di Massimo Giannini
Quando la violenza fisica deflagra e corrompe la contesa politica, non c'è spazio per rimpallarsi la responsabilità delle colpe e rinfacciarsi la contabilità degli errori. Di fronte al dramma di Berlusconi sanguinante e sofferente in Piazza Duomo, viene in mente la celebre frase che John Kennedy disse di fronte alla tragedia del Muro di Berlino: siamo tutti italiani. A ricordarcelo, con le parole più semplici ma più efficaci, è il capo dello Stato.
Ancora una volta, a dispetto di chi lo ha descritto come uomo "di parte", Giorgio Napolitano si conferma davvero il "presidente di tutti". Dobbiamo alla sua saggezza un messaggio che politici e cittadini farebbero bene a scolpire nella mente, in questi giorni difficili. Basta con l'esasperazione della lotta politica, non si alimentino le tensioni, ognuno misuri le parole dovunque si parli: nelle piazze, nei congressi di partito e in tv. Ciascuno faccia la sua parte: non ha senso, adesso, che gli uni accusino gli altri per il clima che si creato. Sembrano banalità. Lo sarebbero, in una democrazia bipolare risolta e compiuta. Non lo sono in Italia, purtroppo, dove da anni viviamo immersi nell'eterna transizione e sommersi dalla tenace contrapposizione tra una metastorica "pregiudiziale anticomunista" e una stoica "resistenza antiberlusconiana".
Alla prima categoria appartengono tutti coloro che nella maggioranza, invece di apprezzare il gesto di Bersani in visita al San Raffaele, si avventurano già nella caccia rancorosa ai "mandanti morali" e nella ricerca livorosa dei "cattivi maestri". Non solo a sinistra (da Di Pietro a Rosy Bindi) ma persino a destra (da Fini a Casini). Come se qualcuno, per terrorismo involontario, avesse "armato" con le sue parole o le sue critiche a Berlusconi la mano impazzita di Massimo Tartaglia. Come se quella maledetta statuina del Duomo scagliata sul volto del premier fosse la prosecuzione del dissenso politico con altri mezzi. Non pare così, per fortuna. Quell'aggressione, per quanto gravissima e ingiustificabile, resta fino a prova contraria il gesto folle di un povero disgraziato. Questo non attenua l'allarme.
Per quanto squilibrato, quell'uomo ha respirato il "clima d'odio" che opprime il Paese. Per questo è prezioso l'appello bipartisan del presidente della Repubblica ad abbassare i toni, per evitare che l'Italia ricada nella spirale di violenza che ha già conosciuto e pagato negli anni di piombo. Ma mai come oggi le reazioni vanno commisurate alle azioni.
Alla seconda categoria appartengono tutti coloro che nell'opposizione, invece di limitarsi a condannare senza appello e senza distinguo quel gesto di insopportabile violenza contro il premier, si avventurano nell'esegesi psicologica del "movente" ("Berlusconi istiga", dice il leader dell'Idv) o peggio ancora si lanciano nell'apoteosi politica del "gesto". Questo è senz'altro l'effetto più vergognoso e intollerabile dell'aggressione di Piazza Duomo: la "comunità" che in rete condivide irresponsabilmente lo slogan "13 dicembre festa nazionale", o che si riunisce gioiosamente su Facebook nel gruppo "Tartaglia Santo subito", non suscita soltanto l'inevitabile "sdegno". Fa letteralmente schifo. Non consuma soltanto la strage delle idee: celebra la morte della politica. Fa da amplificatore, stavolta non solo nel Palazzo ma nel Paese, di quell'aria mefitica che intossica il discorso pubblico. E genera riflessi condizionati, uguali e contrari. Con la stessa rapidità con la quale nascono i gruppi che riecheggiano il sito "Uccidiamo Berlusconi", proliferano siti contrapposti che vaneggiano "Uccidiamo a sprangate Antonio Di Pietro". Questi non sono errori. Sono orrori. Qui non ci sono "compagni" o "camerati" che sbagliano. Qui ci sono imbecilli che scherzano col fuoco.
Le parole sono pietre. A volte diventano persino pallottole. Per questo Napolitano dice giustamente "dobbiamo essere tutti allarmati". E aggiunge "quando dico tutti intendo tutti gli italiani che credono nella democrazia e hanno a cuore che venga garantita la pacifica convivenza civile". Ma proprio la ferma consapevolezza di questo allarme, e la ferrea nettezza con la quale si denuncia e si rifiuta il germe criminogeno della violenza fisica e verbale, non devono e non possono diventare un alibi per cancellare il dovere della critica e il diritto al dissenso. La politica vive di questo. Si alimenta di questa capacità di discernere tra la barbarie terroristica e la valutazione politica. Ha ragione, una volta tanto, Fabrizio Cicchitto: a proposito dei siti che inneggiano all'uccisione di Di Pietro, l'esponente del Pdl ha detto "va condannato senza se e senza ma anche chi ha scritto quelle cose. Non so chi è stato e con quali motivazioni, ma cose del genere non vanno ne scritte né pensate. Ciò evidentemente non ha nulla a che vedere con il giudizio politico che do di Di Pietro, che è totalmente negativo da ogni punto di vista".
Ci sembra un principio sacrosanto. Ma deve valere sempre, e deve valere per tutti. Non solo per un leader dell'opposizione, ma anche e a maggior ragione per il capo del governo. Proprio perché "siamo tutti italiani", oggi siamo solidali con lui. Ma la solidarietà umana e istituzionale non coincide con la sensibilità politica e culturale. Noi, come tutti gli italiani ricordati dal Capo dello Stato "che credono nella democrazia", vorremmo poter continuare ad esercitare il nostro spirito critico. Liberamente, nel rispetto delle persone e dei ruoli. Ma senza essere accusati, per questo, di "terrorismo".
