Croce sbagliava: insegnare la letteratura non basta
di Paolo Di Stefano
Un documento della Crusca e dei Lincei lancia l'allarme: i ragazzi ignorano la lingua madre
L'italiano a scuola è minacciato. Da chi? Da tutti (o quasi): dalla politica, e cioè dalle riforme previste o, meglio, minacciate, dagli allievi che non vogliono saperne di regole in generale, figurarsi di quelle grammaticali, persino dai professori, e vedremo perché. L’insegnamento dell’italiano è minacciato anche (o soprattutto) dalla società, che offre poli di attrazione ben diversi dall’approfondimento della lingua-madre: immagini, tecnologie, internet, l’immancabile televisione eccetera.
La riforma, si diceva: per alcuni indirizzi della scuola superiore prevede una riduzione. Ma non è questo quel che conta davvero: a preoccupare è l’atteggiamento di generale superficialità con cui si guarda alla nostra lingua. Per esempio, a molti addetti ai lavori è sembrata una provocazione, con questi chiari di luna, la recente crociata leghista per il dialetto nelle scuole. I chiari di luna sono quelli che impietosamente emergono dalle classifiche internazionali (Ocse-Pisa) riguardanti le competenze linguistiche dei nostri giovani, collocati agli ultimi posti. Per queste buone ragioni, le due maggiori accademie italiane, la Crusca e i Lincei, hanno deciso di lanciare un appello su Lingua italiana, scuola, sviluppo, partendo da un principio solo apparentemente assodato: «una padronanza medio-alta dell’italiano è un bene per il Paese e il suo sviluppo culturale ed economico ». Assodato? Niente affatto, sarebbe meglio non dare niente per scontato. Vi ricordate il famoso slogan delle tre «I» su cui un passato governo Berlusconi fondava la prospettiva di una scuola rinnovata? C’era di tutto (inglese internet impresa) salvo che l’italiano che pure aveva la stessa iniziale.
L’appello degli accademici, steso da Francesco Bruni, sostiene che «una conoscenza della lingua materna sicura e ricca, che non si limiti ai bisogni comunicativi primari, elementari (...) è una precondizione per un Paese civile». Quel che si propone è insomma «un deciso rafforzamento dell’italiano nell’insegnamento scolastico». Con una sottolineatura: che le ore dedicate alla lingua siano tenute ben distinte da quelle riguardanti la lettura dei testi. Il che riduce l’antica prevalenza crociana della letteratura come disciplina regina, per ripartire più terre à terre dalla lingua d’uso. Il paradosso vuole addirittura che studenti Erasmus venuti da noi dopo aver imparato l’italiano all’estero siano più preparati dei nostri sulle strutture morfologiche e sintattiche e persino sul lessico.
Il filologo Cesare Segre, professore universitario di lungo corso, conosce bene le carenze degli studenti: «Sanno poche parole, non sono capaci di costruire frasi complesse e fanno errori di ortografia gravissimi, insomma non sanno usare la lingua: riassumere, raccontare, riferire. Questo significa che non hanno il dominio della realtà, perché la lingua è il modo che abbiamo per metterci in contatto con il mondo: e se non sei capace di esprimerti non sei capace di giudicare. Per di più la civiltà dell’immagine in genere usa la lingua per formulare slogan e non ragionamenti». C’è poi la questione della presunta concorrenza dell’inglese: «Se non possiedi la struttura della tua lingua non sei in grado di imparare le altre, per questo le campagne a favore dell’inglese non hanno senso se non si legano a un miglioramento dell’italiano».
Basterà rivedere i programmi? Aggiungere un’ora? O mantenere le attuali? Il presidente d’onore della Crusca, Francesco Sabatini, punta su un aspetto che definisce paradossale: «Non c’è nessun collegamento tra la formazione universitaria e l’immissione degli insegnanti nella scuola: si richiederebbe una competenza linguistica e tecnico-didattica specifica. Un tempo poteva insegnare italiano nelle superiori anche un laureato in giurisprudenza che aveva fallito la carriera di avvocato oppure un laureato in pedagogia. Ma ancora oggi se io chiedo a cento professori di italiano quanti hanno studiato linguistica o storia della lingua, rispondono positivamente soltanto in dieci. Il predominio della letteratura è un tardo influsso crociano». Non per niente Sabatini ha scritto già un paio d’anni fa un saggio intitolato Lettera sul ritorno alla grammatica. Ma contro la grammatica sembrano schierarsi persino i professori, che forse sarebbero i primi a doverla imparare: «È vero, c’è un blocco dei docenti, i quali sostengono che chi sa bene la letteratura può insegnare tranquillamente la lingua. Per non dire poi dei ministeri, che ignorano persino l’esistenza di una disciplina che si chiama linguistica». Insomma, ci vorrebbe, secondo Sabatini, una politica mirata all’insegnamento dell’italiano, tenendo conto del fatto che l’italiano serve a tutti i cittadini e a tutti i professionisti: non solo ai docenti di italiano, ma ai magistrati, agli avvocati, ai medici, agli ingegneri eccetera.
