di Ida Dominijanni
È sempre il volto dell'altro, sostiene Emmanuel Lévinas, la misura e la prova della nostra umanità, perché è nel volto dell'altro che è inscritta la sua e la nostra vulnerabilità. Il volto ferito di Silvio Berlusconi, una lacerazione improvvisa e violenta nella costruzione senza tempo e senza rughe della sua immagine personale e politica, si presta poco all'uso strumentale cui è stato subito piegato dai suoi pasdaran e in cui, come sempre, sembrano irretiti gran parte dei suoi oppositori. Quel volto colpisce più a fondo, con l'impatto di un'istantanea senza ritorno.
Con il suo consueto istinto, Berlusconi stesso è stato il primo a capirlo, offrendosi alla vista della folla e delle telecamere senza nascondere la ferita e anzi impugnandola. Un gesto che non sta solo nello stile mediatico del personaggio, ma sembra piuttosto guidato dall'ansia del dopo. Che ne sarà, dopo, dell'immagine del premier? L'icona del sovrano non contempla ferite, e tanto lo sapevano i costruttori della sovranità moderna da inventare, con la geniale formula del doppio corpo del re, il modo di trascendere in un corpo sacro e immortale la vulnerabilità di quello secolare e reale. Ma Berlusconi, maschera postmoderna di una sovranità terminale, di corpi ne ha uno solo, ed è sulla sua integrità, durata, potenza e padronanza che ha sempre puntato le sue chance. Neanche l'ostensione quasi sacrale del suo sangue al suo popolo lo garantisce, oggi, dall'effetto di vulnerabilità che quell'immagine senza ritorno del suo volto oltraggiato produce.
Lo sanno anche i suoi, ed è per questo che, loro sì con poca umanità, si sono affannati all'istante non tanto a chiedere solidarietà per il premier e condanna per l'attentatore, due cose evidentemente dovute e sentite, quanto a pretendere genuflessioni, retromarce, confessioni di colpa, ammissioni di responsabilità, impegni di autosilenziamento dall'opposizione in tutte le sue frantumate espressioni, d'un tratto accomunate nel ruolo del «mandante» del dissennato Tartaglia. Una marea montante di insulti e attacchi che la dice lunga sulla quantità di rancore di cui la cerchia ristretta degli amici e delle amiche del premier, i Cicchitto e le Carfagna, è affetta e infetta: dal rancore verso Veronica Lario, indirettamente citata ritorcendo contro la sinistra la denuncia del «ciarpame» che fu sua contro il marito, a quello verso Rosi Bindi, che fu rea di «indisponibilità» verso il premier e oggi è rea di dire una verità impronunciabile (anche per i suoi compagni di campo), cioè che se clima di violenza c'è, fra i suoi artefici va annoverato anche Berlusconi che pertanto non ne è solo vittima. E ancora, dal rancore ribadito verso la magistratura al rancore riciclato per gli anni Settanta, improvvisamente riportati al centro della scena come un deposito fantasmatico di violenza di piazza e «giustificazionismo» della sinistra, in un crescendo - violento - di semplificazioni e falsificazioni che smentiscono, se ce ne fosse bisogno, qualsiasi pretesa di buone intenzioni nell'appello ipocrita all'abbassamento dei toni, alla collaborazione istituzionale e al dialogo democratico.
In politica però i fantasmi sono pessimi consiglieri. E il fantasma degli anni di piombo, evocato con strumentale leggerezza, rischia di portare fuori strada non solo gli amici ma altresì gli avversari del premier ferito. C'è un doppio salto mortale alla base del teorema che i cortigiani del principe stanno allestendo da quarantotto ore in qua: l'aggressione a Berlusconi è opera di uno squilibrato, dunque non c'entrerebbe nulla con la violenza politica organizzata degli anni di piombo, se non fosse per la faccenda dei mandanti, che invece le accomuna: cattivi maestri allora, cattivi maestri oggi, con la differenza che allora i cattivi maestri erano gli estremisti di sinistra e oggi sono i giudici della Corte costituzionale. Oggi come allora però, al fondo il ritornello è lo stesso: parlare significa instigare ad agire, criticare equivale ad armare le mani, riempire le piazze significa fiancheggiare i violenti. Morale, non si disturba il manovratore. E' un ritornello irricevibile, che se rischia di fiaccare ulteriorente un'opposizione istituzionale allo sbando, e se ha buone probabilità di ricompattare le fratture che cominciavano a palesarsi nella maggioranza, non ha molte speranze di essere ascoltato dove comunque monta la stanchezza sociale per il ventennio berlusconiano e le sue promesse mancate.
Tuttavia non è solo questo il punto. Marcare la differenza, per poi accorciare le distanze, fra «il pazzo isolato» di oggi e la violenza organizzata di ieri rischia di appannare lo sguardo di fronte alle vere, abissali differenze fra il clima di trent'anni fa e quello di oggi. Se oggi l'instabile Tartaglia aggredisce indisturbato il presidente del consiglio durante un bagno di folla, il perché non va cercato nella differenza fra la miniatura del duomo di Milano e i sampietrini del '77. Va cercata in una deriva della politica che nutre il potere di seduzione e identificazione ma perciò stesso lo rende vulnerabile dall'antipatia e dalla disidentificazione, blandisce i leader nei bagni di folla e nei bagni di folla li tradisce, riduce la rappresentanza e l'azione collettiva all'impotenza. Il gesto di un folle è il gesto di un folle, ma nella follia, lo sappiamo, ci sono più verità di quanto i sani di mente vogliano o possano talvolta ammettere.
