Il Quirinale ha fissato la data della festa nazionale: 17 marzo 2011. È il segno che l’Italia esiste e ha una storia È vero: l’unificazione fu voluta da pochi e ci furono violenze. Però è stato un bene per tutti, Chiesa compresa
di Marcello Veneziani
Ragazzi, in piedi. L’Italia finalmente si è ricordata del suo compleanno e si appresta a istituire almeno per i suoi 150 anni, la celebrazione della festa nazionale. Ho appreso da un autorevole consigliere del Quirinale che la Repubblica italiana sta per deliberare di festeggiare il suo compleanno, dichiarando il 17 marzo del 2011 festa nazionale. L’avevo proposto in solitudine al Comitato dei garanti per l’Unità d’Italia, presieduto da Carlo Azeglio Ciampi, e mi fa piacere che l’idea sia stata accolta e stia per farsi legge.
Certo, non basta una festa di compleanno per ricordarsi dell’Italia, ma è almeno un segno per dire che l’Italia non è la location di mafia e camorra, ma esiste davvero e ha perfino una storia. E non è stata abolita solo per fare un dispetto a Berlusconi e alla maggioranza degli italiani che lo vota. Mi auguro che sia l’occasione per parlarne anche a scuola, dove il Risorgimento è ignorato. E qui torno all’Italia trovatella del nostro presente, per chiedere: insomma, questo benedetto Risorgimento dobbiamo celebrarlo o vituperarlo, dobbiamo ricordarcene solennemente o è meglio dimenticarlo? Sono cominciate le prove generali di storia patria, tra convegni e comitati per ricordare l’Unità d’Italia e Roma capitale. Tra l’altro a Roma abbiamo messo in cantiere con il sindaco Gianni Alemanno una grande mostra sull’identità nazionale. Da tempo, anche sul Giornale, fervono aspre polemiche tra i fautori del Risorgimento e i detrattori, divisi a loro volta in sudisti e in leghisti. Mi dispiace per i sabaudi, i borbonici e gli asburgici, mi dispiace per i garibaldini e per i brigantisti, ma penso che abbiano ragione e torto un po’ tutti quanti.
Il Risorgimento è stata insieme un’opera gloriosa e infame. Gloriosa perché una minoranza valorosa fece l’unità d’Italia e mise a repentaglio la propria vita per darci un Paese unito; intelligenze politiche come Cavour si adoperarono con lucidità, principi come i Savoia si impegnarono nell’ardita impresa, grandi soldati come Garibaldi o anche giovani studenti, profeti come Mazzini e Pellico, Gioberti e Cattaneo... Sarà stucchevole l’oleografia e l’agiografia risorgimentale, saranno insopportabili quei monumenti, quelle lapidi, quella toponomastica risorgimentale... ma un Paese deve celebrare la sua unificazione, deve onorare chi l’ha fatta, deve nutrire la memoria condivisa delle sue origini.
Però il Risorgimento ha avuto anche ombre infami. Fu fatto senza e contro i cattolici, i contadini e i meridionali, che furono esclusi e si autoesclusero; fu fatto con soprusi e violenze, con la dittatura di Garibaldi in Sicilia, con eccidi e disprezzo delle popolazioni, portò alla fame e all’emigrazione molta povera gente. E fu concepito da alcuni suoi fautori non come l’Unità d’Italia ma come la colonizzazione piemontese della penisola. Il Sud uscì dall’Unità peggio di come vi era entrato, la Napoli borbonica distava dall’Europa meno di quanto disti la Napoli odierna; molti rimpiansero l’amministrazione asburgica a Nord, i granducati e lo Stato pontificio. E al Sud i briganti non furono né solo eroi popolari né solo selvatici criminali, ma l’uno e l’altro. Un Paese maturo dovrebbe avere la saggezza di ricordare queste pagine oscure e controverse della sua storia, ricordarsi i martiri di ambo i fronti, e ricordare anche la storia dei vinti, su cui una pubblicistica minore ma non disprezzabile ha molto insistito, compresa quell’Angela Pellicciari citata da Berlusconi.