E il dialetto? «È importante culturalmente, storicamente, strutturalmente. Va bene presentarlo, ma insegnarlo sistematicamente sarebbe una follia: il dialetto si impara, non si insegna». Bisogna andare sul campo, come si dice, per avere una voce ancora più netta sulla questione. Carla Marello è glottodidatta all’Università di Torino e si occupa molto dell’insegnamento a stranieri. Una prospettiva diversa? «No, tutto ciò che vale nell’insegnamento dell’italiano agli stranieri, serve a maggior ragione per i parlanti nativi. Oggi poi...». Oggi? «Con le classi multilingue l’insegnamento dell’italiano è cambiato per forza. Se poi sentiamo in televisione il Grande Fratello, si capisce subito che la lingua dei giovani è diversa da quella delle antologie scolastiche e dalle scritture artificiali che si richiedono nei temi». Dunque? «La scuola continua a insegnare un italiano fittizio, c’è un distacco enorme tra l’esempio che diamo e ciò che gli allievi sono in grado di recepire. Dunque se vogliamo che l’italiano scritto dei nostri ragazzi migliori dobbiamo impegnarci a farli scrivere di cose concrete, con un insegnamento molto pratico che non guardi più alla lingua letteraria come al solo modello». Bandire la letteratura? «No, si arriverà alla letteratura come massimo grado di utilità e bellezza, ma prima punterei su forme di scrittura meno belle e più concrete, senza ostinarmi a perseguire norme utopiche e senza dare per scontato niente». Proprio niente? Neanche la differenza tra scritto e orale? «Tra scritto e parlato c’è uno scollamento enorme: puntando sul parlato, alzeremo anche il livello dello scritto. Sempre meglio dire: 'se lo sapevo non venivo' piuttosto che 'se non lo saprei non verrei'. Che bisogno c’è di pretendere a tutti i costi 'se l’avessi saputo non sarei venuto'? Pazienza se non sarà lo scritto di Igor Man o di Scalfari, ma quello più realistico della Littizzetto! ».
La riforma, si diceva: per alcuni indirizzi della scuola superiore prevede una riduzione. Ma non è questo quel che conta davvero: a preoccupare è l’atteggiamento di generale superficialità con cui si guarda alla nostra lingua. Per esempio, a molti addetti ai lavori è sembrata una provocazione, con questi chiari di luna, la recente crociata leghista per il dialetto nelle scuole. I chiari di luna sono quelli che impietosamente emergono dalle classifiche internazionali (Ocse-Pisa) riguardanti le competenze linguistiche dei nostri giovani, collocati agli ultimi posti. Per queste buone ragioni, le due maggiori accademie italiane, la Crusca e i Lincei, hanno deciso di lanciare un appello su Lingua italiana, scuola, sviluppo, partendo da un principio solo apparentemente assodato: «una padronanza medio-alta dell’italiano è un bene per il Paese e il suo sviluppo culturale ed economico ». Assodato? Niente affatto, sarebbe meglio non dare niente per scontato. Vi ricordate il famoso slogan delle tre «I» su cui un passato governo Berlusconi fondava la prospettiva di una scuola rinnovata? C’era di tutto (inglese internet impresa) salvo che l’italiano che pure aveva la stessa iniziale.
L’appello degli accademici, steso da Francesco Bruni, sostiene che «una conoscenza della lingua materna sicura e ricca, che non si limiti ai bisogni comunicativi primari, elementari (...) è una precondizione per un Paese civile». Quel che si propone è insomma «un deciso rafforzamento dell’italiano nell’insegnamento scolastico». Con una sottolineatura: che le ore dedicate alla lingua siano tenute ben distinte da quelle riguardanti la lettura dei testi. Il che riduce l’antica prevalenza crociana della letteratura come disciplina regina, per ripartire più terre à terre dalla lingua d’uso. Il paradosso vuole addirittura che studenti Erasmus venuti da noi dopo aver imparato l’italiano all’estero siano più preparati dei nostri sulle strutture morfologiche e sintattiche e persino sul lessico.