Con il suo consueto istinto, Berlusconi stesso è stato il primo a capirlo, offrendosi alla vista della folla e delle telecamere senza nascondere la ferita e anzi impugnandola. Un gesto che non sta solo nello stile mediatico del personaggio, ma sembra piuttosto guidato dall'ansia del dopo. Che ne sarà, dopo, dell'immagine del premier? L'icona del sovrano non contempla ferite, e tanto lo sapevano i costruttori della sovranità moderna da inventare, con la geniale formula del doppio corpo del re, il modo di trascendere in un corpo sacro e immortale la vulnerabilità di quello secolare e reale. Ma Berlusconi, maschera postmoderna di una sovranità terminale, di corpi ne ha uno solo, ed è sulla sua integrità, durata, potenza e padronanza che ha sempre puntato le sue chance. Neanche l'ostensione quasi sacrale del suo sangue al suo popolo lo garantisce, oggi, dall'effetto di vulnerabilità che quell'immagine senza ritorno del suo volto oltraggiato produce.
Lo sanno anche i suoi, ed è per questo che, loro sì con poca umanità, si sono affannati all'istante non tanto a chiedere solidarietà per il premier e condanna per l'attentatore, due cose evidentemente dovute e sentite, quanto a pretendere genuflessioni, retromarce, confessioni di colpa, ammissioni di responsabilità, impegni di autosilenziamento dall'opposizione in tutte le sue frantumate espressioni, d'un tratto accomunate nel ruolo del «mandante» del dissennato Tartaglia. Una marea montante di insulti e attacchi che la dice lunga sulla quantità di rancore di cui la cerchia ristretta degli amici e delle amiche del premier, i Cicchitto e le Carfagna, è affetta e infetta: dal rancore verso Veronica Lario, indirettamente citata ritorcendo contro la sinistra la denuncia del «ciarpame» che fu sua contro il marito, a quello verso Rosi Bindi, che fu rea di «indisponibilità» verso il premier e oggi è rea di dire una verità impronunciabile (anche per i suoi compagni di campo), cioè che se clima di violenza c'è, fra i suoi artefici va annoverato anche Berlusconi che pertanto non ne è solo vittima. E ancora, dal rancore ribadito verso la magistratura al rancore riciclato per gli anni Settanta, improvvisamente riportati al centro della scena come un deposito fantasmatico di violenza di piazza e «giustificazionismo» della sinistra, in un crescendo - violento - di semplificazioni e falsificazioni che smentiscono, se ce ne fosse bisogno, qualsiasi pretesa di buone intenzioni nell'appello ipocrita all'abbassamento dei toni, alla collaborazione istituzionale e al dialogo democratico.
In politica però i fantasmi sono pessimi consiglieri. E il fantasma degli anni di piombo, evocato con strumentale leggerezza, rischia di portare fuori strada non solo gli amici ma altresì gli avversari del premier ferito. C'è un doppio salto mortale alla base del teorema che i cortigiani del principe stanno allestendo da quarantotto ore in qua: l'aggressione a Berlusconi è opera di uno squilibrato, dunque non c'entrerebbe nulla con la violenza politica organizzata degli anni di piombo, se non fosse per la faccenda dei mandanti, che invece le accomuna: cattivi maestri allora, cattivi maestri oggi, con la differenza che allora i cattivi maestri erano gli estremisti di sinistra e oggi sono i giudici della Corte costituzionale. Oggi come allora però, al fondo il ritornello è lo stesso: parlare significa instigare ad agire, criticare equivale ad armare le mani, riempire le piazze significa fiancheggiare i violenti. Morale, non si disturba il manovratore. E' un ritornello irricevibile, che se rischia di fiaccare ulteriorente un'opposizione istituzionale allo sbando, e se ha buone probabilità di ricompattare le fratture che cominciavano a palesarsi nella maggioranza, non ha molte speranze di essere ascoltato dove comunque monta la stanchezza sociale per il ventennio berlusconiano e le sue promesse mancate.
Tuttavia non è solo questo il punto. Marcare la differenza, per poi accorciare le distanze, fra «il pazzo isolato» di oggi e la violenza organizzata di ieri rischia di appannare lo sguardo di fronte alle vere, abissali differenze fra il clima di trent'anni fa e quello di oggi. Se oggi l'instabile Tartaglia aggredisce indisturbato il presidente del consiglio durante un bagno di folla, il perché non va cercato nella differenza fra la miniatura del duomo di Milano e i sampietrini del '77. Va cercata in una deriva della politica che nutre il potere di seduzione e identificazione ma perciò stesso lo rende vulnerabile dall'antipatia e dalla disidentificazione, blandisce i leader nei bagni di folla e nei bagni di folla li tradisce, riduce la rappresentanza e l'azione collettiva all'impotenza. Il gesto di un folle è il gesto di un folle, ma nella follia, lo sappiamo, ci sono più verità di quanto i sani di mente vogliano o possano talvolta ammettere.
«Il Manifesto» del 15 dicembre 2009
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