12 dicembre 2009

Un peccato così originale

Come il pensiero moderno ha cercato di cancellare il peccato originale, senza riuscirvi
di di Maurizio Schoepflin
In una lettera del 7 giugno 1793, indirizzata al filosofo Johann Friedrich Herder, Goethe scriveva tra l’altro: “Kant dopo aver avuto bisogno di una lunga vita umana per ripulire il suo mantello filosofico dai numerosi pregiudizi che l’insudiciavano, lo ha ignominiosamente imbrattato con la macchia vergognosa del male radicale affinché anche i cristiani siano allettati a baciarne il lembo”. Di quale grave colpa si era macchiato l’autore della “Critica della ragion pura” tanto da meritare un’accusa così pesante? ...Si trattava della questione del peccato originale, che qualcuno potrebbe essere ancora indotto a ritenere adatta solamente a teologi un po’ démodé o a pii seminaristi di qualche congregazione tradizionalista. In realtà, il problema del peccato originale campeggia da venti secoli al centro della ricerca e del dibattito filosofici e teologici e il ponderoso volume “Il peccato originale nel pensiero moderno”, curato per l’Editrice Morcelliana da Giuseppe Riconda, Marco Ravera, Claudio Ciancio e Gianluca Cuozzo, con le sue quasi novecento pagine ce lo ricorda con forza. Nel 1793, alla soglia dei settant’anni, il grande pensatore di Königsberg pubblicò l’opera “La religione entro i limiti della sola ragione”, il cui primo capitolo, recante il titolo “Della coesistenza del principio cattivo accanto a quello buono nella natura umana”, è dedicato all’importante e drammatica questione del male radicale: secondo Kant, vi è nell’uomo una tendenza innata e naturale verso il male, una sorta di corruzione che spinge l’essere umano ad agire non solamente in ossequio alla legge morale, ma anche cercando di soddisfare i propri impulsi sensibili e i propri desideri egoistici. Questo male radicale, che si presenta come la trascrizione filosofica del biblico peccato originale e che – afferma Kant – la gente comune si raffigura con i tratti del diavolo, è ineliminabile, e l’uomo non ha certo la possibilità di cancellarlo con le proprie forze, cosicché l’ estirpazione di esso ha richiesto l’intervento diretto di Dio, intervento che si è realizzato nell’incarnazione e nella venuta sulla terra di Gesù Cristo. Siamo così giunti ai limiti stessi della ragione, la quale, come non è in grado di spiegare l’origine ultima del male radicale, non è neppure capace di comprendere un evento, quale è quello dell’esistenza del Cristo storico, che la oltrepassa completamente. Scrive Kant: “La ragione, nella consapevolezza della sua impotenza a soddisfare alle sue esigenze morali, si estende fino a idee trascendenti, che potrebbero compensare quella deficienza, senza che la ragione se le attribuisca come un suo più esteso possesso. Essa non contesta né la possibilità, né la realtà degli oggetti di queste idee, ma solamente non può assumerle nelle sue massime del pensare e dell’agire. Anzi essa calcola che se, nell’insondabile campo del soprannaturale, v’è tuttavia, oltre ciò che essa può rendere comprensibile, ancora qualcosa, che sarebbe necessario per supplire all’impotenza morale; questo qualcosa, anche se sconosciuto, tornerà pertanto di grande aiuto alla sua buona volontà mediante una fede, che (riguardo alla sua possibilità) si potrebbe chiamare riflettente, poiché la fede dogmatica, che si spaccia per una scienza, apparisce alla ragione insincera o presuntuosa”..... Nel secondo capitolo dell’opera, che suona “Della lotta del principio buono con il cattivo per la signoria sull’uomo”, il filosofo prussiano si mostra sicuro che l’uomo può e deve essere in grado di superare lo scacco del male radicale, pena il venir meno della stessa attuabilità dell’imperativo morale: infatti, se non fosse possibile per l’uomo vincere la propria malvagità, non si darebbe vita etica.... A ciascuno si impone l’obbligo di impegnarsi con tutte le sue forze per far trionfare in sé la pura moralità; e tale impegno non potrà mai essere sostituito da alcuna pratica cultuale, anche se l’uomo è autorizzato a “sperare che ciò che non è in suo potere sarà completato da una cooperazione superiore”. L’unico vero culto resta per Kant la retta condotta morale: tutte le altre espressioni