Il filologo Cesare Segre, professore universitario di lungo corso, conosce bene le carenze degli studenti: «Sanno poche parole, non sono capaci di costruire frasi complesse e fanno errori di ortografia gravissimi, insomma non sanno usare la lingua: riassumere, raccontare, riferire. Questo significa che non hanno il dominio della realtà, perché la lingua è il modo che abbiamo per metterci in contatto con il mondo: e se non sei capace di esprimerti non sei capace di giudicare. Per di più la civiltà dell’immagine in genere usa la lingua per formulare slogan e non ragionamenti». C’è poi la questione della presunta concorrenza dell’inglese: «Se non possiedi la struttura della tua lingua non sei in grado di imparare le altre, per questo le campagne a favore dell’inglese non hanno senso se non si legano a un miglioramento dell’italiano».
Basterà rivedere i programmi? Aggiungere un’ora? O mantenere le attuali? Il presidente d’onore della Crusca, Francesco Sabatini, punta su un aspetto che definisce paradossale: «Non c’è nessun collegamento tra la formazione universitaria e l’immissione degli insegnanti nella scuola: si richiederebbe una competenza linguistica e tecnico-didattica specifica. Un tempo poteva insegnare italiano nelle superiori anche un laureato in giurisprudenza che aveva fallito la carriera di avvocato oppure un laureato in pedagogia. Ma ancora oggi se io chiedo a cento professori di italiano quanti hanno studiato linguistica o storia della lingua, rispondono positivamente soltanto in dieci. Il predominio della letteratura è un tardo influsso crociano». Non per niente Sabatini ha scritto già un paio d’anni fa un saggio intitolato Lettera sul ritorno alla grammatica. Ma contro la grammatica sembrano schierarsi persino i professori, che forse sarebbero i primi a doverla imparare: «È vero, c’è un blocco dei docenti, i quali sostengono che chi sa bene la letteratura può insegnare tranquillamente la lingua. Per non dire poi dei ministeri, che ignorano persino l’esistenza di una disciplina che si chiama linguistica». Insomma, ci vorrebbe, secondo Sabatini, una politica mirata all’insegnamento dell’italiano, tenendo conto del fatto che l’italiano serve a tutti i cittadini e a tutti i professionisti: non solo ai docenti di italiano, ma ai magistrati, agli avvocati, ai medici, agli ingegneri eccetera.
E il dialetto? «È importante culturalmente, storicamente, strutturalmente. Va bene presentarlo, ma insegnarlo sistematicamente sarebbe una follia: il dialetto si impara, non si insegna». Bisogna andare sul campo, come si dice, per avere una voce ancora più netta sulla questione. Carla Marello è glottodidatta all’Università di Torino e si occupa molto dell’insegnamento a stranieri. Una prospettiva diversa? «No, tutto ciò che vale nell’insegnamento dell’italiano agli stranieri, serve a maggior ragione per i parlanti nativi. Oggi poi...». Oggi? «Con le classi multilingue l’insegnamento dell’italiano è cambiato per forza. Se poi sentiamo in televisione il Grande Fratello, si capisce subito che la lingua dei giovani è diversa da quella delle antologie scolastiche e dalle scritture artificiali che si richiedono nei temi». Dunque? «La scuola continua a insegnare un italiano fittizio, c’è un distacco enorme tra l’esempio che diamo e ciò che gli allievi sono in grado di recepire. Dunque se vogliamo che l’italiano scritto dei nostri ragazzi migliori dobbiamo impegnarci a farli scrivere di cose concrete, con un insegnamento molto pratico che non guardi più alla lingua letteraria come al solo modello». Bandire la letteratura? «No, si arriverà alla letteratura come massimo grado di utilità e bellezza, ma prima punterei su forme di scrittura meno belle e più concrete, senza ostinarmi a perseguire norme utopiche e senza dare per scontato niente». Proprio niente? Neanche la differenza tra scritto e orale? «Tra scritto e parlato c’è uno scollamento enorme: puntando sul parlato, alzeremo anche il livello dello scritto. Sempre meglio dire: 'se lo sapevo non venivo' piuttosto che 'se non lo saprei non verrei'. Che bisogno c’è di pretendere a tutti i costi 'se l’avessi saputo non sarei venuto'? Pazienza se non sarà lo scritto di Igor Man o di Scalfari, ma quello più realistico della Littizzetto! ».
«Corriere della Sera» del 18 dicembre 2009
Nessun commento:
Posta un commento