Il successo soprattutto nella «laicista» Francia; la mancata trasposizione televisiva; le traduzioni «pirata» in Russia...
di Roberto Beretta
Mentre il suo capolavoro giunge alla 25ª edizione e Milano gli dedica una giornata a Palazzo Reale, lo scrittore cattolico brianzolo traccia in positivo il suo bilancio
«L’intervista? Deve venire dopo le 9 di sera, perché di giorno lavoro»... Eugenio Corti, 89 anni il prossimo gennaio, spiazza così; al punto che sarà presente solo in dvd al convegno di un intero giorno che gli sarà dedicato domani a Palazzo Reale di Milano. Non è snobismo; si tratta piuttosto di fedeltà alla promessa («Non un voto, ma quasi») fatto la notte di Natale 1942 nella «valle della morte» ad Arbusov, mentre era assediato dai cosacchi che incalzavano i resti delle armate italiane in ritirata sulle nevi di Russia: «Se la scampo, dedicherò il resto della vita all’avvento del Regno di Dio e della Verità». Dopodiché ci sono stati 67 anni e 8 libri per tener fede alla promessa: si diventa scrittori anche così. E oggi i lettori festeggiano la 25ª edizione del Cavallo rosso.
Professore, anche lei lo considera il suo «capolavoro»?
«Certamente: ci ho impegnato sopra 11 anni, tra preparazione e stesura, e spero di essere arrivato a esprimere ciò che davvero intendevo. Se devo dire quali miei libri mi soddisfano in pieno, allora faccio due titoli: il Cavallo e Processo e morte di Stalin. Che però ha avuto poco successo in Italia ».
Le dispiace che quel «Cavallo» esuberante abbia oscurato il resto della sua produzione?
«Il Cavallo rosso ha fatto 25 edizioni, è vero; ma anche il mio primo libro, I più non ritornano, dedicato proprio alla ritirata di Russia, dal 1947 a oggi ne ha tirate più di 20, senza contare l’estero... Voglio dire, insomma, che pure gli altri miei libri seguitano a stare sul mercato, ci sono continuamente nuove edizioni. Ciascuno occupa il suo spazio, mi pare».
Lei ha avuto successo soprattutto in Francia: Paese laico, se non laicista. Non è strano, per un autore «cattolico che scrive in cattolico», come la hanno definita?
«È vero, la letteratura oltralpe è in mano ai laicisti, però la presenza cattolica è vivace e forte e non si piega. I cristiani francesi combattono fieramente e forse per questo insieme a loro mi trovo bene».
È vero che un innominato «guru tv» ha posto il veto alla trasposizione televisiva del «Cavallo rosso»?
«Ho firmato una quindicina d’anni fa il contratto per i diritti del libro con la Lux Vide di Ettore Bernabei, che l’avrebbe prodotto in una dozzina di puntate, come usava allora. Però poi non se ne fece nulla. Cosa sia successo davvero non lo so».
Che cosa ha provato nel vedere don Gnocchi (il prete che ha celebrato il suo matrimonio) proclamato beato?
«Me l’aspettavo, fin da prima che morisse! Ho conosciuto almeno due santi 'massicci' – oltre a certe figure minori del popolo: don Gnocchi e don Giussani. Il primo, avendoci a che fare, lo dicevano tutti: quello lì è un santo! Me lo ricordo... Mi sgridava perché a trent’anni non ero ancora sposato. Una volta alla Stazione centrale, avendolo intravisto mentre prendeva il treno, l’ho inseguito: 'Don Carlo, adesso è venuto il momento. Ma non posso certo pretendere che venga lei a celebrare il matrimonio fino in Umbria'. Invece ha tirato fuori un taccuino, come quello che usava in Russia per annotare i nomi dei morti e poi comunicarli ai parenti, e ha segnato la data. La notte prima del matrimonio, passeggiavo con lui e i miei due testimoni per le strade di Assisi: era elettrizzato perché in Francia avevano scoperto un metodo di chirurgia plastica per correggere i difetti del viso. Era un sistema che avrebbe dovuto interessare le dive del cinema, ma lui era saltato sul treno, era andato a Parigi e aveva convinto i responsabili della clinica a operare anche i suoi mutilatini, soprattutto le femmine: 'Io le mie bambine le voglio tutte belle', diceva. Questo era don Carlo».
