11 dicembre 2009

Corti: le 25 cariche del «Cavallo rosso»

Il successo soprattutto nella «laicista» Francia; la mancata trasposizione televisiva; le traduzioni «pirata» in Russia...
di Roberto Beretta
Mentre il suo capolavoro giunge alla 25ª edizione e Milano gli dedica una giornata a Palazzo Reale, lo scrittore cattolico brianzolo traccia in positivo il suo bilancio
«L’intervista? Deve venire do­po le 9 di sera, perché di giorno lavoro»... Eugenio Corti, 89 anni il prossimo gennaio, spiaz­za così; al punto che sarà presente solo in dvd al convegno di un intero giorno che gli sarà dedicato domani a Palazzo Reale di Milano. Non è snobismo; si tratta piutto­sto di fedeltà alla promessa («Non un vo­to, ma quasi») fatto la notte di Natale 1942 nella «valle della morte» ad Arbusov, men­tre era assediato dai cosacchi che incalza­vano i resti delle armate italiane in ritirata sulle nevi di Russia: «Se la scampo, dedi­cherò il resto della vita all’avvento del Re­gno di Dio e della Verità». Dopodiché ci so­no stati 67 anni e 8 libri per tener fede alla promessa: si diventa scrittori anche così. E oggi i lettori festeggiano la 25ª edizione del Cavallo rosso.
Professore, anche lei lo considera il suo «capolavoro»?
«Certamente: ci ho impegnato sopra 11 an­ni, tra preparazione e stesura, e spero di essere arrivato a esprimere ciò che davve­ro intendevo. Se devo dire quali miei libri mi soddisfano in pieno, allora faccio due titoli: il Cavallo e Processo e morte di Sta­lin. Che però ha avuto poco successo in I­talia ».
Le dispiace che quel «Cavallo» esuberan­te abbia oscurato il resto della sua produ­zione?
«Il Cavallo rosso ha fatto 25 edizioni, è ve­ro; ma anche il mio primo libro, I più non ritornano, dedicato proprio alla ritirata di Russia, dal 1947 a oggi ne ha tirate più di 20, senza contare l’estero... Voglio dire, in­somma, che pure gli altri miei libri segui­tano a stare sul mercato, ci sono conti­nuamente nuove edizioni. Ciascuno oc­cupa il suo spazio, mi pare».
Lei ha avuto successo soprattutto in Fran­cia: Paese laico, se non laicista. Non è stra­no, per un autore «cattolico che scrive in cattolico», come la hanno definita?
«È vero, la letteratura oltralpe è in mano ai laicisti, però la presenza cattolica è vivace e forte e non si piega. I cristiani francesi combattono fieramente e forse per questo insieme a loro mi trovo bene».
È vero che un innominato «guru tv» ha posto il veto alla trasposizione televisiva del «Cavallo rosso»?
«Ho firmato una quindicina d’anni fa il contratto per i diritti del libro con la Lux Vi­de di Ettore Bernabei, che l’avrebbe pro­dotto in una dozzina di puntate, come u­sava allora. Però poi non se ne fece nulla. Cosa sia successo davvero non lo so».
Che cosa ha provato nel vedere don Gnoc­chi (il prete che ha celebrato il suo matri­monio) proclamato beato?
«Me l’aspettavo, fin da prima che morisse! Ho conosciuto almeno due santi 'massic­ci' – oltre a certe figure minori del popolo: don Gnocchi e don Giussani. Il primo, a­vendoci a che fare, lo dicevano tutti: quel­lo lì è un santo! Me lo ricordo... Mi sgrida­va perché a trent’anni non ero ancora spo­sato. Una volta alla Stazione centrale, a­vendolo intravisto mentre prendeva il tre­no, l’ho inseguito: 'Don Carlo, adesso è ve­nuto il momento. Ma non pos­so certo pretendere che venga lei a celebrare il matrimonio fi­no in Umbria'. Invece ha tirato fuori un taccuino, come quello che usava in Russia per anno­tare i nomi dei morti e poi co­municarli ai parenti, e ha se­gnato la data. La notte prima del matrimonio, passeggiavo con lui e i miei due testimoni per le strade di Assisi: era elettrizzato perché in Francia avevano scoperto un metodo di chirurgia plastica per correggere i difetti del viso. Era un sistema che avrebbe dovuto interessare le dive del cinema, ma lui era saltato sul treno, era an­dato a Parigi e aveva convinto i responsa­bili della clinica a operare anche i suoi mu­tilatini, soprattutto le femmine: 'Io le mie bambine le voglio tutte belle', diceva. Que­sto era don Carlo».
Che differenze ci sono tra la sua descri­zione della ritirata di Russia e quelle di al­tri «grandi» come Rigoni Stern, Revelli, Bedeschi?
«Di libri sulla disfatta del Don ce ne sono almeno 300 e ne escono tuttora di nuovi. Che tengono il campo però sono tre: Rigoni Stern, Bedeschi e il mio. La differenza fon­damentale è che i primi due riguardano gli alpini, cioè i 'vittoriosi' tra i perdenti, men­tre il mio è dedicato agli sconfitti puri (io non ero un alpino, facevo parte della pri­ma armata inviata in Russia). Rigoni e Be­deschi scrivono molto bene, le loro opere sono letterariamente valide. Tuttavia il li­bro che fa più odiare la guerra in generale penso sia proprio il mio: eppure è tutt’al­tro che di sinistra... Pensi, ho ricevuto una mail da San Pietroburgo, di un lettore rus­so professore di storia in un liceo: non sa­pevo nemmeno che I più non ritornano fosse stato tradotto in russo, invece era l’u­nica opera italiana scelta da una presti­giosa casa editrice in una collana dedica­ta alla guerra russa vista dall’estero».
Il presidente bielorusso Lukashenko ha promesso a Berlusconi gli archivi sugli al­pini morti o prigionieri in Russia. Crede che ne uscirà qualcosa di nuovo?
«È vero, la colonna degli alpini ha finito la sua ritirata a Minsk, men­tre noi dell’ex Csir abbiamo segui­to un’altra strada più a sud... Forse in quei faldoni ci saranno testimo­nianze degli incontri degli italiani con la popolazione locale: che ci trattava bene perché l’avevamo trat­tata bene».
Ora c’è un’Associazione intitolata a suo nome, si fanno convegni su di lei. Lo considera un «risarcimento» per certe censure del passato?
«Le mie opere sono state emarginate per­ché attaccavo la cultura dominante. Ma i libri si sono diffusi per passaparola e io so­no contento di com’è andata. Certo: mi a­spetto che siano ancora più conosciuti, perché sono convinto che valgano, e se ne parlano bene mi fa piacere. Però non mi considero uno che debba essere risarcito; il mio premio l’ho già avuto: in Russia avevo fatto una promessa e l’ho mantenuta».
«Avvenire» del 10 dicembre 2009

Nessun commento: