di Andrea Vaccaro
« La presentazione che è stata fatta del mio lavoro era senz’altro la più bella. Venivo indicato come lo scopritore della verità matematica più significativa del secolo. Non devi pensare che fossi descritto come il più grande matematico del secolo.
La parola ' significativa' dice piuttosto: ' del più grande interesse al di fuori della matematica' » . Così riferisce Kurt Gödel in una lettera alla madre Marianne, dopo l’ennesimo riconoscimento accademico al suo celebre teorema d’incompletezza. Sono trascorsi giusto 80 anni da questa straordinaria intuizione ( secondo il biografo ufficiale Solomon Feferman, Gödel la concepì nel 1929 al tempo della tesi di laurea; la annunciò agli amici del Circolo di Vienna riuniti al Caffè Reichsrat il 26 agosto 1930 e la pubblicò nel 1931), il vecchio secolo è trapassato nel nuovo, ma quel teorema è rimasto la verità più significativa, feconda e suggestiva anche al di fuori della matematica o, come l’autore annota in altra circostanza, « la prima proposizione rigorosamente provata a proposito di un concetto filosofico » . Il concetto filosofico in questione è eccellentemente rappresentato dall’antico paradosso di Epimenide, secondo cui la persona che dice: « Io sto mentendo » , se dice il vero dice il falso e se dice il falso dice il vero.
Gödel, similmente, inventando un linguaggio con cui l’aritmetica può parlare di se stessa ( tecnica poi chiamata « gödelizzazione » ), fa dire ad un enunciato aritmetico: « Io non sono dimostrabile » . Non riesci a dimostrarlo, e l’enunciato si manifesta vero; riesci a dimostrare che non è dimostrabile, e vince ancora lui. In altre parole o, meglio, con le parole di Douglas Hofstadter ( tra menti geniali, si sa, vige una certa affinità), « Gödel ha messo in evidenza che la dimostrabilità è una nozione più debole della verità » . Al di là del rompicapo logico, comunque, tutte le volte che un soggetto tenta di rivolgere la ricerca su se stesso ( autoreferenzialità), il teorema d’incompletezza è lì a provare che una mente non potrà mai conoscere compiutamente come funziona la mente; che un io non arriverà mai a comprendere in modo esauriente la propria storia; che la scienza non ce la farà mai a conoscere esattamente il mondo, dacché si è appurato che il soggetto conoscente è parte integrante del processo conoscitivo. In ognuna di queste dinamiche c’è qualcosa che sfugge costitutivamente, inafferrabile come l’orizzonte. La prova d’incompletezza è anche la prova che c’è dell’ineffabile per la ragione. In molti – su tutti Roger Penrose – hanno usato il teorema di Gödel per dimostrare la superiorità del pensiero umano nei confronti dell’intelligenza meccanizzata delle macchine. È lecito, ma in Gödel c’è qualcosa di molto più profondo. C’è un dato ontologico: « Che non esista la mente separata dalla materia è un pregiudizio del nostro tempo, che sarà refutato scientificamente». C’è una certezza non- riduzionista: « L’affermazione che il nostro io consista di molecole di proteine mi sembra una delle più ridicole mai enunciate » . C’è una componente di trascendenza: « Oggi, il razionalismo è compreso in un senso assurdamente ristretto. Esso non deve far intervenire solo concetti logici » . Amico intimo di Einstein, autore di una prova matematica dell’esistenza di Dio non edita in vita, turbato dall’ossessione di essere avvelenato – alla morte nel 1978 il suo peso corporeo era poco più di 30 chilogrammi –, Gödel riporta, con numeri e parole, un’esperienza di Assoluto. Quell’Assoluto che manca alla dimostrata incompletezza dell’uomo.
La parola ' significativa' dice piuttosto: ' del più grande interesse al di fuori della matematica' » . Così riferisce Kurt Gödel in una lettera alla madre Marianne, dopo l’ennesimo riconoscimento accademico al suo celebre teorema d’incompletezza. Sono trascorsi giusto 80 anni da questa straordinaria intuizione ( secondo il biografo ufficiale Solomon Feferman, Gödel la concepì nel 1929 al tempo della tesi di laurea; la annunciò agli amici del Circolo di Vienna riuniti al Caffè Reichsrat il 26 agosto 1930 e la pubblicò nel 1931), il vecchio secolo è trapassato nel nuovo, ma quel teorema è rimasto la verità più significativa, feconda e suggestiva anche al di fuori della matematica o, come l’autore annota in altra circostanza, « la prima proposizione rigorosamente provata a proposito di un concetto filosofico » . Il concetto filosofico in questione è eccellentemente rappresentato dall’antico paradosso di Epimenide, secondo cui la persona che dice: « Io sto mentendo » , se dice il vero dice il falso e se dice il falso dice il vero.
Gödel, similmente, inventando un linguaggio con cui l’aritmetica può parlare di se stessa ( tecnica poi chiamata « gödelizzazione » ), fa dire ad un enunciato aritmetico: « Io non sono dimostrabile » . Non riesci a dimostrarlo, e l’enunciato si manifesta vero; riesci a dimostrare che non è dimostrabile, e vince ancora lui. In altre parole o, meglio, con le parole di Douglas Hofstadter ( tra menti geniali, si sa, vige una certa affinità), « Gödel ha messo in evidenza che la dimostrabilità è una nozione più debole della verità » . Al di là del rompicapo logico, comunque, tutte le volte che un soggetto tenta di rivolgere la ricerca su se stesso ( autoreferenzialità), il teorema d’incompletezza è lì a provare che una mente non potrà mai conoscere compiutamente come funziona la mente; che un io non arriverà mai a comprendere in modo esauriente la propria storia; che la scienza non ce la farà mai a conoscere esattamente il mondo, dacché si è appurato che il soggetto conoscente è parte integrante del processo conoscitivo. In ognuna di queste dinamiche c’è qualcosa che sfugge costitutivamente, inafferrabile come l’orizzonte. La prova d’incompletezza è anche la prova che c’è dell’ineffabile per la ragione. In molti – su tutti Roger Penrose – hanno usato il teorema di Gödel per dimostrare la superiorità del pensiero umano nei confronti dell’intelligenza meccanizzata delle macchine. È lecito, ma in Gödel c’è qualcosa di molto più profondo. C’è un dato ontologico: « Che non esista la mente separata dalla materia è un pregiudizio del nostro tempo, che sarà refutato scientificamente». C’è una certezza non- riduzionista: « L’affermazione che il nostro io consista di molecole di proteine mi sembra una delle più ridicole mai enunciate » . C’è una componente di trascendenza: « Oggi, il razionalismo è compreso in un senso assurdamente ristretto. Esso non deve far intervenire solo concetti logici » . Amico intimo di Einstein, autore di una prova matematica dell’esistenza di Dio non edita in vita, turbato dall’ossessione di essere avvelenato – alla morte nel 1978 il suo peso corporeo era poco più di 30 chilogrammi –, Gödel riporta, con numeri e parole, un’esperienza di Assoluto. Quell’Assoluto che manca alla dimostrata incompletezza dell’uomo.
«Avvenire» del 17 dicembre 2009
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