Che differenze ci sono tra la sua descrizione della ritirata di Russia e quelle di altri «grandi» come Rigoni Stern, Revelli, Bedeschi?
«Di libri sulla disfatta del Don ce ne sono almeno 300 e ne escono tuttora di nuovi. Che tengono il campo però sono tre: Rigoni Stern, Bedeschi e il mio. La differenza fondamentale è che i primi due riguardano gli alpini, cioè i 'vittoriosi' tra i perdenti, mentre il mio è dedicato agli sconfitti puri (io non ero un alpino, facevo parte della prima armata inviata in Russia). Rigoni e Bedeschi scrivono molto bene, le loro opere sono letterariamente valide. Tuttavia il libro che fa più odiare la guerra in generale penso sia proprio il mio: eppure è tutt’altro che di sinistra... Pensi, ho ricevuto una mail da San Pietroburgo, di un lettore russo professore di storia in un liceo: non sapevo nemmeno che I più non ritornano fosse stato tradotto in russo, invece era l’unica opera italiana scelta da una prestigiosa casa editrice in una collana dedicata alla guerra russa vista dall’estero».
Il presidente bielorusso Lukashenko ha promesso a Berlusconi gli archivi sugli alpini morti o prigionieri in Russia. Crede che ne uscirà qualcosa di nuovo?
«È vero, la colonna degli alpini ha finito la sua ritirata a Minsk, mentre noi dell’ex Csir abbiamo seguito un’altra strada più a sud... Forse in quei faldoni ci saranno testimonianze degli incontri degli italiani con la popolazione locale: che ci trattava bene perché l’avevamo trattata bene».
Ora c’è un’Associazione intitolata a suo nome, si fanno convegni su di lei. Lo considera un «risarcimento» per certe censure del passato?
«Le mie opere sono state emarginate perché attaccavo la cultura dominante. Ma i libri si sono diffusi per passaparola e io sono contento di com’è andata. Certo: mi aspetto che siano ancora più conosciuti, perché sono convinto che valgano, e se ne parlano bene mi fa piacere. Però non mi considero uno che debba essere risarcito; il mio premio l’ho già avuto: in Russia avevo fatto una promessa e l’ho mantenuta».
Professore, anche lei lo considera il suo «capolavoro»?
«Certamente: ci ho impegnato sopra 11 anni, tra preparazione e stesura, e spero di essere arrivato a esprimere ciò che davvero intendevo. Se devo dire quali miei libri mi soddisfano in pieno, allora faccio due titoli: il Cavallo e Processo e morte di Stalin. Che però ha avuto poco successo in Italia ».
Le dispiace che quel «Cavallo» esuberante abbia oscurato il resto della sua produzione?
«Il Cavallo rosso ha fatto 25 edizioni, è vero; ma anche il mio primo libro, I più non ritornano, dedicato proprio alla ritirata di Russia, dal 1947 a oggi ne ha tirate più di 20, senza contare l’estero... Voglio dire, insomma, che pure gli altri miei libri seguitano a stare sul mercato, ci sono continuamente nuove edizioni. Ciascuno occupa il suo spazio, mi pare».
Lei ha avuto successo soprattutto in Francia: Paese laico, se non laicista. Non è strano, per un autore «cattolico che scrive in cattolico», come la hanno definita?
«È vero, la letteratura oltralpe è in mano ai laicisti, però la presenza cattolica è vivace e forte e non si piega. I cristiani francesi combattono fieramente e forse per questo insieme a loro mi trovo bene».
È vero che un innominato «guru tv» ha posto il veto alla trasposizione televisiva del «Cavallo rosso»?