Ancora una volta, a dispetto di chi lo ha descritto come uomo "di parte", Giorgio Napolitano si conferma davvero il "presidente di tutti". Dobbiamo alla sua saggezza un messaggio che politici e cittadini farebbero bene a scolpire nella mente, in questi giorni difficili. Basta con l'esasperazione della lotta politica, non si alimentino le tensioni, ognuno misuri le parole dovunque si parli: nelle piazze, nei congressi di partito e in tv. Ciascuno faccia la sua parte: non ha senso, adesso, che gli uni accusino gli altri per il clima che si creato. Sembrano banalità. Lo sarebbero, in una democrazia bipolare risolta e compiuta. Non lo sono in Italia, purtroppo, dove da anni viviamo immersi nell'eterna transizione e sommersi dalla tenace contrapposizione tra una metastorica "pregiudiziale anticomunista" e una stoica "resistenza antiberlusconiana".
Alla prima categoria appartengono tutti coloro che nella maggioranza, invece di apprezzare il gesto di Bersani in visita al San Raffaele, si avventurano già nella caccia rancorosa ai "mandanti morali" e nella ricerca livorosa dei "cattivi maestri". Non solo a sinistra (da Di Pietro a Rosy Bindi) ma persino a destra (da Fini a Casini). Come se qualcuno, per terrorismo involontario, avesse "armato" con le sue parole o le sue critiche a Berlusconi la mano impazzita di Massimo Tartaglia. Come se quella maledetta statuina del Duomo scagliata sul volto del premier fosse la prosecuzione del dissenso politico con altri mezzi. Non pare così, per fortuna. Quell'aggressione, per quanto gravissima e ingiustificabile, resta fino a prova contraria il gesto folle di un povero disgraziato. Questo non attenua l'allarme.
Per quanto squilibrato, quell'uomo ha respirato il "clima d'odio" che opprime il Paese. Per questo è prezioso l'appello bipartisan del presidente della Repubblica ad abbassare i toni, per evitare che l'Italia ricada nella spirale di violenza che ha già conosciuto e pagato negli anni di piombo. Ma mai come oggi le reazioni vanno commisurate alle azioni.
Alla seconda categoria appartengono tutti coloro che nell'opposizione, invece di limitarsi a condannare senza appello e senza distinguo quel gesto di insopportabile violenza contro il premier, si avventurano nell'esegesi psicologica del "movente" ("Berlusconi istiga", dice il leader dell'Idv) o peggio ancora si lanciano nell'apoteosi politica del "gesto". Questo è senz'altro l'effetto più vergognoso e intollerabile dell'aggressione di Piazza Duomo: la "comunità" che in rete condivide irresponsabilmente lo slogan "13 dicembre festa nazionale", o che si riunisce gioiosamente su Facebook nel gruppo "Tartaglia Santo subito", non suscita soltanto l'inevitabile "sdegno". Fa letteralmente schifo. Non consuma soltanto la strage delle idee: celebra la morte della politica. Fa da amplificatore, stavolta non solo nel Palazzo ma nel Paese, di quell'aria mefitica che intossica il discorso pubblico. E genera riflessi condizionati, uguali e contrari. Con la stessa rapidità con la quale nascono i gruppi che riecheggiano il sito "Uccidiamo Berlusconi", proliferano siti contrapposti che vaneggiano "Uccidiamo a sprangate Antonio Di Pietro". Questi non sono errori. Sono orrori. Qui non ci sono "compagni" o "camerati" che sbagliano. Qui ci sono imbecilli che scherzano col fuoco.
Le parole sono pietre. A volte diventano persino pallottole. Per questo Napolitano dice giustamente "dobbiamo essere tutti allarmati". E aggiunge "quando dico tutti intendo tutti gli italiani che credono nella democrazia e hanno a cuore che venga garantita la pacifica convivenza civile". Ma proprio la ferma consapevolezza di questo allarme, e la ferrea nettezza con la quale si denuncia e si rifiuta il germe criminogeno della violenza fisica e verbale, non devono e non possono diventare un alibi per cancellare il dovere della critica e il diritto al dissenso. La politica vive di questo. Si alimenta di questa capacità di discernere tra la barbarie terroristica e la valutazione politica. Ha ragione, una volta tanto, Fabrizio Cicchitto: a proposito dei siti che inneggiano all'uccisione di Di Pietro, l'esponente del Pdl ha detto "va condannato senza se e senza ma anche chi ha scritto quelle cose. Non so chi è stato e con quali motivazioni, ma cose del genere non vanno ne scritte né pensate. Ciò evidentemente non ha nulla a che vedere con il giudizio politico che do di Di Pietro, che è totalmente negativo da ogni punto di vista".
Ci sembra un principio sacrosanto. Ma deve valere sempre, e deve valere per tutti. Non solo per un leader dell'opposizione, ma anche e a maggior ragione per il capo del governo. Proprio perché "siamo tutti italiani", oggi siamo solidali con lui. Ma la solidarietà umana e istituzionale non coincide con la sensibilità politica e culturale. Noi, come tutti gli italiani ricordati dal Capo dello Stato "che credono nella democrazia", vorremmo poter continuare ad esercitare il nostro spirito critico. Liberamente, nel rispetto delle persone e dei ruoli. Ma senza essere accusati, per questo, di "terrorismo".
«La Repubblica» del 15 dicembre 2009
Nessun commento:
Posta un commento