. Osservano dall’alto, non dal basso. Esprimono opinioni personali non suffragate però da recenti studi scientifici, che invece dimostrano una realtà diversa».
Vuole dire che la tv migliora la società?
«Dico che non è provata l’equazione secondo cui l’enorme consumo di programmi di intrattenimento provoca una fuga dalla politica e dunque l’erosione dell’impegno civico. Perché Obama ha trionfato alle ultime elezioni? Perché ha saputo usare al meglio gli strumenti della cultura popolare: la tv, il cinema, il teatro, gli spot, la musica, internet. Eppure Obama è piaciuto sia agli intellettuali che alla gente comune».
Ha vinto con un messaggio alto, promettendo una società migliore. Era pop, ma non trash...
«Esatto. Si è rifiutato di credere che il popolo fosse bue ed è stato premiato. La sua forza è stata quella di adattare il proprio programma alle esigenze e ai canoni di comunicazione degli americani».
Dunque il leader vincente è necessariamente un leader pop?
«Sì, perché sa essere in sintonia con i codici di questa società, che è sempre più spettacolarizzata. Come Obama, Reagan o Clinton e, in Italia, Berlusconi, che in quest’ottica, è tutt’altro che un’anomalia. Vince perché comunica meglio. E le reazioni di solidarietà della gente comune all’attentato di Milano, dimostrano che è davvero amato dai suoi elettori».
Nel libro spiega che cosa sono l’informazione-spettacolo e la politica-intrattenimento. Bisogna rivalutarle?
«In un certo senso sì. L’infotainement, le soft news e il politainement, ovvero l’informazione divertente, scanzonata, polemica, persino il gossip hanno anche degli effetti positivi. Avvicinano alla politica un pubblico che altrimenti se ne starebbe lontano, inducendolo a interessarsi alle vicende del Paese. Lo aiutano a tenersi minimamente informato e dunque a creare una cittadinanza sottile».
Voi dite: la gente, anche in Italia, è più informata di quanto si creda. Perché?
«È un dato oggettivo: oggi l’italiano medio è più informato rispetto a 40 anni fa. Ma bisogna chiedersi: dove trova le notizie? In una società pop il cittadino non si informa più solo guardando il Tg o leggendo i giornali, ma ricevendo messaggi da più fonti e da diversi formati televisivi. Ad esempio, i programmi a metà tra informazione e satira - come Striscia la notizia, Le Iene e aggiungo Crozza all’inizio di Ballarò - hanno una capacità di informazione molto più elevata di quanto si è disposti solitamente ad ammettere. Non tutti gli spettatori guardano una trasmissione eccellente come Report, ma un pubblico molto ampio attraverso i programmi di infotainement apprende notizie al di là dei propri interessi. E si forma un’opinione».
Anche programmi più popolari come Verissimo e Domenica In hanno una funzione informativa?
«Oggi un politico non può fare a meno di questi programmi. Non può limitarsi ad apparire nel Tg, a Porta a Porta o a Matrix. Partecipando a questi programmi diffonde le proprie idee, parla a un pubblico che altrimenti non raggiungerebbe e, affrontando temi di attualità, finisce per diffondere informazione, per quanto leggera e superficiale».
Vale di più una battuta a Striscia la notizia o una denuncia di Annozero?
«Santoro propone un’informazione selettiva e molto interpretativa: si rivolge a un pubblico composto da simpatizzanti e da gente che lo detesta. Striscia, invece, si rivolge a tutti, il suo tono scanzonato le permette di non avere una connotazione politica, ma è vista da milioni di persone. Avendo un’audience superiore ha verosimilmente un impatto maggiore. Certe battute lasciano il segno...».
Anche i reality, come il Grande Fratello, fanno informazione?
«L’esperienza dimostra che anche un reality può aiutare a creare, sebbene minimamente, una coscienza civica. Il televoto per eliminare i candidati rende consapevole il pubblico sull’importanza della partecipazione alle urne. L’intervento di Luxuria all’Isola dei Famosi è servito molto di più a combattere i pregiudizi su gay e transessuali di qualunque campagna informativa».
Livingstone sostiene che l’appartenenza a un’audience televisiva segnala l’identità di ognuno di noi. Vale anche per l’Italia?
«Direi di sì. Il pubblico che guarda Report ha certe caratteristiche; non è quello di Domenica in, che a sua volta ha poco in comune con quello di Che tempo che fa. Un tempo bastava parlare a Rai Uno per raggiungere tutti gli italiani, oggi non più. Viviamo in una società di massa, eppure il messaggio è sempre più articolato e frammentato. E il politico deve adeguarsi».
Gianpietro Mazzoleni è ordinario di Comunicazione politica all’università di Milano. Si è a lungo occupato del rapporto tra i partiti e i media e di come le nuove forme di comunicazione abbiano cambiato il rapporto tra i cittadini e chi li governa ed è membro dell’ECReA (European Communication Research Association). Tra i suoi precedenti libri ricordiamo: «The Media and Neo-Populism. A Comparative Perspective» (Praeger, Westport, Conn.) e «La comunicazione politica» (Il Mulino, Bologna).
«Il Giornale» del 20 dicembre 2009
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