di Rémì Brague
Molti fra i nostri contemporanei non chiedono alla religione di convertirli e di santificarli, ma semplicemente di soddisfarli. E se è il soggetto a decidere quale dio gli conviene, egli si situa più in alto di ogni dio possibile. Perché dunque non fare di questo soggetto la divinità stessa? Ciò che, a prima vista, si presenta come un politeismo che permette la scelta, si traduce alla fine in un monoteismo del soggetto, collettivo o individuale.
Tuttavia, questa religione lascia senza risposta un quesito a mio avviso fondamentale. Essa accompagna come un’ombra tutto il progetto moderno di un’auto-posizione dell’uomo, di un «regno dell’uomo» come diceva Bacone, o di un umanismo «radicale » per dirla con Marx. Questo progetto suppone che non vi sia niente di più alto dell’uomo e che l’uomo debba rendere conto solo a se stesso.
L’Insensato e, successivamente, il Zaratustra messo in scena da Nietzsche hanno annunciato entrambi: «Dio è morto». Riflettiamo sulla logica immanente di questa idea. Essa implica che Dio in persona non è riuscito a vincere «l’ultimo nemico» (1Cor 15, 26). Al contrario, la morte è riuscita a spuntarla sullo stesso Dio, e quindi a rivelarsi più potente di Lui. Dopo la morte di Dio non viene il regno dell’uomo, ma quello dell’ultimo dio che è la Morte.
In tal modo, lo sviluppo stesso del progetto di sganciamento dell’uomo da Dio pone una domanda grave: in fondo, se l’uomo è il solo abilitato a pronunciarsi sull’uomo, perché dovrebbe pronunciare un giudizio positivo su se stesso? Quale istanza può dare all’umanità stessa la sua legittimità e, al tempo stesso, la sua norma? Siamo di fronte alla stessa necessità di Archimede: abbiamo bisogno di un punto d’appoggio esterno. Una religione, può darsi. E una religione che ha un dio esterno. Ma quale? Quale religione è la religione buona? È un argomento che si discute da secoli.
La questione posta ha, in effetti, un senso soltanto se il criterio del buono e del malvagio è esterno alle religioni che occorre valutare. Ogni religione pretende di essere l’unica religione vera, o la più vera, eccetera, o almeno è quanto fa sperare ai suoi fedeli. Di conseguenza, l’etica che essa predica deve essere il buon cammino tout court. Un pericolo logico risulta immediatamente evidente: quello di un ragionamento circolare. Ogni religione considererà se stessa la migliore in base alle sue stesse valutazioni. In tal caso, il dialogo sarà impossibile.
Pertanto, ci si dovrebbe chiedere se una religione pretende che tali opposizioni siano situate al suo interno o se, al contrario, essa accetta di farsi misurare in rapporto a un punto di vista esterno. Ogni religione dovrà porsi questa domanda. Non devo farlo io al suo posto. In questa sede, posso rispondere unicamente per il cristianesimo. Qui ci aspetta una sorpresa. Il cristianesimo non pretende di dare una nuova definizione del bene e del male, una nuova etica. La sua etica non è altro che l’etica che consente la sopravvivenza dell’umanità, vale a dire: la sopravvivenza della specie umana e la permanenza di ciò che rende l’uomo realmente umano. Delle leggi dell’Antica Alleanza esso conserva unicamente il Decalogo. È come il regolamento minimo della vita comune degli uomini, che in un’altra sede ho definito, un po’ per gioco, il «kit di sopravvivenza» dell’umanità. Il grande problema della nostra epoca, in ogni caso nei nostri Paesi, è l’emergere di una nuova religione inconsapevole, quella del soggetto individuale o collettivo. Rifiutando la trascendenza, questi si conferisce il diritto di scegliere la figura del divino che è di suo gradimento. Ma nulla dimostra che questo divino non conduca l’uomo alla sua stessa distruzione.
Tuttavia, questa religione lascia senza risposta un quesito a mio avviso fondamentale. Essa accompagna come un’ombra tutto il progetto moderno di un’auto-posizione dell’uomo, di un «regno dell’uomo» come diceva Bacone, o di un umanismo «radicale » per dirla con Marx. Questo progetto suppone che non vi sia niente di più alto dell’uomo e che l’uomo debba rendere conto solo a se stesso.
L’Insensato e, successivamente, il Zaratustra messo in scena da Nietzsche hanno annunciato entrambi: «Dio è morto». Riflettiamo sulla logica immanente di questa idea. Essa implica che Dio in persona non è riuscito a vincere «l’ultimo nemico» (1Cor 15, 26). Al contrario, la morte è riuscita a spuntarla sullo stesso Dio, e quindi a rivelarsi più potente di Lui. Dopo la morte di Dio non viene il regno dell’uomo, ma quello dell’ultimo dio che è la Morte.
In tal modo, lo sviluppo stesso del progetto di sganciamento dell’uomo da Dio pone una domanda grave: in fondo, se l’uomo è il solo abilitato a pronunciarsi sull’uomo, perché dovrebbe pronunciare un giudizio positivo su se stesso? Quale istanza può dare all’umanità stessa la sua legittimità e, al tempo stesso, la sua norma? Siamo di fronte alla stessa necessità di Archimede: abbiamo bisogno di un punto d’appoggio esterno. Una religione, può darsi. E una religione che ha un dio esterno. Ma quale? Quale religione è la religione buona? È un argomento che si discute da secoli.
La questione posta ha, in effetti, un senso soltanto se il criterio del buono e del malvagio è esterno alle religioni che occorre valutare. Ogni religione pretende di essere l’unica religione vera, o la più vera, eccetera, o almeno è quanto fa sperare ai suoi fedeli. Di conseguenza, l’etica che essa predica deve essere il buon cammino tout court. Un pericolo logico risulta immediatamente evidente: quello di un ragionamento circolare. Ogni religione considererà se stessa la migliore in base alle sue stesse valutazioni. In tal caso, il dialogo sarà impossibile.
Pertanto, ci si dovrebbe chiedere se una religione pretende che tali opposizioni siano situate al suo interno o se, al contrario, essa accetta di farsi misurare in rapporto a un punto di vista esterno. Ogni religione dovrà porsi questa domanda. Non devo farlo io al suo posto. In questa sede, posso rispondere unicamente per il cristianesimo. Qui ci aspetta una sorpresa. Il cristianesimo non pretende di dare una nuova definizione del bene e del male, una nuova etica. La sua etica non è altro che l’etica che consente la sopravvivenza dell’umanità, vale a dire: la sopravvivenza della specie umana e la permanenza di ciò che rende l’uomo realmente umano. Delle leggi dell’Antica Alleanza esso conserva unicamente il Decalogo. È come il regolamento minimo della vita comune degli uomini, che in un’altra sede ho definito, un po’ per gioco, il «kit di sopravvivenza» dell’umanità. Il grande problema della nostra epoca, in ogni caso nei nostri Paesi, è l’emergere di una nuova religione inconsapevole, quella del soggetto individuale o collettivo. Rifiutando la trascendenza, questi si conferisce il diritto di scegliere la figura del divino che è di suo gradimento. Ma nulla dimostra che questo divino non conduca l’uomo alla sua stessa distruzione.
«Avvenire» del 12 dicembre 2009
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