19 dicembre 2009

Dal cinema alla letteratura manuale per i nuovi critici

Un volume raccoglie oltre 150 giudizi su film ed eventi di Mariarosa Mancuso. Brevi «essay» fuori dai percorsi obbligati
di Aldo Grasso
Contro la filosofia della «scelta di campo», identikit del recensore Scenari In un panorama popolato da militanti, strutturalisti, accademici, sono arrivati anche i «rifugiati nell' Istituzione»
Mariarosa Mancuso è il mio critico di riferimento (Cidierre): per la televisione, innanzitutto, per la letteratura, per il cinema. Ogni tanto anche per la vita, vista la nostra comune infanzia neorealista. Il sabato, il primo articolo che leggo sul «Foglio» è «Popcorn» perché mi restituisce il piacere antico e insuperato dell'attesa, en attendant lo Spettacolo. «Popcorn» non riferisce mai degli appelli degli attori italiani al Capo dello stato contro «l'abuso di potere, la vanità, il malcostume, il nepotismo» dello Spettacolo. No, la rubrica è puro bavardage, gossip raffinato, fiera delle vanità, spettacolo sull'abuso di potere, sul malcostume, sul nepotismo... È la chiacchiera che si offre come lavoro infinitamente serio sul linguaggio. È il sapore del popcorn, un istante prima di passare alle recensioni, al vero Spettacolo. Pop non è l'abbreviazione di popolare (dio ce ne scampi!) ma è solo lo scoppiettio del granoturco. Di sicuro, compito del critico non sarà quello di stabilire percorsi obbligati (ci siamo appena liberati di certe riviste piacentine che imponevano ciò che bisognava leggere e ciò che bisognava ignorare, ciò che bisognava vedere e ciò che non bisognava vedere), dei sensi unici, dei piccoli dogmi mascherati da eresie. No, il compito del Cidierre consiste solo nel fosforeggiare, luciferare, stordire, nel suggerire ciò che altrimenti non si vedrebbe. Cosa si chiede a un Cidierre? Almeno tre cose, se si è appena appena esigenti. La sensibilità, prima di tutto, che è un dono naturale, indispensabile per diventare connaisseur. Senza sensibilità si compilano bollettini, si resta impiegati della tautologia e si rischia di usare le idee come armi improprie. Poi, la cultura. Per parlare di cinema, diceva un amico saggio, bisogna almeno aver fatto il liceo classico, quello di una volta, con il latino e il greco. Bisogna aver confidenza con i libri, non vergognarsi della propria erudizione: il sapere è la base reale della visione (anche della tele-visione). Tra l'altro, Mariarosa Mancuso ha scritto saggi su Karen Blixen, Edith Wharton, Norman Douglas, Edmund Gosse, David Garnett. Non su Giorgio Faletti. Ha scritto stroncature memorabili su libri pretenziosi e sfortunatamente non oscurati, ma che nessuno osa criticare per via di quel famoso teorema di Karl Kraus: «In principio era la copia per recensione, e uno la riceveva dall' editore. Poi scriveva una recensione. Poi scriveva un libro, che l' editore riceveva e rispediva come copia per recensione. Il prossimo a cui arrivava faceva lo stesso. Così è nata la letteratura moderna». E non basta aver letto i «Cahiers du cinéma», bisogna anche averli capiti. La terza qualità richiesta, infine, è la scrittura. Molti critici non sanno scrivere, annoiano prima ancora di esprimere un qualsivoglia giudizio. Ritengono che lo stile sia un orpello, una petulanza ferale, un intralcio alla Ragione rischiaratrice. Mariarosa Mancuso, maestra della prosa, usa la forma della recensione breve per sviluppare una preziosa variante italiana dell' essay. Nella vita ho avuto un solo altro Cidierre, prematuramente scomparso. Si chiamava Giovanni Buttafava: buono ma non indulgente, generoso fino alla prostrazione. Sembrava un personaggio uscito dalle pagine di Robert Walser per la delicatezza di sentimenti che sapeva palesare e per l'ironica precisione con cui esprimeva giudizi. Da Buttafava hanno scopiazzato tutti, a volte senza nemmeno ringraziare. Com'è difficile parlare di cinema in Italia! Negli anni del massimo fulgore di Cinecittà, quando i grandi registi italiani si chiamavano Camerini e Blasetti, molti letterati si sono accostati al cinema e all'esercizio della critica: Emilio Cecchi, Giacomo Debenedetti, Ennio Flaiano, solo per citarne alcuni. Ma i grandi scrittori hanno il vizio di offrire solo indicazioni per frequentare gli anfratti dei film, per mettere in disordine le nostre certezze, per ribadire la nostra inadeguatezza culturale. Finita la guerra, incombevano altri mandati sociali: anche il cinema doveva