tipiche di una religiosità esteriore sono da lui considerate forme di superstizione, o di fantasticheria o, ancora, di follia religiosa. Come si può notare, ponendosi di fronte al terribile mistero del male, Kant appare per così dire combattuto: le esigenze della ragione, che egli non intende eludere, gli fanno prendere le distanze dalla credenza nel dogma cristiano, ma, nello stesso tempo, la tragica e insondabile presenza di un pervertimento posto alla radice stessa dell’essere umano lo spinge a riconoscere i limiti della razionalità che si dimostra incapace di offrire al riguardo una spiegazione plausibile. Anche dinanzi alla figura di Cristo Kant manifesta un atteggiamento oscillante ... ed è preoccupato del fatto che l’uomo possa attenuare il proprio impegno etico confidando nell’opera salvifica di Gesù Cristo, ma nello stesso tempo non esclude che in Lui Dio abbia voluto offrire all’umanità un sostegno soprannaturale nella lotta contro il male, sostegno senza il quale la battaglia sembrerebbe perduta in partenza. Emblematica la posizione kantiana, e per svariati motivi: per quel suo stare sul filo del rasoio tra razionalismo e fede religiosa, e per la coraggiosa accettazione del limite insito nella natura stessa dell’essere umano.
L’epoca moderna, che si era aperta con l’umanistica esaltazione della libertà e delle capacità dell’uomo e che con l’illuminismo aveva celebrato i trionfi della ragione e del progresso, si conclude con la densa e drammatica riflessione kantiana in merito all’esistenza del male radicale che conduce l’uomo ad autoingannarsi circa le proprie intenzioni e quindi alla slealtà verso se stesso e all’ipocrisia e all’inganno verso gli altri; un male radicale la cui presenza mette in grave crisi qualunque edificio speculativo e del quale, inoltre, resta incomprensibile l’origine. Certo, l’epoca moderna non ha sempre e soltanto intonato un inno alla bontà e alla grandezza dell’uomo: basti pensare, a questo proposito, al pessimismo antropologico di Martin Lutero che, sicuramente, influenzò lo stesso Kant. Ma non v’è dubbio che, dal Quattrocento in poi, la verità del peccato originale sembrò diventare via via sempre meno compatibile con una visione dell’uomo che si ritiene e si percepisce padrone di sé, arbitro della propria fortuna, capace di automigliorarsi e di progredire incessantemente, soprattutto in virtù delle sue capacità razionali. Seguendo questa linea interpretativa, non meraviglia l’esito ateistico di una parte considerevole della filosofia moderna, un esito che, riconducendo tutta la vita umana entro coordinate mondane, reinterpreta in maniera radicale il concetto stesso di peccato, come ben testimoniano le seguenti considerazioni di Ludwig Feuerbach, il celebre filosofo materialista, implacabile critico della religione e del cristianesimo in particolare: “Il segreto del peccato originale è il segreto del piacere sessuale. Tutti gli uomini sono concepiti nel peccato per il fatto che sono stati concepiti con gioia e piacere dei sensi, cioè naturalmente. L’atto della generazione, in quanto ricco di godimento, di godimento sensibile, è un atto peccaminoso. Il peccato si riproduce da Adamo fino a noi, solo per il fatto che la riproduzione è l’atto generativo naturale. E’ questo allora il grande segreto del peccato originale cristiano”. A questo punto, l’idea stessa di peccato d’origine come viene tramandata dalla chiesa cattolica è scomparsa: non vi è più alcun riferimento a Dio e alla libera disobbedienza nei suoi confronti; tutto vienericondotto all’aldiquà, alla terra e alla natura, alla dimensione materiale. Di qui scaturisce pure un nuovo modo di intendere il concetto e la necessità della liberazione dell’uomo da ciò che lo opprime. Non vi è più bisogno di un liberatore divino e la politica prenderà il posto della religione: sarà Karl Marx a portare a pieno compimento questa sostituzione. A suo giudizio, infatti, il male non deriva certamente dal peccato originale, bensì dall’ingiustizia sociale: toccherà dunque alla prassi rivoluzionaria affrancare l’umanità dalla sua cattiveria e dalle sue sofferenze, che secondo il padre del comunismo non provengono da un evento soprannaturale, ma hanno un’origine umana e, più precisamente, economico-sociale.
