Una grande mostra a 500 anni dalla morte. Nel famosissimo quadro «La «Tempesta» sarebbe raffigurata la nascita di Silvio, figlio postumo di Enea. Mentre l’«Alabardiere» potrebbe essere «Enea e Anchise agli inferi»
di Massimo Pulini
Come è noto Le Vite di Giorgio Vasari segnano l’avvio della moderna storiografia artistica ma al loro interno, tra le migliaia di opere ricordate, vi è un dipinto veneziano che fa subito comprendere come questa disciplina sia destinata ad accompagnarsi al dubbio. Tra la prima e la seconda edizione del suo capitale testo il cronista-pittore aretino cambia idea circa l’autore del Cristo portacroce, tuttora conservato nella Scuola Grande di San Rocco. All’inizio, nel 1550, lo dice di Giorgione mentre diciotto anni dopo, nell’ultima versione, si corregge in favore di Tiziano. Nel frattempo la tela era divenuta la più famosa e venerata della città lagunare e lo stesso Vasari si divertì a dire che quell’unico quadro aveva già raccolto, in elemosine, molto più di quello che Giorgione e Tiziano erano riusciti a guadagnare nell’arco della loro vita.
Zorzi da Castelfranco, a differenza del longevo doge della pittura, non ebbe modo di diventare ricco, non raggiunse nemmeno l’età di Cristo, morendo in tempo di peste giusto mezzo millennio fa. Di lui conosciamo una parte esigua del tanto che riuscì a dipingere, ma è stata sufficiente a farlo diventare oltremodo famoso, a renderlo simile ad una divinità i cui contorni si perdono nell’orizzonte di un paesaggio mitologico.
Quelle poche pitture, per giunta, vengono periodicamente messe in forse, nell’attribuzione o nel significato, a partire dal Vasari ma con un aumento esponenziale delle dispute nel Novecento, fino al punto che, come scrisse D’Annunzio, «...taluno non gli riconosce alcuna opera certa. Pure, tutta l’arte veneziana sembra infiammata dalla sua rivelazione...».
Questo sembra il destino di Giorgione: è certa la sua grandezza ma è grande anche la precarietà delle sue certezze. Tutto questo lo fa divenire metafora e emblema della stessa storia dell’arte, intesa come scienza delle opinioni.
Eppure i quadri esistono, sparsi nei quattro cantoni del mondo, a raccontarci i loro enigmi più complessi e, anche per questo, più avvincenti. Così li si chiama a convegno ogni volta che le analisi condotte su un capolavoro sembrano diradarne la nebbia della lettura; quando un restauro vi elimina qualche figura aggiunta o ne rivela un’altra fino ad ora celata; ogni volta che un centenario, della nascita o della morte, si affaccia alla soglia del presente. Non tutti si sono mossi all’appello indetto dal magnifico paese natale - Castelfranco Veneto - , non lo fanno nemmeno le star di un disciolto complesso musicale, ma, dopo quella veneziana del 1955, questa è la più completa e studiata esposizione che in suo nome sia stata fatta.
È la prima volta che il presepe delle opere giorgionesche, dalla Tempesta al Tramonto, viene allestito attorno alla sublime pala della cappella Costanzo, vicino al trono rialzato della Vergine e del Bambino, che sembrano volare sul paesaggio terso delle colline trevigiane. Sotto di loro, nel drastico taglio segnato da due paraventi di velluto rosso, quel che sembra un altro quadro è ambientato in un interno, con due santi in piedi davanti ad un sepolcro di pietra che ha color della terra, entro cui riposa Matteo Costanzo morto, a soli 23 anni, nella guerra detta del Casentino.
Al cospetto di questa Madonna della tregua, così venne intesa dal Pignatti, verrebbe voglia di chiedere pace all’agone delle idee e almeno per tutto l’arco della mostra, curata egregiamente da Enrico Maria Dal Pozzolo e da Lionello Puppi (catalogo Skira), si lascino parlare i quadri nella loro eloquenza muta.
Invece so già che ripartiranno le polemiche e che, forse senza intenzione, verranno stanate proprio dall’evento di Castelfranco. Prenderanno le mosse dalla semplice lettura delle didascalie poste in calce alle opere, perché un titolo bisogna pur darlo ma con quello già si parteggia per una corrente iconologica a discapito di un’altra.