L’Italia non fu unita nel migliore dei modi possibili, anzi fu unita male e controvoglia; e fu voluta da una minoranza, mica dal popolo italiano. Tutto vero. Ma ciò non toglie che quell’Unità fosse giusta e necessaria, che rispondesse non a un capriccio egemonico di una minoranza o di uno Stato ma a un coerente disegno civile e geo-culturale, prima che politico e militare. Il Risorgimento era necessario. Fu un bene l’Unità d’Italia, fu un bene la fine dello Stato pontificio, anche per la Chiesa Cattolica che si liberò del potere temporale che limitava la sua missione universale a uno staterello romanesco; l’Unità fu un bene per gli italiani. Ma fu, dicevo, una necessità perché l’Italia era in cammino già da secoli, come scrisse Gioacchino Volpe. Era in cammino dai tempi dell’antica Roma, poi nel Medioevo Cristiano e nei secoli in cui già si parlava la lingua italiana nel Paese; infarcita di latino e di dialetti ma il volgare era già un punto cruciale di mediazione tra i colti e i popoli locali. Il nostro vero eroe nazionale non fu un condottiero ma un poeta, Dante. L’Italia fu unita da Dante, poeta e autore del De monarchia, e da Machiavelli, e non da Garibaldi. È bella ed eccezionale la nascita italiana dalla parola e dalla poesia, dai versi di un grande poeta ispirato dal divino ma tutt’altro che clericale, piuttosto che dalle sciabolate di un generale. Garibaldi, anzi Cavour, la portò solo a compimento. Ma l’Italia, lo dico da una vita, precede lo Stato italiano; l’Unità non è una nascita ma un coronamento. Ma anche lo Stato italiano non va visto come il fallimento della nazione. Dall’Unità d’Italia per oltre un secolo, l’Italia unita crebbe, si modernizzò, si alfabetizzò, passò prove del fuoco per farsi nazione, si riconobbe unita, pur tra guerre mondiali e guerre civili, partiti unici e partitocrazie. Uno Stato italiano ha funzionato per cent’anni, almeno fino al biennio ’68-70, quando l’onda barbarica e irresponsabile della Contestazione, l’avvento nefasto delle Regioni, la demagogia sindacale, la demeritocrazia, la partitocrazia e i compromessi storici non ne minarono la credibilità, sostituendo lo Stato con lo statalismo, sua controfigura bulimica.
Per questo dico che merita di essere celebrata l’Unità d’Italia, il Risorgimento e poi l’avvento di Roma capitale in cui l’unità si realizzò davvero, perché con Roma entrò davvero il Sud nella nazione ed entrò la storia romana e la civiltà cristiana. È anche un modo per riconnetterci alle generazioni che ci precedettero, ai nostri padri che celebrarono il centenario dell’Unità d’Italia, e che ancor prima si presentarono, da fascisti e da antifascisti, da irredentisti e da liberali, come i prosecutori del Risorgimento. È importante riconoscersi in un’identità comunitaria e in una tradizione, o meglio in una rete di identità, comunità e tradizioni, da quella famigliare a quella culturale, a quella locale e poi nazionale, fino alla propria civiltà. L’italianità esiste e il Risorgimento è un suo decisivo gradino, scivoloso ma necessario. Benedetta Italia.
Certo, non basta una festa di compleanno per ricordarsi dell’Italia, ma è almeno un segno per dire che l’Italia non è la location di mafia e camorra, ma esiste davvero e ha perfino una storia. E non è stata abolita solo per fare un dispetto a Berlusconi e alla maggioranza degli italiani che lo vota. Mi auguro che sia l’occasione per parlarne anche a scuola, dove il Risorgimento è ignorato. E qui torno all’Italia trovatella del nostro presente, per chiedere: insomma, questo benedetto Risorgimento dobbiamo celebrarlo o vituperarlo, dobbiamo ricordarcene solennemente o è meglio dimenticarlo? Sono cominciate le prove generali di storia patria, tra convegni e comitati per ricordare l’Unità d’Italia e Roma capitale. Tra l’altro a Roma abbiamo messo in cantiere con il sindaco Gianni Alemanno una grande mostra sull’identità nazionale. Da tempo, anche sul Giornale, fervono aspre polemiche tra i fautori del Risorgimento e i detrattori, divisi a loro volta in sudisti e in leghisti. Mi dispiace per i sabaudi, i borbonici e gli asburgici, mi dispiace per i garibaldini e per i brigantisti, ma penso che abbiano ragione e torto un po’ tutti quanti.
Il Risorgimento è stata insieme un’opera gloriosa e infame. Gloriosa perché una minoranza valorosa fece l’unità d’Italia e mise a repentaglio la propria vita per darci un Paese unito; intelligenze politiche come Cavour si adoperarono con lucidità, principi come i Savoia si impegnarono nell’ardita impresa, grandi soldati come Garibaldi o anche giovani studenti, profeti come Mazzini e Pellico, Gioberti e Cattaneo... Sarà stucchevole l’oleografia e l’agiografia risorgimentale, saranno insopportabili quei monumenti, quelle lapidi, quella toponomastica risorgimentale... ma un Paese deve celebrare la sua unificazione, deve onorare chi l’ha fatta, deve nutrire la memoria condivisa delle sue origini.
