Al Centre Pompidou una mostra sul filone meno noto dell’arte di Man Ray & C.: una fotografia che nega se stessa ed elabora l’immagine come un archetipo di società
di Maurizio Cecchetti
Con il passare del tempo ci si accorge che alcuni movimenti artistici della prima parte del Novecento, che al loro apparire vennero considerati con sospetto dalla critica, sono stati in realtà anticipatori di una svolta i cui effetti si sono manifestati compiutamente con decenni di ritardo e spesso senza che venisse sottolineato il debito verso quei precursori. Si pensi all’importanza che il Futurismo ha avuto nella decostruzione del linguaggio e nella creazione di una nuova sintassi che non ha più soltanto valenza interna al discorso verbale, ma denota una capacità 'plastica' nel dar forma alla realtà o all’immaginazione (è il caso della pubblicità, che poi si riverbera nella Pop Art). Così anche il Surrealismo, per via di certe sue manifestazioni bizzarre, è stato relegato per troppo tempo fra i fenomeni regressivi, oppure assegnato d’ufficio all’alveo delle derive psicoanalitiche. In realtà, il gioco e le pulsioni profonde hanno coperto la rilevanza assoluta che le teorie surrealiste e i loro prodotti hanno avuto nel prefigurare quel mondo 'di massa' che oggi è dominato da profondi conflitti (come se la guerra degli anticorpi producesse, alla fine, la decomposizione di una realtà che ha segnato il Novecento e ora si mostra in tutte le sue debolezze).
Coglie dunque nel segno il titolo della mostra sulla fotografia surrealista allestita dal Centre Pompidou: oltre trecento fra fotografie, film e documenti descrivono quella che viene presentata come 'La sovversione delle immagini'. La fotografia, dice l’introduzione al catalogo della mostra, è onnipresente nell’opera dei surrealisti, eppure nei loro testi se ne parla pochissimo. Come mai? La risposta potrebbe essere già data in quelle che Michel Poivert, nel suo saggio, chiama «reliquie della rappresentazione». C’è appunto uno sfondo di questa rappresentazione, ed è il mondo. E ci sono segni dispersi, parole, relitti, suoni, immagini che attendono di essere composti dentro un museo che non è quello dove viene inumata la storia e la bellezza, ma quello della quotidianità, delle anime che passato, dei corpi ridotti a manichini, del caso e degli strumenti per sollecitare quelle pulsioni che combattono la morte (magari affermando di amarla). E c’è una finzione: che il mondo sia quello che vedono gli occhi di chi viene guardato dall’immagine.
Siamo nel circolo chiuso dove il fuori corrisponde al dentro e viceversa. Chi guarda chi? Lo sguardo allucinato, gli occhi sbarrati che i protagonisti del movimento puntano verso l’obiettivo (come nella foto di Man Ray del 1924 che mostra Breton e altri quattro surrealisti con lo sguardo fisso di fronte), è il diaframma attraverso cui la mediazione del mezzo meccanico, la macchina fotografica, scompare dalla scena: siamo solo noi e loro sul palcoscenico del mondo, e ci guardiamo come se ciascuno vedesse nell’altro qualcosa di magico e spaventoso (il Mago Salvador, Dalí, strabuzza i globi come l’incantatore che dice «a me gli occhi signori»). È il numinoso di Otto, mirabile e terribile, portato nella pura immanenza terrestre, quella dei sensi e della loro capacità di esprimere intelligenza e passione senza cedere alla bellezza estetica, caso mai all’estasi, ecco, come una santa Teresa berniniana calata nelle ombre notturne dei bassifondi parigini o in un noir simenoniano, dove l’assassino è quasi subito intuito e il resto è romanzo, vita, conoscenza della perversione umana. Lo spavento estetico era il tema tipico dell’immaginario di autori come Artaud, Bellmer, Man Ray, ma oggi possiamo dire che era senso del disgusto e dell’orrore dove il delitto è consumato sotto gli occhi dello spettatore con mezzi plateali, teatrali. Cavare