Politici, giornalisti, cittadini
di Marco Tarquinio
Ci sono gesti che pesano più di ogni parola che li ha preceduti, e che a quelle parole – nel bene e nel male – danno nuovo peso. La 'pietra' scaraventata domenica sera in faccia a Silvio Berlusconi è un gesto di questo genere. Qualcuno ha detto che quella violenza (intollerabile anche se dovesse infine emergere che non è stata del tutto lucida, ma quale violenza – in fondo – lo è?) appare destinata a rappresentare una specie di spartiacque, un evento che segnerà un 'prima' e un 'dopo' nella infinita transizione politica nella quale siamo immersi da sedici anni. Il quasi generale soprassalto che il drammatico ferimento del capo del governo ha provocato tende a confermarlo. Noi vogliamo augurarci che sia davvero così. Vogliamo sperare che, prima che accada qualcosa di irreparabile, maturi una nuova e condivisa presa di responsabilità.
Un po’ in tutti i partiti, del resto, sta emergendo una profonda e preoccupata consapevolezza di quanto grave sia ormai l’avvelenamento del clima politico e istituzionale. Ed è sempre più evidente che nell’Italia del ritornante bipolarismo furioso è necessario e urgente che venga, finalmente, il tempo del 'disarmo'. Quel disarmo che evoca il presidente della Repubblica, quando chiede che si ponga fine a ogni esasperazione della polemica. Quel letterale disarmo che, con sereno amore per il Paese e con razionale allarme, continuano a invocare da mesi le voci più autorevoli della Chiesa e del mondo cattolico italiano.
Anche da un male può nascere un bene, lo sappiamo. E l’aggressione fisica al presidente del Consiglio potrebbe, effettivamente, propiziare un cambiamento positivo di clima nei palazzi e nella società. Non si tratta, ovviamente, di annullare le differenze, di silenziare i diversi pareri e di uniformare le distinte sensibilità, ma di riportare a un decente tasso di civiltà il confronto politico e il rapporto tra le istituzioni e di abbandonare l’indecente tendenza alla demonizzazione dell’avversario e al non rispetto del responso democratico delle elezioni. Nella cosiddetta Seconda Repubblica, la legittimazione reciproca tra schieramenti e leader, il mutuo riconoscimento di ruoli e funzioni, la convergenza per il bene comune sono stati considerati disdicevoli sinonimi di inciucio, di cedimento, di terzismo... E le conseguenze si vedono. Anzi, si patiscono.
Una svolta s’impone. Nessuno può permettersi di distogliere lo sguardo dal volto insanguinato di Silvio Berlusconi. E nessuno, tantomeno chi l’ha subìto, può sottovalutare l’«esemplarità» dell’atto di violenza compiuto da chi quel sangue ha versato. Un gesto devastante, che ha ricordato a tutti noi che le parole di fuoco armano azioni e reazioni, che colpire è possibile e che a voler colpire ci si riesce. Tanti leader e cittadini semplici l’hanno percepito immediatamente, e la memoria degli anni di piombo ha dato vigore e lucidità all’indignazione e alla volontà di spazzare via anche solo l’idea di quelle possibilità feroci. Ma a non pochi, soprattutto tra i più giovani (basta aver fatto un giro su certi siti internet o aver sbirciato su facebook o anche solo aver sfogliato i giornali), sembra sfuggire la portata dell’escalation che incombe.
Il problema, probabilmente, sono quanti non hanno avuto esperienza dell’onda di odio, terrore e morte che attraversò gli anni 70 e 80 del secolo scorso. E, forse, il problema sono anche coloro che quell’esperienza l’hanno rimossa. Ma, a nostro avviso, il problema sono soprattutto coloro che, ovunque oggi si siano collocati politicamente, di quegli anni terribili hanno conservato l’idea che la battaglia politica con avversari proclamati «nemici» possa e debba diventare, costi quel che costi, una sorta di ordalìa. Naturalmente non ci sono più armi, ci sono 'solo' parole, ma quando ci sono le parole d’ordine e di disordine – come si è visto domenica sera – le armi che non ci sono si possono sempre inventare.