Però il Risorgimento ha avuto anche ombre infami. Fu fatto senza e contro i cattolici, i contadini e i meridionali, che furono esclusi e si autoesclusero; fu fatto con soprusi e violenze, con la dittatura di Garibaldi in Sicilia, con eccidi e disprezzo delle popolazioni, portò alla fame e all’emigrazione molta povera gente. E fu concepito da alcuni suoi fautori non come l’Unità d’Italia ma come la colonizzazione piemontese della penisola. Il Sud uscì dall’Unità peggio di come vi era entrato, la Napoli borbonica distava dall’Europa meno di quanto disti la Napoli odierna; molti rimpiansero l’amministrazione asburgica a Nord, i granducati e lo Stato pontificio. E al Sud i briganti non furono né solo eroi popolari né solo selvatici criminali, ma l’uno e l’altro. Un Paese maturo dovrebbe avere la saggezza di ricordare queste pagine oscure e controverse della sua storia, ricordarsi i martiri di ambo i fronti, e ricordare anche la storia dei vinti, su cui una pubblicistica minore ma non disprezzabile ha molto insistito, compresa quell’Angela Pellicciari citata da Berlusconi.
L’Italia non fu unita nel migliore dei modi possibili, anzi fu unita male e controvoglia; e fu voluta da una minoranza, mica dal popolo italiano. Tutto vero. Ma ciò non toglie che quell’Unità fosse giusta e necessaria, che rispondesse non a un capriccio egemonico di una minoranza o di uno Stato ma a un coerente disegno civile e geo-culturale, prima che politico e militare. Il Risorgimento era necessario. Fu un bene l’Unità d’Italia, fu un bene la fine dello Stato pontificio, anche per la Chiesa Cattolica che si liberò del potere temporale che limitava la sua missione universale a uno staterello romanesco; l’Unità fu un bene per gli italiani. Ma fu, dicevo, una necessità perché l’Italia era in cammino già da secoli, come scrisse Gioacchino Volpe. Era in cammino dai tempi dell’antica Roma, poi nel Medioevo Cristiano e nei secoli in cui già si parlava la lingua italiana nel Paese; infarcita di latino e di dialetti ma il volgare era già un punto cruciale di mediazione tra i colti e i popoli locali. Il nostro vero eroe nazionale non fu un condottiero ma un poeta, Dante. L’Italia fu unita da Dante, poeta e autore del De monarchia, e da Machiavelli, e non da Garibaldi. È bella ed eccezionale la nascita italiana dalla parola e dalla poesia, dai versi di un grande poeta ispirato dal divino ma tutt’altro che clericale, piuttosto che dalle sciabolate di un generale. Garibaldi, anzi Cavour, la portò solo a compimento. Ma l’Italia, lo dico da una vita, precede lo Stato italiano; l’Unità non è una nascita ma un coronamento. Ma anche lo Stato italiano non va visto come il fallimento della nazione. Dall’Unità d’Italia per oltre un secolo, l’Italia unita crebbe, si modernizzò, si alfabetizzò, passò prove del fuoco per farsi nazione, si riconobbe unita, pur tra guerre mondiali e guerre civili, partiti unici e partitocrazie. Uno Stato italiano ha funzionato per cent’anni, almeno fino al biennio ’68-70, quando l’onda barbarica e irresponsabile della Contestazione, l’avvento nefasto delle Regioni, la demagogia sindacale, la demeritocrazia, la partitocrazia e i compromessi storici non ne minarono la credibilità, sostituendo lo Stato con lo statalismo, sua controfigura bulimica.
Per questo dico che merita di essere celebrata l’Unità d’Italia, il Risorgimento e poi l’avvento di Roma capitale in cui l’unità si realizzò davvero, perché con Roma entrò davvero il Sud nella nazione ed entrò la storia romana e la civiltà cristiana. È anche un modo per riconnetterci alle generazioni che ci precedettero, ai nostri padri che celebrarono il centenario dell’Unità d’Italia, e che ancor prima si presentarono, da fascisti e da antifascisti, da irredentisti e da liberali, come i prosecutori del Risorgimento. È importante riconoscersi in un’identità comunitaria e in una tradizione, o meglio in una rete di identità, comunità e tradizioni, da quella famigliare a quella culturale, a quella locale e poi nazionale, fino alla propria civiltà. L’italianità esiste e il Risorgimento è un suo decisivo gradino, scivoloso ma necessario. Benedetta Italia.
«Il Giornale» del 14 dicembre 2009
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