Sbagliato tutelare per legge l’idioma nazionale: non è un bostik col quale incollare lo Stato. Il Risorgimento ci obbligò a una parlata comune che la gente non sentiva affatto sua
di Gilberto Oneto
Una lingua è una convenzione, è uno strumento di comunicazione che funziona finché serve come tale. Altrimenti viene modificata o abbandonata. È successo mille volte nella storia.
È normale che ci si affezioni a una lingua, come a un’abitudine, a un vestito. Sono perciò apprezzabili gli appelli in difesa dell’italiano, come quello lanciato da Lucio D’Arcangelo su Il Giornale, ma non si deve sconfinare nel dogmatismo ideologico. In Italia la lingua è troppo spesso associata all’idea di nazione, è considerata «cemento unitario», strumento politico, con un utilizzo piuttosto disinvolto della realtà storica: è stata evocata come elemento di comunanza fra i popoli della penisola per dare una giustificazione alla creazione di uno Stato unitario, ma è stata imposta all’uso comune solo grazie alla presenza dello Stato. La gioiosa immagine dell’Italia «una di lingua» è uscita dall’entusiasmo davvero eccessivo di Manzoni, che l’ha contraddetta con la necessità di pesanti «sciacquature» in Arno.
Naturalmente l’italiano esisteva da molto tempo ma era solo una lingua colta, non era certo una condivisa convenzione comunicativa. La capivano in pochi, qualcuno la scriveva, ma pochissimi la parlavano normalmente: meno del 5% fuori della Toscana secondo il De Mauro e altri studiosi. Era una lingua per colti come il latino e anche meno del francese, parlato e scritto da tutte le persone istruite. Così comunicavano fra di loro, ad esempio, anche i «padri della Patria». L’atto simbolico più significativo del processo unitario, la «consegna» dell’Italia di Garibaldi a Vittorio Emanuele II a Teano, è avvenuta in francese. Il francese era con l’italiano la lingua ufficiale dello Statuto Albertino e avrebbe anche potuto diventare quella unitaria e oggi D’Arcangelo ne perorerebbe la difesa dall’inglese.
È stata imposta con la forza sugli idiomi locali. Chomsky dice che le lingue sono i dialetti che hanno un esercito, ma un esercito non basta per vincere tutte le guerre e oggi l’italiano sta subendo la stessa sorte che ha fatto subire alle lingue locali, viene sostituito da altre parlate. E non rischia neppure di soccombere per legge, con la forza, come ha fatto fare ai dialetti, si sgretola in proprio per vecchiaia, perché il mondo cambia e nulla resta immutato. È una sorta di vendetta della storia che lo schiaccia fra l’inglese della globalizzazione e il ritorno dei localismi linguistici. Un destino che tocca allo Stato e alla lingua che ha imposto. Non serve farne un feticcio e neppure inventarsi gerarchie di isoglosse che non sono reali: una buona metà degli italiani hanno lingue locali che non discendono dal toscano. Tutto quello che c’è sopra la linea Massa-Senigallia secondo i linguisti è reto-romanzo e gallo-italico, e appartiene alle lingue gallo-romanze, come il francese e l’occitano. C’entra poco con il pelasgico stretto, genere «Distretto di polizia».
È sbagliato (e perdente) prendersela con l’inevitabile riconoscimento del valore culturale e identitario delle lingue locali che andrebbe molto più esteso di quanto previsto dalla legge 482, in verità piuttosto «razzista». Bello sarebbe poter disporre di tre livelli di comunicazione, di tre lingue convenzionali: il dialetto, l’italiano e l’inglese (o il francese, il cinese o quel che serve).
Solo in un’ottica del genere ha senso promuovere la qualità dell’italiano dal degrado a partire dalla pronuncia degli insegnanti, fino all’«inciociarimento» del linguaggio televisivo. Se si deve usare una lingua franca, tanto vale - finché c’è - parlarla bene.
Non ha invece alcun senso continuare a imporla come lingua unica, impedirne per legge l’evoluzione o l’estinzione. Soprattutto non giova farne un’icona patriottica, un segno di neo-nazionalismo, un collante unitario, una sorta di «bostik» che tenga assieme quello che non vuole più esserlo. Il Codice Rocco non basta a preservare l’unità statalista, figuriamoci la sua lingua!
