Il bilancio di un decennio orribile. L'Italia è stata schizofrenica e le chiacchere sovrastano chi lavora con serietà. Cosa succederebbe, se invece di camminare, corressimo
di Sergio Romano
L’immagine del tunnel, per definire un percorso al buio attraverso una lunga serie di crisi, è ormai inflazionata e svalutata. Ma è quella che definisce meglio i primi anni del secolo, dall’elezione di George W. Bush alla Casa Bianca nel novembre del 2000 all’elezione di Barack Obama nel novembre dell’anno scorso. Le responsabilità non sono soltanto americane. Non è colpa degli Stati Uniti, ad esempio, se il fanatismo islamico, nel settembre del 2001, scatena la guerra santa nel cielo di New York. Ma molto di ciò che è accaduto ha le sue origini nel modo in cui l’America, da quel momento, ha concepito il proprio ruolo nel mondo e nei metodi con cui ha perseguito i suoi obiettivi.
La lista degli avvenimenti funesti è impressionante: la guerra afghana, la guerra irachena, la guerra libanese, la guerra georgiana, la guerra di Gaza, le guerre africane, imassacri del Darfur, una lunga serie di attentati terroristici da Madrid a Londra, dal Pakistan all’India, dall’Indonesia alla Turchia, e una serie non meno importante di repressioni poliziesche in Birmania, nel Tibet, nello Xinjiang, in Iran. Il catalogo delle crisi economiche e finanziarie non è meno lungo, da quella del petrolio e del gas a quella dell’industria automobilistica, da quella americana dei mutui a quella delle banche e delle compagnie di assicurazione, da Wall Street alla City. E mentre gli Stati Uniti reagivano a ogni insuccesso raddoppiando testardamente la posta, l’Europa impiegava otto anni per approvare una Costituzione che le permettesse di governare se stessa e di avere un ruolo mondiale corrispondente alla sua importanza. Aggiungo, per completare il quadro, che in questo marasma si sono fatti spazio gli avventurieri e i corsari, da quelli che controllano gli Stati, come il venezuelano Hugo Chávez e i signori nordcoreani di Pyongyang, a quelli che catturano le navi nel Golfo di Aden e al largo delle coste somale.
Forse siamo prossimi alla fine del tunnel. Vi saranno altre guerre, altri attentati terroristici e altre operazioni militari, forse addirittura nei prossimi giorni. Ma lo stile degli Stati Uniti è cambiato, l’Europa ha finalmente una Costituzione, la crisi del credito ha ripulito almeno in parte le stalle della finanza internazionale e molte industrie (quelle dell’automobile ad esempio) sanno che non è più possibile tornare alle dimensioni di un tempo. So che la conferenza di Copenaghen viene considerata da molti un insuccesso. Ma tra la situazione degli anni scorsi, quando alcuni fra i maggiori Paesi inquinanti rifiutavano qualsiasi impegno, e quella d’oggi corre una bella differenza. So che il G20 non sarà mai probabilmente il governo mondiale dell’economia, ma sarà pur sempre meglio di un G8 che rappresentava soltanto i vecchi proprietari. So che gli Stati Uniti continueranno a considerarsi superpotenza, ma l’America di Obama, soprattutto dopo l’approvazione della riforma sanitaria, assomiglierà un po’ di più all’Europa.
Gli Stati, come gli esseri umani, non smetteranno mai di commettere errori. Ma sanno imparare le lezioni ed eviteranno, almeno per un certo periodo, di ripetere gli errori del passato.
Possiamo dire lo stesso del nostro Paese? Durante il primo decennio del secolo l’Italia è stata, come spesso nel corso della sua storia, schizofrenica. La sua classe politica è litigiosa, il suo rapporto con gli elettori èmediocremente clientelare, i suoi dibattiti sono futili e retorici, l’apparato statale è poco produttivo, le corporazioni sono potenti e miopi. Ma il frastuono delle chiacchiere copre il silenzio di coloro che lavorano seriamente e mettono a segno ogni tanto risultati importanti, spesso con un confortante grado di continuità tra governi di colore diverso. Sul piano delle infrastrutture, un settore cruciale per la sua modernizzazione, il Paese, alla fine del decennio, sta meglio che all’inizio. Lo spettacolo è ancora più confortante se spostiamo lo sguardo dall’apparato politico-amministrativo alla società. Mentre l’agenda politica nazionale era dominata dalla discussione sul declino, molti industriali hanno affrontato il problema senza dare retta alle Cassandre e hanno reinventato le loro aziende.
Da una ricerca della Fondazione Edison, descritta da Marco Fortis sul Sole 24 Ore del 29 dicembre, risulta che nel 2007, prima della grande crisi del credito, l’Italia era «seconda soltanto alla Germania per numero complessivo di primi, secondi e terzi posti nell’export mondiale ogni 100.000 abitanti, precedendo Francia e Corea del Sud». Non è tutto. Mentre le cicale americane e inglesi bruciavano il loro denaro, le formiche italiane continuavano a risparmiare. Abbiamo un pesante debito pubblico, ma se altri Paesi sommassero il debito delle pubbliche amministrazioni a quello delle famiglie, scoprirebbero che la loro situazione, in qualche caso, è peggiore della nostra. Esiste una sonder weg italiana, una via speciale dell’Italia, che ci riserva talvolta qualche gradevole sorpresa.