un po’ di luce e di bellezza dall’orrore è il sortilegio surrealista, che talvolta cade nell’estetismo, ma spesso impressiona. Il rischio, di fronte a queste manifestazioni che sono 'surreali' proprio in quanto rifiutano la logica che regge la realtà (nonostante l’'automatismo'), è di considerarla un esempio di millanteria estetica come le derive dell’attuale universo mediatico. Al contrario, in quelle immagini c’è ancora una purezza estetica che spreme dal banale le contraddizioni visive, verbali, sonore, propagandistiche, politiche. Il surrealismo ha fatto vedere dove può giungere l’immaginazione umana che tratta il «mondo come immagine del mondo», per usare una celebre espressione di Heidegger. E non lo fa usando i mezzi espressivi secondo la loro specificità tecnica, ma forzandone le capacità di rappresentazione: la fotografia potrebbe diventare scultura e la pittura far rivivere il sogno come in un film. Il collage fotografico è la risposta all’arte collettiva: è l’album, lo studiolo, l’archivio segreto, dove a essere classificate sono le reliquie del presente, di ciò che passa. Esiste una fotografia surrealista: è quella di Man Ray o di Brassaï, e per alcuni aspetti quella di Cartier-Bresson. Ma esiste una fotografia surrealista che nega se stessa ed elabora soltanto l’immagine del gruppo o delle cose come un archetipo di società, una sorta di essere collettivo che si mette in scena davanti all’obiettivo e acquista un’autonomia tale che, rovesciando il punto di vista, è lui che guarda chi lo sta guardando.
Naturalmente, niente è vero in questa finzione. Si tratta di meccanismi psicologici in funzione poetica. Sono autoritratti, quelli di Breton & Co., che replicano iconografie sacre, sociali, rituali. Foto segnaletiche, santini, o biglietti di visita. In ogni foto parla l’individuo e la comune condizione umana: il ritratto collettivo che ci fissa è quello che ambisce a sopravvivere a chi è lì rappresentato. È l’impronta di qualcosa o di qualcuno che è passato, ma resiste nel fantasma fotografico. Se è vero che un telescopio spaziale ha captato le luci che provengono dagli istanti di tredici miliardi di anni fa successivi al Big Bang, perché dubitare che l’occhio fotografico captando le ombre e il riflesso della realtà offra all’uomo una possibilità di durata?
Effimera, ma soltanto per ciò che riguarda la sfera fisica, mentre non vale per la memoria nella società che ha fatto delle tecniche di memorizzazione e archiviazione il supporto che promette eternità ai viventi. Non era questo che speravano gli antichi facendosi l’immagine dell’antenato? C’è qualcosa di sacro in tutto ciò. Ma se un limite esiste nella poetica surrealista è proprio quello di essersi fermata alla superficie del sacro. Andare oltre, infatti, avrebbe messo a rischio l’immaginazione.
Coglie dunque nel segno il titolo della mostra sulla fotografia surrealista allestita dal Centre Pompidou: oltre trecento fra fotografie, film e documenti descrivono quella che viene presentata come 'La sovversione delle immagini'. La fotografia, dice l’introduzione al catalogo della mostra, è onnipresente nell’opera dei surrealisti, eppure nei loro testi se ne parla pochissimo. Come mai? La risposta potrebbe essere già data in quelle che Michel Poivert, nel suo saggio, chiama «reliquie della rappresentazione». C’è appunto uno sfondo di questa rappresentazione, ed è il mondo. E ci sono segni dispersi, parole, relitti, suoni, immagini che attendono di essere composti dentro un museo che non è quello dove viene inumata la storia e la bellezza, ma quello della quotidianità, delle anime che passato, dei corpi ridotti a manichini, del caso e degli strumenti per sollecitare quelle pulsioni che combattono la morte (magari affermando di amarla). E c’è una finzione: che il mondo sia quello che vedono gli occhi di chi viene guardato dall’immagine.
