17 dicembre 2009

Se il cielo delle megalopoli è già quello di Blade Runner

Le verità scomode della fantascienza. Ma alcuni artisti ne scoprono la poesia
di Vincenzo Trione
Nel suo ultimo pamphlet, «Che fine ha fatto il futuro?» (edito da Elèuthera), Marc Augé scrive: «Ogni grande città è un mondo a sé e (...) riassume in sé il mondo, con la sua diversità etnica, culturale, sociale ed economica». Accoglie e tiene separate le differenze. È specchio della contraddizione tra spazi continui e realtà discontinue, nelle quali proliferano attriti e incongruenze. Questo giudizio coglie con lucidità gli scenari del presente. Ma come sarà il cielo di domani? Quale futuro ci attende nel nuovo millennio? Verso dove stiamo andando? Forse, l' avvenire è nella difficile dialettica tra apocalisse e riscatto. Da una parte, la paura per le devastazioni, per i crolli, per le disumanizzazioni. Dall' altra parte, l' utopia, la speranza, il bisogno di resistere: il desiderio di difendere margini di felicità, di umanità, di convivenza equilibrata. Questi orizzonti sono stati lambiti e frequentati da figure che, lungi dal dover rispettare le regole della progettazione e della pianificazione, si sono sottratti ai vincoli dettati dalla specificità dei contesti, per spingersi verso continenti visionari, audaci, scandalosi: eppure, in loro, si percepisce sempre la necessità di affrontare esteticamente questioni e nodi urbanistici, in bilico tra diagnosi dei rischi e strategia della salvezza. Da un lato, la fantascienza. Dall' altro lato, l' arte. Proviamo a riattraversare alcuni momenti della science fiction letteraria e cinematografica. «Cronache del dopobomba», potremmo dire con il titolo di un libro di Philip K. Dick. Invenzioni estreme. Fotogrammi da fine della storia. Luoghi che divorano ogni ostacolo. Si cancellano le divisioni tra i quartieri, si accentuano alienazioni. Ecco i romanzi di Asimov, di Dick, di Bradbury, di Ballard, di Gibson e di Amidon. E i palinsesti impossibili allestiti dai registi di fantascienza, i quali disegnano teatri futuribili, fondati sul recupero di schegge concrete. Sguardi estremi, per svelare gli aspetti perturbanti della quotidianità: investigazioni assurde che, come ha ricordato Umberto Eco, offrono «soluzioni possibili di dati attuali». Sono frequenti le allusioni a città vere. Eppure, ogni esattezza geografica viene centrifugata. Potrà sembrare un paradosso: ma, probabilmente, la fantascienza è la migliore testimonianza sullo stato dell' universo in cui abitiamo. Si guarda lontano, per rinviare a ciò che è qui. Da «1997: fuga da New York» a «Blade Runner», fino a «Matrix»: sono film che ritraggono una bad city dove si cerca di domare tutti gli aspetti, ma vi sono presenze che si sottraggono a ogni disciplina. Si descrive il sinistro sentore di catastrofe che accompagna lo sviluppo della forma urbis. Si rappresentano presenze che provano a controllare l' incontrollabile. Ed eroi che lottano per liberarsi e trovare vie d' uscita. Sono le vie d' uscita che alcune regioni dell' arte contemporanea vogliono indicare. In alcuni casi, gli artisti sembrano adeguarsi ai frames «definitivi» evocati dalla science fiction (come accade nelle installazioni oggettuali di Thomas Hirschhorn). In altri casi, invece, affermano con forza una dimensione etico-politica. Si pensi alle decorazioni brutali dei graffitisti: sgrammaticature che danno voce e colore a centri e a periferie. Ma si pensi, soprattutto, agli esperimenti tesi a saldare azzardo poetico e consapevolezza architettonica. L' intento è quello di donare un' inattesa carica seduttiva ai luoghi: si vogliono rendere più belle e vivibili le metropoli. Nel richiamarsi a motivi del dibattito urbanistico tardo-ottocentesco, molti protagonisti del secondo Novecento hanno avvertito il bisogno di realizzare creazioni destinate a rivestire specifiche funzioni sociali. L'arte non è più concepita come mero arredo. Si fa elemento «utile» per una determinata comunità, traccia destinata a essere usata da interi gruppi. Si vuole rendere la città simile a un'immensa opera d'arte. È una meravigliosa scommessa, un'ardita profezia. In tal senso, è esemplare l'avventura di Vito Acconci. Dapprima, la body. Poi, dall' inizio degli anni Ottanta, l'esperienza della «public art», difficile incrocio tra scultura e architettura. «Flying Floors», sistema di pavimenti all' International Airport di Philadelphia; «Park in the Water», parco artificiale in Olanda; «Transportation Center», in Arizona, una stazione di pullman trasformata in un parco giochi; l'«ingranaggio» sistemato a San Paolo, sotto un cavalcavia, in una zona popolare. Sono esperimenti di tangenze, che aspirano a individuare oasi di bellezza nella kasbah delle megalopoli. Parlando della sua ricerca, Acconci ha raccontato lo sforzo per situarsi negli interstizi tra i linguaggi: uscire dai musei, per accettare la sfida incerta delle strade, delle piazze. «Quando pronuncio la parola arte non mi riferisco a qualcosa da contemplare: con le mie opere voglio favorire una relazione importante con gli spazi, il pubblico, il comportamento».
«Corriere della sera» del 15 dicembre 2009

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