Occorre evitare tuttavia, al momento dei bilanci, i pericolosi compiacimenti. Dovremmo piuttosto constatare che le potenzialità italiane sono frenate dalla mediocrità della sua classe politica, dallo stato del Mezzogiorno e dalla snervante lentezza con cui stiamo modificando le nostre invecchiate istituzioni. Siamo usciti senza troppi danni da un decennio orribile. Pensate a che cosa accadrebbe se, invece di camminare, ci mettessimo a correre.
La lista degli avvenimenti funesti è impressionante: la guerra afghana, la guerra irachena, la guerra libanese, la guerra georgiana, la guerra di Gaza, le guerre africane, imassacri del Darfur, una lunga serie di attentati terroristici da Madrid a Londra, dal Pakistan all’India, dall’Indonesia alla Turchia, e una serie non meno importante di repressioni poliziesche in Birmania, nel Tibet, nello Xinjiang, in Iran. Il catalogo delle crisi economiche e finanziarie non è meno lungo, da quella del petrolio e del gas a quella dell’industria automobilistica, da quella americana dei mutui a quella delle banche e delle compagnie di assicurazione, da Wall Street alla City. E mentre gli Stati Uniti reagivano a ogni insuccesso raddoppiando testardamente la posta, l’Europa impiegava otto anni per approvare una Costituzione che le permettesse di governare se stessa e di avere un ruolo mondiale corrispondente alla sua importanza. Aggiungo, per completare il quadro, che in questo marasma si sono fatti spazio gli avventurieri e i corsari, da quelli che controllano gli Stati, come il venezuelano Hugo Chávez e i signori nordcoreani di Pyongyang, a quelli che catturano le navi nel Golfo di Aden e al largo delle coste somale.
Forse siamo prossimi alla fine del tunnel. Vi saranno altre guerre, altri attentati terroristici e altre operazioni militari, forse addirittura nei prossimi giorni. Ma lo stile degli Stati Uniti è cambiato, l’Europa ha finalmente una Costituzione, la crisi del credito ha ripulito almeno in parte le stalle della finanza internazionale e molte industrie (quelle dell’automobile ad esempio) sanno che non è più possibile tornare alle dimensioni di un tempo. So che la conferenza di Copenaghen viene considerata da molti un insuccesso. Ma tra la situazione degli anni scorsi, quando alcuni fra i maggiori Paesi inquinanti rifiutavano qualsiasi impegno, e quella d’oggi corre una bella differenza. So che il G20 non sarà mai probabilmente il governo mondiale dell’economia, ma sarà pur sempre meglio di un G8 che rappresentava soltanto i vecchi proprietari. So che gli Stati Uniti continueranno a considerarsi superpotenza, ma l’America di Obama, soprattutto dopo l’approvazione della riforma sanitaria, assomiglierà un po’ di più all’Europa.
Gli Stati, come gli esseri umani, non smetteranno mai di commettere errori. Ma sanno imparare le lezioni ed eviteranno, almeno per un certo periodo, di ripetere gli errori del passato.
Possiamo dire lo stesso del nostro Paese? Durante il primo decennio del secolo l’Italia è stata, come spesso nel corso della sua storia, schizofrenica. La sua classe politica è litigiosa, il suo rapporto con gli elettori èmediocremente clientelare, i suoi dibattiti sono futili e retorici, l’apparato statale è poco produttivo, le corporazioni sono potenti e miopi. Ma il frastuono delle chiacchiere copre il silenzio di coloro che lavorano seriamente e mettono a segno ogni tanto risultati importanti, spesso con un confortante grado di continuità tra governi di colore diverso. Sul piano delle infrastrutture, un settore cruciale per la sua modernizzazione, il Paese, alla fine del decennio, sta meglio che all’inizio. Lo spettacolo è ancora più confortante se spostiamo lo sguardo dall’apparato politico-amministrativo alla società. Mentre l’agenda politica nazionale era dominata dalla discussione sul declino, molti industriali hanno affrontato il problema senza dare retta alle Cassandre e hanno reinventato le loro aziende.
Da una ricerca della Fondazione Edison, descritta da Marco Fortis sul Sole 24 Ore del 29 dicembre, risulta che nel 2007, prima della grande crisi del credito, l’Italia era «seconda soltanto alla Germania per numero complessivo di primi, secondi e terzi posti nell’export mondiale ogni 100.000 abitanti, precedendo Francia e Corea del Sud». Non è tutto. Mentre le cicale americane e inglesi bruciavano il loro denaro, le formiche italiane continuavano a risparmiare. Abbiamo un pesante debito pubblico, ma se altri Paesi sommassero il debito delle pubbliche amministrazioni a quello delle famiglie, scoprirebbero che la loro situazione, in qualche caso, è peggiore della nostra. Esiste una sonder weg italiana, una via speciale dell’Italia, che ci riserva talvolta qualche gradevole sorpresa.
Occorre evitare tuttavia, al momento dei bilanci, i pericolosi compiacimenti. Dovremmo piuttosto constatare che le potenzialità italiane sono frenate dalla mediocrità della sua classe politica, dallo stato del Mezzogiorno e dalla snervante lentezza con cui stiamo modificando le nostre invecchiate istituzioni. Siamo usciti senza troppi danni da un decennio orribile. Pensate a che cosa accadrebbe se, invece di camminare, ci mettessimo a correre.
«Coriere della sera» del 31 dicembre 2009
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