servire a costruire il presente, a compromettersi con la realtà, a cambiare il mondo con quella incalzante, salivosa immediatezza che non lascia un attimo di respiro al povero spettatore in cerca di evasioni. Ed è a questo punto che nasce la tonitruante figura del critico militante, mosso dalla famosa «scelta di campo» che obbligava alla cecità. Militante e cieco, due condizioni che mal si addicono allo spettatore di professione. Senza intentare processi (ormai com'è andata è andata), ma solo per avere una figura di riferimento, il padre della critica militante italiana si chiama Guido Aristarco. Forse molti lettori di Mariarosa Mancuso non sanno nemmeno chi sia il prof. Aristarco, ma altri ricorderanno come per anni in Italia non si sia potuto parlare di cinema senza fare i conti con l'invadente fantasma del professore. Fondatore di «Cinema nuovo», autore einaudiano, capo riconosciuto di una setta di fanatici del Contenuto, padrone incontrastato della scena ideologica del dopoguerra, Aristarco è una di quelle persone che hanno scritto migliaia e migliaia di pagine sul cinema nei confronti delle quali uno può beatamente essere in totale disaccordo. Nel senso che non c'è di condivisibile nemmeno una virgola (sul cinema, sulla battaglia per il passaggio dal neorealismo al realismo, sulla politica, su tutto). Da questo punto di vista, il ritratto che Luciano Bianciardi fa di Aristarco nella Vita agra (nel libro è descritto con il nome di Fernaspe) è di sublime perfidia. Eppure il prof. Aristarco, ai tempi della famosa «dittatura culturale della sinistra» (che forse dittatura non era, ma assomigliava piuttosto a qualcosa come la servitù volontaria) è stato il primo in Italia a conquistare la cattedra universitaria di cinema, un paradosso su cui non si è mai riflettuto abbastanza. «Cinema nuovo» è stato la palestra del critico militante, il cui modello, per filiazione diretta o anche per scissione, ha poi invaso la stampa quotidiana. Ne dà un buon ritratto Franco Fortini: «La critica di tendenza marxista è risolutamente giudicante, si pone di fronte a ogni opera da un punto di vista storicistico, volto ad individuare in quale misura trionfi in essa il realismo, cioè l' attitudine a rispecchiare nella forma letteraria (o cinematografica, ndr) le contraddizioni tipiche di una società». Ma siccome non ci facciamo mai mancare nulla, siamo riusciti a creare anche una via italiana alla critica militante. Nascono così strane figure di critici, ora produttori, ora funzionari Rai, ora biografi ufficiali di Fellini che conciliano il doppio mestiere senza tanti scrupoli, non essendo ancora apparso all' orizzonte lo spettro del conflitto d' interessi. A contrastare il militante, sempre per via accademica, nascono poi i critici strutturalisti, i critici sociologi, i critici semiologi, i critici narratologici, i critici decostruenti capaci di produrre guasti alla lingua italiana, prima ancora che al metodo, paragonabili solo ai casermoni o alle villette a schiera dei geometri. C'erano anche i cinefili, impauriti però troppo in fretta dalla loro purezza. Così hanno subito cercato rifugio nell' Istituzione (Rai, Sky, Festival, Uffici territoriali) per conciliare, come già avvertiva Gadda, la cattiva coscienza con lo stipendio fisso. Mariarosa Mancuso, rifugiandosi in Svizzera, ha avuto la fortuna di essere estranea a queste scelte di campo, nessuno l'ha mai incolpata di avere scarse curiosità per le difficoltà del presente, nessuno le ha mai chiesto di fornire indicazioni per migliorare questo eterno difficoltoso presente. La sua formazione filosofica le ha permesso infine di ritenere superflue e importune alcune discipline formalistiche molto echeggiate dai francesi. La sua critica è semplicemente quella del creatore che si sovrappone a un altro, in una sfida all'ultimo stile. Non Cinema nuovo ma Nuovo Cinema Mancuso.

Pubblichiamo la prefazione di Aldo Grasso al volume Nuovo cinema Mancuso. Un anno in sala con la criticona, in edicola da domani con «Il Foglio» a 5,90 euro. Il libro raccoglie centocinquantotto recensioni di film e quarantasei commenti sul cinema di Mariarosa Mancuso, con le illustrazioni di Vincino. Mariarosa Mancuso ha studiato filosofia e ha cominciato a occuparsi di cinema per le radio della Svizzera italiana. Sul «Foglio» scrive di cinema e letteratura.
«Corriere della Sera» del 16 dicembre 2009

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