La sinistra oggi vuole monopolizzare la difesa dell'identità nazionale, ma fino a ieri la considerava un ostacolo alla "modernità comunista"
di Eugenio Di Rienzo
Provo un deciso fastidio (quello che si prova sempre per certi strumentali fenomeni di trasformismo), per l’entusiasmo con cui i fogli della sinistra hanno monopolizzato la difesa dell’identità nazionale del nostro Paese, in occasione delle prossime celebrazioni del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia.
Evidentemente, a nostra insaputa, molta acqua deve essere passata sotto i ponti da quando Rosario Romeo, alla metà degli anni Settanta, aveva osservato che la gran parte degli intellettuali italiani vicini al Pci, piuttosto che valorizzare la nascita dello Stato italiano, si concentravano sull’obiettivo di correggere, se non di soffocare, i caratteri nazionali per imporre le forme della «modernità comunista».
Questa decomposizione del concetto di Nazione aveva trovato il suo acme nelle scialbe e distratte celebrazioni per il primo centenario dell’Unità italiana del 1961, egemonizzate dal disegno politico di un esecutivo a maggioranza democristiana, ormai proiettato in una irresistibile marcia di avvicinamento all’esperienza del centrosinistra. L’inedita intesa tra cattolici e socialisti puntava a enfatizzare il tema gramsciano del «Risorgimento tradito»: a gettare un anacronistico ponte fra il disinganno patito dai democratici di cento anni prima e la tardiva realizzazione dei loro ideali, che aveva dovuto attendere, per potersi realizzare, la stagione della lotta contro nazismo e fascismo.
In questo modo, sul primo anniversario dell’unità italiana si proiettava una manovra ideologica, concludeva Romeo, attuata dalle «nuove forze uscite dalla lotta di liberazione che sono quasi del tutto indipendenti dalla tradizione risorgimentale e rappresentano se mai quell’altra Italia, dei “rossi” e dei “neri”, che all’Italia liberale era rimasta in gran parte estranea». La grande macchina mediatica messa in piedi dal comitato promotore di quei festeggiamenti era criticata anche da Gioacchino Volpe che la definiva un megafono reclamistico di una vulgata che poteva «dar occasione ai nemici o tiepidi dell’Italia risorgimentale - comunisti, democristiani, clericali - di dire o ripetere che il Risorgimento fu una sopraffazione dei borghesi sui proprietari, e quindi sentirsi incoraggiati a disfare oggi quel che i nostri padri fecero ieri».
Si rinnovava così una tendenza, già attiva nell’immediato dopoguerra, intenzionata a costruire una lettura del nostro passato che uno storico liberale come Carlo Morandi definì icasticamente «la storiografia politica della disfatta». Con essa si esprimeva la convinzione che non esistendo, prima dell’unificazione del 1870, ottenuta solo in forza della «conquista militare» e della «sopraffazione burocratica», un «popolo italiano», non poteva darsi una storia d’Italia, ma soltanto quella dei «diversi popoli italiani». Tutto ciò, continuava Morandi, costituiva una posizione opposta «non solo alle tesi nazionalistiche di Volpe ma anche a quelle liberal-democratiche di Luigi Salvatorelli e di Croce». Una posizione che guardava a Custoza e a Lissa come a premesse «logiche e inevitabili di ben altre sconfitte, che, da Caporetto fino alla marcia anglo-americana dall’Africa alla Sicilia del giugno 1943», avevano segnato infine, col «collasso dello Stato, sorto 85 anni or sono», la conclusione logica di una «costruzione artificiale inadeguata agli italiani».
Questa interpretazione, poi destinata a radicarsi nella pubblica opinione, aveva toccato il suo culmine con un intellettuale vicino alle posizioni del Partito d’azione: Giulio Colamarino. Questi tornava a mettere in evidenza la presunta continuità tra Risorgimento e fascismo, che indebitamente Giovanni Gentile aveva considerato come il fenomeno più significativo della storia d’Italia. Colamarino tuttavia non si limitava a negare il significato positivo di quella continuità, ma lo rovesciava nel suo esatto contrario. L’ascesa di Mussolini e poi il «miserando epilogo italiano dell’8 settembre» avevano la loro origine in un processo di unificazione politica fallito e in una dinamica di nazionalizzazione incompiuta. Il fatto che il capo delle camicie nere avesse potuto «spendere a suo vantaggio i grandi nomi degli unificatori della patria e presentarsi come l’autentico erede del Risorgimento» non equivaleva infatti soltanto a una truffaldina manipolazione della storia.
La riuscita di un così vasto inganno non poteva spiegarsi unicamente con l’abilità della mistificatoria politica culturale del regime. Per comprenderne effettivamente la portata bisognava invece ammettere «l’assenza delle conquiste ideali del Risorgimento nel popolo italiano». In altri termini, si doveva «confessare che dagli stessi eventi di quel periodo non si ricava un chiaro disegno del futuro d’Italia capace di tradursi in norma di vita collettiva». Non casualmente il «crollo politico del 1922», proseguiva Colamarino, era stato propiziato dal vecchio ceto politico liberale, da quella stessa «classe dirigente che avrebbe dovuto custodire il patrimonio ideale del Risorgimento». Né la caduta del regime fascista si era verificata «in seguito ad un moto di rivolta delle opposizioni», ma a opera del Gran Consiglio del fascismo e della monarchia.