Siamo nel circolo chiuso dove il fuori corrisponde al dentro e viceversa. Chi guarda chi? Lo sguardo allucinato, gli occhi sbarrati che i protagonisti del movimento puntano verso l’obiettivo (come nella foto di Man Ray del 1924 che mostra Breton e altri quattro surrealisti con lo sguardo fisso di fronte), è il diaframma attraverso cui la mediazione del mezzo meccanico, la macchina fotografica, scompare dalla scena: siamo solo noi e loro sul palcoscenico del mondo, e ci guardiamo come se ciascuno vedesse nell’altro qualcosa di magico e spaventoso (il Mago Salvador, Dalí, strabuzza i globi come l’incantatore che dice «a me gli occhi signori»). È il numinoso di Otto, mirabile e terribile, portato nella pura immanenza terrestre, quella dei sensi e della loro capacità di esprimere intelligenza e passione senza cedere alla bellezza estetica, caso mai all’estasi, ecco, come una santa Teresa berniniana calata nelle ombre notturne dei bassifondi parigini o in un noir simenoniano, dove l’assassino è quasi subito intuito e il resto è romanzo, vita, conoscenza della perversione umana. Lo spavento estetico era il tema tipico dell’immaginario di autori come Artaud, Bellmer, Man Ray, ma oggi possiamo dire che era senso del disgusto e dell’orrore dove il delitto è consumato sotto gli occhi dello spettatore con mezzi plateali, teatrali. Cavare un po’ di luce e di bellezza dall’orrore è il sortilegio surrealista, che talvolta cade nell’estetismo, ma spesso impressiona. Il rischio, di fronte a queste manifestazioni che sono 'surreali' proprio in quanto rifiutano la logica che regge la realtà (nonostante l’'automatismo'), è di considerarla un esempio di millanteria estetica come le derive dell’attuale universo mediatico. Al contrario, in quelle immagini c’è ancora una purezza estetica che spreme dal banale le contraddizioni visive, verbali, sonore, propagandistiche, politiche. Il surrealismo ha fatto vedere dove può giungere l’immaginazione umana che tratta il «mondo come immagine del mondo», per usare una celebre espressione di Heidegger. E non lo fa usando i mezzi espressivi secondo la loro specificità tecnica, ma forzandone le capacità di rappresentazione: la fotografia potrebbe diventare scultura e la pittura far rivivere il sogno come in un film. Il collage fotografico è la risposta all’arte collettiva: è l’album, lo studiolo, l’archivio segreto, dove a essere classificate sono le reliquie del presente, di ciò che passa. Esiste una fotografia surrealista: è quella di Man Ray o di Brassaï, e per alcuni aspetti quella di Cartier-Bresson. Ma esiste una fotografia surrealista che nega se stessa ed elabora soltanto l’immagine del gruppo o delle cose come un archetipo di società, una sorta di essere collettivo che si mette in scena davanti all’obiettivo e acquista un’autonomia tale che, rovesciando il punto di vista, è lui che guarda chi lo sta guardando.
Naturalmente, niente è vero in questa finzione. Si tratta di meccanismi psicologici in funzione poetica. Sono autoritratti, quelli di Breton & Co., che replicano iconografie sacre, sociali, rituali. Foto segnaletiche, santini, o biglietti di visita. In ogni foto parla l’individuo e la comune condizione umana: il ritratto collettivo che ci fissa è quello che ambisce a sopravvivere a chi è lì rappresentato. È l’impronta di qualcosa o di qualcuno che è passato, ma resiste nel fantasma fotografico. Se è vero che un telescopio spaziale ha captato le luci che provengono dagli istanti di tredici miliardi di anni fa successivi al Big Bang, perché dubitare che l’occhio fotografico captando le ombre e il riflesso della realtà offra all’uomo una possibilità di durata?
Effimera, ma soltanto per ciò che riguarda la sfera fisica, mentre non vale per la memoria nella società che ha fatto delle tecniche di memorizzazione e archiviazione il supporto che promette eternità ai viventi. Non era questo che speravano gli antichi facendosi l’immagine dell’antenato? C’è qualcosa di sacro in tutto ciò. Ma se un limite esiste nella poetica surrealista è proprio quello di essersi fermata alla superficie del sacro. Andare oltre, infatti, avrebbe messo a rischio l’immaginazione.
Parigi, Centre Pompidou Fino all’11 gennaio 2010
LA SUBVERSION DES IMAGES
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«Avvenire» del 22 dicembre 2009
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