L’origine umana, troppo umana si vorrebbe dire, riecheggiando il celebre titolo di una sua opera, del peccato originale viene ribadita da Friedrich Nietzsche.... A giudizio del filosofo dello Zarathustra, sono proprio la religione e la morale da essa derivante l’autentico peccato originale: il compito che dunque si prospetta è quello di demolire, per quanto possibile, le cosiddette verità religiose, autentica causa di molti mali dell’uomo. Le complesse dottrine nietzscheane del “superuomo” e dell’ “eterno ritorno” possono essere interpretate come l’indicazione di due vie complementari di liberazione dal male e dal dolore, non tanto attraverso una loro impossibile soppressione, quanto mediante un’accettazione coraggiosa e vitale di essi, rifiutando la fede e l’etica cristiana, che rendono l’uomo sempre più timoroso, sempre più remissivo, sempre più schiavo. Di disponibilità a sopportare il dolore si può parlare anche a proposito di Dostoevskij: “l’accettazione della sofferenza è il primo gradino di una redenzione che si raggiunge solo con la purificazione e l’espiazione, e infine con la conversione, che mira a togliere il peccato e le sue conseguenze; la redenzione è il risultato di un’azione divina cui l’uomo può partecipare solo nel riconoscimento umile della propria colpa: non l’accettazione di un eterno ritorno del bene e del male, del dolore e della gioia, ma il trionfo del bene e della felicità per grazia divina e per l’azione del Cristo, per quanto incomprensibile per noi possa essere come ciò avvenga”.
Qui sta la differenza decisiva: da una parte, senza fare riferimento a Dio l’origine del male resta completamente sconosciuta, dall’altra, non facendo affidamento sull’opera salvifica di Gesù Cristo, si dilegua ogni speranza di opporsi a esso e di vincerlo, perché risulta evidente che uno sforzo puramente umano in questa direzione finisce sempre per rivelarsi una triste illusione, figlia della superbia. Il pensiero moderno di ispirazione cristiana, e più specificamente cattolica, ha costantemente insistito su questo punto, proponendo concezioni che, nel rispetto della rivelazione biblica e dei dogmi della chiesa, hanno perseguito un non facile equilibrio tra le esigenze della ragione e della fede, della libertà e della grazia, quell’equilibrio che rimane sconosciuto sia ai pessimisti che agli ottimisti che, come sosteneva Blaise Pascal, non sanno attentamente valutare la condizione paradossale e contraddittoria dell’uomo. Scrive l’autore dei Pensieri, facendo parlare la Sapienza divina: “Io ho creato l’uomo santo, innocente, perfetto; io l’ho colmato di luce e di intelligenza; gli ho comunicato la mia gloria e le mie meraviglie… ma non ha potuto sostenere tanta gloria senza cadere nella presunzione. Ha voluto rendersi centro di se stesso e indipendente dal mio soccorso. Si è sottratto al mio dominio; e uguagliandosi a me con il desiderio di trovare la sua felicità in se stesso, io l’ho abbandonato a se stesso”. La negazione del peccato originale rende del tutto incomprensibili le vicende dell’umanità, come il misconoscimento dell’intervento redentivo di Gesù Cristo vanifica completamente ogni speranza di salvezza.
Ne era profondamente convinto il beato Antonio Rosmini che, nello scritto Il razionalismo teologico, ebbe ad affermare: “Ed ella è cosa pur indubitata essere il dogma del peccato fondamento di tutto il Cristianesimo. Distrutto quel dogma è resa inutile la redenzione di Gesù Cristo o certo ella cessa di essere redenzione. Quindi è tolta la cagion massima dell’Incarnazione del Verbo. Per tali gradi si perviene alla distruzione del Cristianesimo, all’abolizione di tutto l’ordine soprannaturale, allo stabilimento del perfetto razionalismo”.
«Il Foglio» del 5 dicembre 2009

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