La degenerazione violenta
di Pierluigi Battista
L'odio politico è un mostro che, scatenato, risulta molto difficile da domare. Anche se non è armato da un'ideologia sistematica (come accade con il terrorismo vero e proprio), anche se incendia una mente isolata (e, a quanto sembra, malata) come è accaduto con l'aggressione a Berlusconi ieri sera dietro il Duomo a Milano, l'odio politico si deposita come un veleno che intossica la discussione pubblica. Riduce l'avversario a un bersaglio da annichilire. Da distruggere: in effigie, ma anche fisicamente. Non è solo una questione di toni esasperati. È l'idea che la lotta politica non contempli confini e contrappesi all'aggressività verbale. È la degradazione dell'avversario a nemico da abbattere. Non la lotta politica, anche accesa, che assume le forme di una competizione leale tra schieramenti che si riconoscono reciprocamente legittimità. Ma la versione primitiva della politica come simulacro della guerra civile. Questa versione sta dominando la politica italiana con un crescendo di ostilità che sfiora la guerra antropologica tra due Italie che si odiano, incapaci di parlarsi. L'aggressione cruenta di ieri al premier è un frutto di questa degenerazione. Dovranno capirlo tutti: anche chi ha irriso agli appelli contro la militarizzazione della politica come a una faccenda di bon ton, di galateo verbale. O addirittura di diserzione. No: si poteva capire benissimo dove andasse a parare la politica come scontro totale che equipara ogni moderazione a immorale cedimento, o a spirito compromissorio. Bastava ragionare. Le parole con cui il Capo dello Stato ha commentato l'aggressione al presidente del Consiglio sono perciò rivolte contro chi volesse sposare un imbarazzato giustificazionismo (se n' è avuta eco nei primi commenti a caldo, decisamente infelici, di Di Pietro). Ma anche contro la minimizzazione dell'agguato a Berlusconi come la manifestazione patologica di uno squilibrato solitario: «all'americana» più che in sintonia con una tradizione italiana di violenza organizzata. In parte, beninteso, è anche così. Chi, come chi scrive, ieri era nella piazza del comizio e dell'agguato ha potuto intuire subito (considerato anche il profilo caratteriale dell'aggressore) che non esiste un legame esplicito tra chi ha scagliato sulla faccia di Berlusconi un pericoloso oggetto contundente e il gruppo di fischiatori professionali che ha contestato l'intero intervento del leader del Pdl. Ma chi era presente al comizio di Berlusconi ha avuto nettissima la sensazione che chi lo contestava era animato da un'ostilità irriducibile, esasperata e assoluta nei confronti di un Nemico cui non si riconosceva nemmeno il diritto di parola. Inveivano contro la personificazione del Male più che contro il capo di un governo avversario. Si sentivano, anche loro, i portabandiera di una causa giusta quanto può esserlo la cacciata di un tiranno, non di un vincitore di libere elezioni democratiche. È questo il legame, psicologico e politico, che unisce e salda la violenza verbale e quella materiale. È la condivisione di una stessa atmosfera. E non è così pazzesco che ieri Internet sembrava un' arena scatenata e su Facebook un gruppo intitolato «Fanclub di Massimo Tartaglia» ha raggiunto in poche ore migliaia di adesioni. Il confine tra la violenza verbale e quella materiale è sempre sottile, vulnerabilissimo. Ed è sconfortante che in un Paese che della violenza politica ha conosciuto i frutti più tragici faccia fatica a imporsi la consapevolezza che il linguaggio pubblico improntato all'odio, all'attacco forsennato contro la persona e non contro le idee, può sfociare in gesti sconsiderati sì, ma non privi di un retroterra, di un clima che ne alimenta la follia aggressiva e fa dell' aggressione fisica il culmine di una sfida che non prevede limiti e freni etico-politici. La violenza verbale non arma banalmente il violento che pensa di farsi giustizia da solo: il nesso non è così semplice e meccanico. Ma l'abitudine a trattare chi è contrario alle tue idee come un barbaro da eliminare con ogni mezzo fa del potenziale attentatore qualcuno che si sente nel flusso della storia, che si ammanta delle vesti nobili del vendicatore talmente audace da non fermarsi nemmeno di fronte alla prospettiva di avventarsi contro il nemico che personifica il Male. Ora questo clima, raggiunto l'apice con i fatti di Milano, deve essere raffreddato e superato. Non per abolire la lotta politica, ci mancherebbe altro, ma per fermarne la degenerazione rissosa, violenta, brutale, profondamente antidemocratica e illiberale. Il che richiede lo sforzo congiunto di tutti: di tutti, nessuno escluso. E l'impegno, oramai da mesi reclamato dal «Corriere», al rispetto reciproco e in primis al rispetto delle istituzioni e degli uomini che le rappresentano. In un passaggio difficile e inedito della nostra vita nazionale. Per superare il quale, l'Italia dovrà mostrarsi molto più matura di quanto non sia apparso fino a ieri.
«Corriere della Sera» del 14 dicembre 2009
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