«Ho firmato una quindicina d’anni fa il contratto per i diritti del libro con la Lux Vide di Ettore Bernabei, che l’avrebbe prodotto in una dozzina di puntate, come usava allora. Però poi non se ne fece nulla. Cosa sia successo davvero non lo so».
Che cosa ha provato nel vedere don Gnocchi (il prete che ha celebrato il suo matrimonio) proclamato beato?
«Me l’aspettavo, fin da prima che morisse! Ho conosciuto almeno due santi 'massicci' – oltre a certe figure minori del popolo: don Gnocchi e don Giussani. Il primo, avendoci a che fare, lo dicevano tutti: quello lì è un santo! Me lo ricordo... Mi sgridava perché a trent’anni non ero ancora sposato. Una volta alla Stazione centrale, avendolo intravisto mentre prendeva il treno, l’ho inseguito: 'Don Carlo, adesso è venuto il momento. Ma non posso certo pretendere che venga lei a celebrare il matrimonio fino in Umbria'. Invece ha tirato fuori un taccuino, come quello che usava in Russia per annotare i nomi dei morti e poi comunicarli ai parenti, e ha segnato la data. La notte prima del matrimonio, passeggiavo con lui e i miei due testimoni per le strade di Assisi: era elettrizzato perché in Francia avevano scoperto un metodo di chirurgia plastica per correggere i difetti del viso. Era un sistema che avrebbe dovuto interessare le dive del cinema, ma lui era saltato sul treno, era andato a Parigi e aveva convinto i responsabili della clinica a operare anche i suoi mutilatini, soprattutto le femmine: 'Io le mie bambine le voglio tutte belle', diceva. Questo era don Carlo».
Che differenze ci sono tra la sua descrizione della ritirata di Russia e quelle di altri «grandi» come Rigoni Stern, Revelli, Bedeschi?
«Di libri sulla disfatta del Don ce ne sono almeno 300 e ne escono tuttora di nuovi. Che tengono il campo però sono tre: Rigoni Stern, Bedeschi e il mio. La differenza fondamentale è che i primi due riguardano gli alpini, cioè i 'vittoriosi' tra i perdenti, mentre il mio è dedicato agli sconfitti puri (io non ero un alpino, facevo parte della prima armata inviata in Russia). Rigoni e Bedeschi scrivono molto bene, le loro opere sono letterariamente valide. Tuttavia il libro che fa più odiare la guerra in generale penso sia proprio il mio: eppure è tutt’altro che di sinistra... Pensi, ho ricevuto una mail da San Pietroburgo, di un lettore russo professore di storia in un liceo: non sapevo nemmeno che I più non ritornano fosse stato tradotto in russo, invece era l’unica opera italiana scelta da una prestigiosa casa editrice in una collana dedicata alla guerra russa vista dall’estero».
Il presidente bielorusso Lukashenko ha promesso a Berlusconi gli archivi sugli alpini morti o prigionieri in Russia. Crede che ne uscirà qualcosa di nuovo?
«È vero, la colonna degli alpini ha finito la sua ritirata a Minsk, mentre noi dell’ex Csir abbiamo seguito un’altra strada più a sud... Forse in quei faldoni ci saranno testimonianze degli incontri degli italiani con la popolazione locale: che ci trattava bene perché l’avevamo trattata bene».
Ora c’è un’Associazione intitolata a suo nome, si fanno convegni su di lei. Lo considera un «risarcimento» per certe censure del passato?
«Le mie opere sono state emarginate perché attaccavo la cultura dominante. Ma i libri si sono diffusi per passaparola e io sono contento di com’è andata. Certo: mi aspetto che siano ancora più conosciuti, perché sono convinto che valgano, e se ne parlano bene mi fa piacere. Però non mi considero uno che debba essere risarcito; il mio premio l’ho già avuto: in Russia avevo fatto una promessa e l’ho mantenuta».
«Avvenire» del 10 dicembre 2009
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