Dopo le infinite ipotesi sulla Tempesta resta ad esempio fuori dalla mostra e dal catalogo, perché resa nota troppo di recente, quella che a mio avviso è la via maestra per interpretarne il tema. Una strada proposta da Carlo Falciani in un saggio, circostanziato e mirabile, apparso sull’ultimo numero della rivista 'Lo Studiolo', in cui si analizza un poemetto scritto nel 1482 da Bernardino da Firenze e dedicato alla famiglia Vendramin, la stessa che una ventina di anni più tardi chiederà a Giorgione l’esecuzione del quadro. Il volume encomiastico fonda le sue ragioni concettuali sul paragone tra An- drea Vendramin, che nel Trecento fu il vanto militare del casato, e Silvio, figlio postumo di Enea, che da adulto ottenne l’asta pura, massima onorificenza ai soldati dell’antichità. Sintetizzando, secondo Falciani la scena dipinta dall’artista sarebbe da leggersi come la nascita di Silvio nel bosco, osservata da se medesimo adulto, in evocazione del passo di Virgilio in cui Anchise accoglie Enea nella terra dei morti rivelandogli la nascita silvana del figlio. Aggiungo io che, per questa stessa ragione, penso alla figura del soldato come allo stesso Enea, colto nell’atto di scrutare, di qua dal fiume simbolico, la propria sposa allattare il piccolo Silvio.
Il Giorgione virgiliano, sostanzialmente eluso dall’apparato critico della mostra, non è però una 'invenzione' dell’ultima ora e può fornire uno sguardo diverso anche a opere a prima vista generiche, come l’Alabardiere con altra figura di Vienna (così recita la didascalia) che, secondo una geniale intuizione di Maurizio Calvesi, sarebbe invece il perduto Enea e Anchise agli inferi , ricordato dalle fonti nella raccolta Contarini.
Infine, per chi avesse paura di infrangere la sacralità di un mistero nell’individuare il senso recondito di un’opera, soccorre proprio questo svelamento di Calvesi che invece restituisce una struggente poesia sentimentale ad una tela finora sospesa in un purgatorio decorativo. Il vecchio Anchise, ombra nell’ombra, sfiora la mano al figlio mentre gli sta rivelando il futuro, così lo sguardo di Enea, che dal pieno dei pensieri si perde nel vuoto, riacquista una assoluta e commovente pregnanza concettuale.
Zorzi da Castelfranco, a differenza del longevo doge della pittura, non ebbe modo di diventare ricco, non raggiunse nemmeno l’età di Cristo, morendo in tempo di peste giusto mezzo millennio fa. Di lui conosciamo una parte esigua del tanto che riuscì a dipingere, ma è stata sufficiente a farlo diventare oltremodo famoso, a renderlo simile ad una divinità i cui contorni si perdono nell’orizzonte di un paesaggio mitologico.
Quelle poche pitture, per giunta, vengono periodicamente messe in forse, nell’attribuzione o nel significato, a partire dal Vasari ma con un aumento esponenziale delle dispute nel Novecento, fino al punto che, come scrisse D’Annunzio, «...taluno non gli riconosce alcuna opera certa. Pure, tutta l’arte veneziana sembra infiammata dalla sua rivelazione...».
Questo sembra il destino di Giorgione: è certa la sua grandezza ma è grande anche la precarietà delle sue certezze. Tutto questo lo fa divenire metafora e emblema della stessa storia dell’arte, intesa come scienza delle opinioni.
Eppure i quadri esistono, sparsi nei quattro cantoni del mondo, a raccontarci i loro enigmi più complessi e, anche per questo, più avvincenti. Così li si chiama a convegno ogni volta che le analisi condotte su un capolavoro sembrano diradarne la nebbia della lettura; quando un restauro vi elimina qualche figura aggiunta o ne rivela un’altra fino ad ora celata; ogni volta che un centenario, della nascita o della morte, si affaccia alla soglia del presente. Non tutti si sono mossi all’appello indetto dal magnifico paese natale - Castelfranco Veneto - , non lo fanno nemmeno le star di un disciolto complesso musicale, ma, dopo quella veneziana del 1955, questa è la più completa e studiata esposizione che in suo nome sia stata fatta.