È normale che ci si affezioni a una lingua, come a un’abitudine, a un vestito. Sono perciò apprezzabili gli appelli in difesa dell’italiano, come quello lanciato da Lucio D’Arcangelo su Il Giornale, ma non si deve sconfinare nel dogmatismo ideologico. In Italia la lingua è troppo spesso associata all’idea di nazione, è considerata «cemento unitario», strumento politico, con un utilizzo piuttosto disinvolto della realtà storica: è stata evocata come elemento di comunanza fra i popoli della penisola per dare una giustificazione alla creazione di uno Stato unitario, ma è stata imposta all’uso comune solo grazie alla presenza dello Stato. La gioiosa immagine dell’Italia «una di lingua» è uscita dall’entusiasmo davvero eccessivo di Manzoni, che l’ha contraddetta con la necessità di pesanti «sciacquature» in Arno.
Naturalmente l’italiano esisteva da molto tempo ma era solo una lingua colta, non era certo una condivisa convenzione comunicativa. La capivano in pochi, qualcuno la scriveva, ma pochissimi la parlavano normalmente: meno del 5% fuori della Toscana secondo il De Mauro e altri studiosi. Era una lingua per colti come il latino e anche meno del francese, parlato e scritto da tutte le persone istruite. Così comunicavano fra di loro, ad esempio, anche i «padri della Patria». L’atto simbolico più significativo del processo unitario, la «consegna» dell’Italia di Garibaldi a Vittorio Emanuele II a Teano, è avvenuta in francese. Il francese era con l’italiano la lingua ufficiale dello Statuto Albertino e avrebbe anche potuto diventare quella unitaria e oggi D’Arcangelo ne perorerebbe la difesa dall’inglese.
È stata imposta con la forza sugli idiomi locali. Chomsky dice che le lingue sono i dialetti che hanno un esercito, ma un esercito non basta per vincere tutte le guerre e oggi l’italiano sta subendo la stessa sorte che ha fatto subire alle lingue locali, viene sostituito da altre parlate. E non rischia neppure di soccombere per legge, con la forza, come ha fatto fare ai dialetti, si sgretola in proprio per vecchiaia, perché il mondo cambia e nulla resta immutato. È una sorta di vendetta della storia che lo schiaccia fra l’inglese della globalizzazione e il ritorno dei localismi linguistici. Un destino che tocca allo Stato e alla lingua che ha imposto. Non serve farne un feticcio e neppure inventarsi gerarchie di isoglosse che non sono reali: una buona metà degli italiani hanno lingue locali che non discendono dal toscano. Tutto quello che c’è sopra la linea Massa-Senigallia secondo i linguisti è reto-romanzo e gallo-italico, e appartiene alle lingue gallo-romanze, come il francese e l’occitano. C’entra poco con il pelasgico stretto, genere «Distretto di polizia».
È sbagliato (e perdente) prendersela con l’inevitabile riconoscimento del valore culturale e identitario delle lingue locali che andrebbe molto più esteso di quanto previsto dalla legge 482, in verità piuttosto «razzista». Bello sarebbe poter disporre di tre livelli di comunicazione, di tre lingue convenzionali: il dialetto, l’italiano e l’inglese (o il francese, il cinese o quel che serve).
Solo in un’ottica del genere ha senso promuovere la qualità dell’italiano dal degrado a partire dalla pronuncia degli insegnanti, fino all’«inciociarimento» del linguaggio televisivo. Se si deve usare una lingua franca, tanto vale - finché c’è - parlarla bene.
Non ha invece alcun senso continuare a imporla come lingua unica, impedirne per legge l’evoluzione o l’estinzione. Soprattutto non giova farne un’icona patriottica, un segno di neo-nazionalismo, un collante unitario, una sorta di «bostik» che tenga assieme quello che non vuole più esserlo. Il Codice Rocco non basta a preservare l’unità statalista, figuriamoci la sua lingua!
«Il Giornale» del 16 dicembre 2009
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