Sì, il disarmo è assolutamente indispensabile. E dovrebbero tenerlo a mente tutti i bellicosi. Quelli che neanche in questo frangente sono stati capaci di dare una solidarietà limpida al presidente del Consiglio. E quelli che parlano alla rinfusa di «mandanti morali» dell’aggressore antiberlusconiano e, così facendo, si allineano alla logica dell’aggressione. Politici, giornalisti, cittadini siamo tutti sulla stessa barca. Con responsabilità diverse, ma uno stesso dovere.
Un po’ in tutti i partiti, del resto, sta emergendo una profonda e preoccupata consapevolezza di quanto grave sia ormai l’avvelenamento del clima politico e istituzionale. Ed è sempre più evidente che nell’Italia del ritornante bipolarismo furioso è necessario e urgente che venga, finalmente, il tempo del 'disarmo'. Quel disarmo che evoca il presidente della Repubblica, quando chiede che si ponga fine a ogni esasperazione della polemica. Quel letterale disarmo che, con sereno amore per il Paese e con razionale allarme, continuano a invocare da mesi le voci più autorevoli della Chiesa e del mondo cattolico italiano.
Anche da un male può nascere un bene, lo sappiamo. E l’aggressione fisica al presidente del Consiglio potrebbe, effettivamente, propiziare un cambiamento positivo di clima nei palazzi e nella società. Non si tratta, ovviamente, di annullare le differenze, di silenziare i diversi pareri e di uniformare le distinte sensibilità, ma di riportare a un decente tasso di civiltà il confronto politico e il rapporto tra le istituzioni e di abbandonare l’indecente tendenza alla demonizzazione dell’avversario e al non rispetto del responso democratico delle elezioni. Nella cosiddetta Seconda Repubblica, la legittimazione reciproca tra schieramenti e leader, il mutuo riconoscimento di ruoli e funzioni, la convergenza per il bene comune sono stati considerati disdicevoli sinonimi di inciucio, di cedimento, di terzismo... E le conseguenze si vedono. Anzi, si patiscono.
Una svolta s’impone. Nessuno può permettersi di distogliere lo sguardo dal volto insanguinato di Silvio Berlusconi. E nessuno, tantomeno chi l’ha subìto, può sottovalutare l’«esemplarità» dell’atto di violenza compiuto da chi quel sangue ha versato. Un gesto devastante, che ha ricordato a tutti noi che le parole di fuoco armano azioni e reazioni, che colpire è possibile e che a voler colpire ci si riesce. Tanti leader e cittadini semplici l’hanno percepito immediatamente, e la memoria degli anni di piombo ha dato vigore e lucidità all’indignazione e alla volontà di spazzare via anche solo l’idea di quelle possibilità feroci. Ma a non pochi, soprattutto tra i più giovani (basta aver fatto un giro su certi siti internet o aver sbirciato su facebook o anche solo aver sfogliato i giornali), sembra sfuggire la portata dell’escalation che incombe.
Il problema, probabilmente, sono quanti non hanno avuto esperienza dell’onda di odio, terrore e morte che attraversò gli anni 70 e 80 del secolo scorso. E, forse, il problema sono anche coloro che quell’esperienza l’hanno rimossa. Ma, a nostro avviso, il problema sono soprattutto coloro che, ovunque oggi si siano collocati politicamente, di quegli anni terribili hanno conservato l’idea che la battaglia politica con avversari proclamati «nemici» possa e debba diventare, costi quel che costi, una sorta di ordalìa. Naturalmente non ci sono più armi, ci sono 'solo' parole, ma quando ci sono le parole d’ordine e di disordine – come si è visto domenica sera – le armi che non ci sono si possono sempre inventare.
Sì, il disarmo è assolutamente indispensabile. E dovrebbero tenerlo a mente tutti i bellicosi. Quelli che neanche in questo frangente sono stati capaci di dare una solidarietà limpida al presidente del Consiglio. E quelli che parlano alla rinfusa di «mandanti morali» dell’aggressore antiberlusconiano e, così facendo, si allineano alla logica dell’aggressione. Politici, giornalisti, cittadini siamo tutti sulla stessa barca. Con responsabilità diverse, ma uno stesso dovere.
«Avvenire» del 16 dicembre 2009
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