È la prima volta che il presepe delle opere giorgionesche, dalla Tempesta al Tramonto, viene allestito attorno alla sublime pala della cappella Costanzo, vicino al trono rialzato della Vergine e del Bambino, che sembrano volare sul paesaggio terso delle colline trevigiane. Sotto di loro, nel drastico taglio segnato da due paraventi di velluto rosso, quel che sembra un altro quadro è ambientato in un interno, con due santi in piedi davanti ad un sepolcro di pietra che ha color della terra, entro cui riposa Matteo Costanzo morto, a soli 23 anni, nella guerra detta del Casentino.
Al cospetto di questa Madonna della tregua, così venne intesa dal Pignatti, verrebbe voglia di chiedere pace all’agone delle idee e almeno per tutto l’arco della mostra, curata egregiamente da Enrico Maria Dal Pozzolo e da Lionello Puppi (catalogo Skira), si lascino parlare i quadri nella loro eloquenza muta.
Invece so già che ripartiranno le polemiche e che, forse senza intenzione, verranno stanate proprio dall’evento di Castelfranco. Prenderanno le mosse dalla semplice lettura delle didascalie poste in calce alle opere, perché un titolo bisogna pur darlo ma con quello già si parteggia per una corrente iconologica a discapito di un’altra.
Dopo le infinite ipotesi sulla Tempesta resta ad esempio fuori dalla mostra e dal catalogo, perché resa nota troppo di recente, quella che a mio avviso è la via maestra per interpretarne il tema. Una strada proposta da Carlo Falciani in un saggio, circostanziato e mirabile, apparso sull’ultimo numero della rivista 'Lo Studiolo', in cui si analizza un poemetto scritto nel 1482 da Bernardino da Firenze e dedicato alla famiglia Vendramin, la stessa che una ventina di anni più tardi chiederà a Giorgione l’esecuzione del quadro. Il volume encomiastico fonda le sue ragioni concettuali sul paragone tra An- drea Vendramin, che nel Trecento fu il vanto militare del casato, e Silvio, figlio postumo di Enea, che da adulto ottenne l’asta pura, massima onorificenza ai soldati dell’antichità. Sintetizzando, secondo Falciani la scena dipinta dall’artista sarebbe da leggersi come la nascita di Silvio nel bosco, osservata da se medesimo adulto, in evocazione del passo di Virgilio in cui Anchise accoglie Enea nella terra dei morti rivelandogli la nascita silvana del figlio. Aggiungo io che, per questa stessa ragione, penso alla figura del soldato come allo stesso Enea, colto nell’atto di scrutare, di qua dal fiume simbolico, la propria sposa allattare il piccolo Silvio.
Il Giorgione virgiliano, sostanzialmente eluso dall’apparato critico della mostra, non è però una 'invenzione' dell’ultima ora e può fornire uno sguardo diverso anche a opere a prima vista generiche, come l’Alabardiere con altra figura di Vienna (così recita la didascalia) che, secondo una geniale intuizione di Maurizio Calvesi, sarebbe invece il perduto Enea e Anchise agli inferi , ricordato dalle fonti nella raccolta Contarini.
Infine, per chi avesse paura di infrangere la sacralità di un mistero nell’individuare il senso recondito di un’opera, soccorre proprio questo svelamento di Calvesi che invece restituisce una struggente poesia sentimentale ad una tela finora sospesa in un purgatorio decorativo. Il vecchio Anchise, ombra nell’ombra, sfiora la mano al figlio mentre gli sta rivelando il futuro, così lo sguardo di Enea, che dal pieno dei pensieri si perde nel vuoto, riacquista una assoluta e commovente pregnanza concettuale.
Castelfranco Veneto, Museo Casa Giorgione
GIORGIONE
Fino a 11 aprile 2010
GIORGIONE
Fino a 11 aprile 2010
«Avvenire» del 15 dicembre 2009
1 commento:
Enea Non poteva osservare il figlio Silvio dato che Nacque postumo il giovane nel dipinto è Silvio "Colui,che vedi,quel giovane che all'asta pura s'appoggia ,èil più vicino allaluce per sorte...."(v.760-761,L.VI, Eneide.
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