Perché il prestigioso premio non va mai a medici «sul campo» come i coniugi Piero e Lucille, che hanno creato in Uganda un ospedale modello?
di Enrico Negrotti
Il libro del 50° del loro «sogno» missionario
Cinquant’anni di vita per un ospedale in Uganda meritano qualcosa di più di una celebrazione formale. Se poi questo ospedale è il Lacor Hospital di Gulu, letteralmente «inventato» nel corso dei decenni dai coniugi medici Lucille Teasdale, chirurgo canadese, e Piero Corti, pediatra italiano, le parole sembrano sempre inadeguate. La storia di questa impresa, che ha trasformato il piccolo ambulatorio medico fondato nel 1959 dai missionari comboniani in uno degli ospedali più avanzati e meglio organizzati di tutta l’Africa subsahariana, è ora ripercorsa in un libro di lettere e testimonianze pubblicato dalla Fondazione Piero e Lucille Corti (Dal sogno alla realtà, pagine 376, euro 25,00), che viene presentato domani a Milano (auditorium San Fedele, via Hoepli 3, ore 17).
Il titolo indica il realizzarsi delle aspirazioni dei due protagonisti che sin dai primi anni in Uganda ebbero chiari alcuni obiettivi, riassunti da Lucille in una lettera del 1985: «Sviluppare un ospedale il più completo ed efficiente possibile al più basso costo possibile; dimostrare che con mezzi modesti, ma con buona volontà, coraggio e iniziativa, si può arrivare a fare molto anche in un ospedale nella savana; il fine ultimo è senza dubbio l’africanizzazione più completa possibile: dopo le infermiere, i paramedici e i medici, ci resta l’amministrazione e la direzione, ma durante tutto questo tempo abbiamo capito che africanizzare non vuol dire preparare rapidamente e rimpiazzare un bianco con un nero, ma vuol dire lavorare insieme per un lungo periodo ». Questo affiancamento ha sfidato tutte le difficoltà: dalla scarsità di risorse ai difficili anni Settanta con la dittatura di Idi Amin, dalla guerra con la Tanzania nel 1979 al caos dei primi anni Ottanta, fino alla guerriglia che, in un alternarsi di tregue provvisorie e nuovi saccheggi, ha procurato infinite sofferenze alla popolazione: uno stato di insicurezza, e spesso di puro terrore, durato dal 1986 al 2007.
Ma mai – neppure nei momenti più bui – Piero e Lucille hanno pensato di abbandonare i loro pazienti, i loro amici ugandesi, sopportando anche la separazione per lunghi periodi dalla figlia Dominique, mandata a studiare in Kenia e in Italia. Se Piero ha rischiato di essere ucciso dai soldati di Amin, Lucille ha contratto il virus Hiv operando decine e decine di soldati feriti, quando ancora non si conosceva l’esistenza dell’Aids. Le capa- cità cliniche di questo chirurgo (la prima donna con questa specialità in Canada negli anni Cinquanta) sono testimoniate dalle decine di migliaia di interventi eseguiti nel corso di 35 anni di attività, con ritmi di lavoro che parevano insostenibili anche ai giovani medici europei che giungevano al Lacor. Osservava il marito Piero in una lettera del 1983 a Guido Caprio, che per conto dell’Associazione medici cattolici aveva proposto i coniugi Corti per il Nobel della Pace: «Non passano dieci giorni senza che io riscopra una ragione valida per l’attribuzione del Nobel a Lucille. Ma più per la Medicina che per la Pace: a cosa valgono tante magnifiche scoperte in campo medico se poi non sono applicate nei due terzi del mondo? Lucille risolve buona parte dei problemi medici di circa seimila pazienti ospedalizzati e di sessantamila pazienti ambulatoriali ogni anno». E ha continuato a lavorare fino a tre mesi dalla morte, quando pesava solo 35 chili: l’amore per «la dottoressa» – disponibile con i malati, ma inflessibile sul lavoro (con sé e con gli altri) – è stato testimoniato da tre generazioni di suoi pazienti nell’interminabile fila che venne a renderle omaggio quando fu portata al Lacor per i funerali nell’agosto 1996.
Accanto a lei Piero ha rappresentato il motore organizzativo, inesauribile di energie e nuove iniziative: la scuola infermiere, nuovi pozzi, nuovi reparti, nuove infrastrutture, l’accoglienza di giovani medici ugandesi tirocinanti, fino a rendere l’ospedale polo didattico dell’università di Gulu (nel gennaio prossimo i primi laureati). E all’intuizione della necessità di due fondazioni (una in Canada e una in Italia) per continuare a fornire sostegno economico e logistico al Lacor. Toccante è la testimonianza resa da un suo collaboratore, il dottor Bruno Molinari, nel descrivere il funerale svoltosi nella basilica di Besana in Brianza, adattando alla figura di Piero le strofe del canto intonato dalla corale: «Quando busserò».
Ma la storia più tragica, riassunta nel libro soprattutto dal diario di fratel Elio Croce (missionario comboniano a capo dell’unità tecnica), è quella di Matthew Lukwiya, brillante medico ugandese, morto nell’epidemia di ebola nel dicembre 2000. Già da tirocinante al Lacor nel 1983 era stato notato da Piero e da Lucille per le sue qualità fuori dal comune, pienamente confermate nel suo percorso di specializzazione (anche in Europa): divenuto direttore sanitario dell’ospedale, intuì subito la gravità dell’epidemia e organizzò in modo esemplare il reparto per curare i malati, con un esempio di dedizione in prima persona che se servì a ridurre il contagio, non gli evitò però di cadere vittima del terribile virus. I tre protagonisti ora riposano uno accanto all’altro nella stessa aiuola del Lacor, ma l’ospedale continua la sua opera per portare cure e salute alla popolazione: ora ha 476 letti e nel 2007/2008 ha curato oltre trecentomila pazienti, la metà bambini sotto i sei anni. È guidato da tre medici ugandesi, come volevano Piero e Lucille: il direttore generale Opira Cyprian, il direttore sanitario Odong Emintone, il direttore istituzionale Ogwang Martin. Accanto a loro opera la fondazione Piero e Lucille Corti, diretta dalla figlia Dominique: ha studiato per fare il medico, ma «per aiutare il Lacor si deve fare ciò di cui c’è bisogno, non ciò che si desidera», nel difficile compito di traghettare l’ospedale nel futuro, «secondo la filosofia e lo spirito che ha finora animato il Lacor».
Il titolo indica il realizzarsi delle aspirazioni dei due protagonisti che sin dai primi anni in Uganda ebbero chiari alcuni obiettivi, riassunti da Lucille in una lettera del 1985: «Sviluppare un ospedale il più completo ed efficiente possibile al più basso costo possibile; dimostrare che con mezzi modesti, ma con buona volontà, coraggio e iniziativa, si può arrivare a fare molto anche in un ospedale nella savana; il fine ultimo è senza dubbio l’africanizzazione più completa possibile: dopo le infermiere, i paramedici e i medici, ci resta l’amministrazione e la direzione, ma durante tutto questo tempo abbiamo capito che africanizzare non vuol dire preparare rapidamente e rimpiazzare un bianco con un nero, ma vuol dire lavorare insieme per un lungo periodo ». Questo affiancamento ha sfidato tutte le difficoltà: dalla scarsità di risorse ai difficili anni Settanta con la dittatura di Idi Amin, dalla guerra con la Tanzania nel 1979 al caos dei primi anni Ottanta, fino alla guerriglia che, in un alternarsi di tregue provvisorie e nuovi saccheggi, ha procurato infinite sofferenze alla popolazione: uno stato di insicurezza, e spesso di puro terrore, durato dal 1986 al 2007.
Ma mai – neppure nei momenti più bui – Piero e Lucille hanno pensato di abbandonare i loro pazienti, i loro amici ugandesi, sopportando anche la separazione per lunghi periodi dalla figlia Dominique, mandata a studiare in Kenia e in Italia. Se Piero ha rischiato di essere ucciso dai soldati di Amin, Lucille ha contratto il virus Hiv operando decine e decine di soldati feriti, quando ancora non si conosceva l’esistenza dell’Aids. Le capa- cità cliniche di questo chirurgo (la prima donna con questa specialità in Canada negli anni Cinquanta) sono testimoniate dalle decine di migliaia di interventi eseguiti nel corso di 35 anni di attività, con ritmi di lavoro che parevano insostenibili anche ai giovani medici europei che giungevano al Lacor. Osservava il marito Piero in una lettera del 1983 a Guido Caprio, che per conto dell’Associazione medici cattolici aveva proposto i coniugi Corti per il Nobel della Pace: «Non passano dieci giorni senza che io riscopra una ragione valida per l’attribuzione del Nobel a Lucille. Ma più per la Medicina che per la Pace: a cosa valgono tante magnifiche scoperte in campo medico se poi non sono applicate nei due terzi del mondo? Lucille risolve buona parte dei problemi medici di circa seimila pazienti ospedalizzati e di sessantamila pazienti ambulatoriali ogni anno». E ha continuato a lavorare fino a tre mesi dalla morte, quando pesava solo 35 chili: l’amore per «la dottoressa» – disponibile con i malati, ma inflessibile sul lavoro (con sé e con gli altri) – è stato testimoniato da tre generazioni di suoi pazienti nell’interminabile fila che venne a renderle omaggio quando fu portata al Lacor per i funerali nell’agosto 1996.
Accanto a lei Piero ha rappresentato il motore organizzativo, inesauribile di energie e nuove iniziative: la scuola infermiere, nuovi pozzi, nuovi reparti, nuove infrastrutture, l’accoglienza di giovani medici ugandesi tirocinanti, fino a rendere l’ospedale polo didattico dell’università di Gulu (nel gennaio prossimo i primi laureati). E all’intuizione della necessità di due fondazioni (una in Canada e una in Italia) per continuare a fornire sostegno economico e logistico al Lacor. Toccante è la testimonianza resa da un suo collaboratore, il dottor Bruno Molinari, nel descrivere il funerale svoltosi nella basilica di Besana in Brianza, adattando alla figura di Piero le strofe del canto intonato dalla corale: «Quando busserò».
Ma la storia più tragica, riassunta nel libro soprattutto dal diario di fratel Elio Croce (missionario comboniano a capo dell’unità tecnica), è quella di Matthew Lukwiya, brillante medico ugandese, morto nell’epidemia di ebola nel dicembre 2000. Già da tirocinante al Lacor nel 1983 era stato notato da Piero e da Lucille per le sue qualità fuori dal comune, pienamente confermate nel suo percorso di specializzazione (anche in Europa): divenuto direttore sanitario dell’ospedale, intuì subito la gravità dell’epidemia e organizzò in modo esemplare il reparto per curare i malati, con un esempio di dedizione in prima persona che se servì a ridurre il contagio, non gli evitò però di cadere vittima del terribile virus. I tre protagonisti ora riposano uno accanto all’altro nella stessa aiuola del Lacor, ma l’ospedale continua la sua opera per portare cure e salute alla popolazione: ora ha 476 letti e nel 2007/2008 ha curato oltre trecentomila pazienti, la metà bambini sotto i sei anni. È guidato da tre medici ugandesi, come volevano Piero e Lucille: il direttore generale Opira Cyprian, il direttore sanitario Odong Emintone, il direttore istituzionale Ogwang Martin. Accanto a loro opera la fondazione Piero e Lucille Corti, diretta dalla figlia Dominique: ha studiato per fare il medico, ma «per aiutare il Lacor si deve fare ciò di cui c’è bisogno, non ciò che si desidera», nel difficile compito di traghettare l’ospedale nel futuro, «secondo la filosofia e lo spirito che ha finora animato il Lacor».
«Avvenire» del 18 dicembre 2009
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