Soltanto «sotto l’incubo della disfatta militare», quelle forze avevano posto fine a «vent’anni di oppressione instaurata col consenso e la collaborazione delle classi alte e medie», giacché gli unici a opporre resistenza alla dittatura, prima del 25 luglio, furono non la borghesia liberale, ma le organizzazioni operaie e contadine «sia pure non in nome degli ideali del Risorgimento». Argomenti non del tutto originali, quelli di Colamarino. Già Togliatti nel ’31, nel corso di una furiosa polemica con Carlo Rosselli, aveva sostenuto infatti che «se la tradizione del Risorgimento vive nel fascismo ed è stata da esso sviluppata all’estremo», la rivoluzione antifascista «non potrà essere quindi che una rivoluzione contro il Risorgimento, contro la sua ideologia, contro la soluzione che essa ha dato a tutti i problemi della vita italiana».
Che i legittimi eredi dei denigratori dell’unità nazionale di ieri ne siano diventati oggi i più fanatici sostenitori mostra fino a che punto si possa spingere l’opportunismo politico e la manipolazione ideologica. Le forze del centrodestra sbaglierebbero però gravemente nell’abbandonare ad altri questa partita: occorre tornare a riconoscere che il Risorgimento non costituì soltanto un atto di forza che si illuse di sovrapporre a una comunità secolare di tradizioni e di costumi, di consuetudini giuridiche e di rapporti commerciali, un’unità politica conquistata manu militari, anche contro quegli italiani per nulla inclini ad accettarla.
Ma allo stesso tempo, proprio a noi tocca ricordare che il moto unitario non ebbe la capacità di assicurarsi l’adesione della masse, come invece hanno recentemente sostenuto, con una strumentale interpretazione, Alberto Maria Banti e Paul Ginsbourg nella prefazione al volume della Storia d’Italia Einaudi dedicato appunto al Risorgimento. Quel moto fu piuttosto il risultato degli sforzi di una minoranza virtuosa composta dai quadri politici e intellettuali che, per Croce, «sempre effettivamente tengono e tirano i fili delle azioni». Il cammino verso l’indipendenza della Penisola non rappresentò dunque una marcia trionfale, condivisa da tutto il popolo. Ma la genesi di una grande Nazione nasce sempre anche dai suoi conflitti intestini e dai tentativi fatti per eliminarli.
Evidentemente, a nostra insaputa, molta acqua deve essere passata sotto i ponti da quando Rosario Romeo, alla metà degli anni Settanta, aveva osservato che la gran parte degli intellettuali italiani vicini al Pci, piuttosto che valorizzare la nascita dello Stato italiano, si concentravano sull’obiettivo di correggere, se non di soffocare, i caratteri nazionali per imporre le forme della «modernità comunista».
Questa decomposizione del concetto di Nazione aveva trovato il suo acme nelle scialbe e distratte celebrazioni per il primo centenario dell’Unità italiana del 1961, egemonizzate dal disegno politico di un esecutivo a maggioranza democristiana, ormai proiettato in una irresistibile marcia di avvicinamento all’esperienza del centrosinistra. L’inedita intesa tra cattolici e socialisti puntava a enfatizzare il tema gramsciano del «Risorgimento tradito»: a gettare un anacronistico ponte fra il disinganno patito dai democratici di cento anni prima e la tardiva realizzazione dei loro ideali, che aveva dovuto attendere, per potersi realizzare, la stagione della lotta contro nazismo e fascismo.
In questo modo, sul primo anniversario dell’unità italiana si proiettava una manovra ideologica, concludeva Romeo, attuata dalle «nuove forze uscite dalla lotta di liberazione che sono quasi del tutto indipendenti dalla tradizione risorgimentale e rappresentano se mai quell’altra Italia, dei “rossi” e dei “neri”, che all’Italia liberale era rimasta in gran parte estranea». La grande macchina mediatica messa in piedi dal comitato promotore di quei festeggiamenti era criticata anche da Gioacchino Volpe che la definiva un megafono reclamistico di una vulgata che poteva «dar occasione ai nemici o tiepidi dell’Italia risorgimentale - comunisti, democristiani, clericali - di dire o ripetere che il Risorgimento fu una sopraffazione dei borghesi sui proprietari, e quindi sentirsi incoraggiati a disfare oggi quel che i nostri padri fecero ieri».
Si rinnovava così una tendenza, già attiva nell’immediato dopoguerra, intenzionata a costruire una lettura del nostro passato che uno storico liberale come Carlo Morandi definì icasticamente «la storiografia politica della disfatta». Con essa si esprimeva la convinzione che non esistendo, prima dell’unificazione del 1870, ottenuta solo in forza della «conquista militare» e della «sopraffazione burocratica», un «popolo italiano», non poteva darsi una storia d’Italia, ma soltanto quella dei «diversi popoli italiani». Tutto ciò, continuava Morandi, costituiva una posizione opposta «non solo alle tesi nazionalistiche di Volpe ma anche a quelle liberal-democratiche di Luigi Salvatorelli e di Croce». Una posizione che guardava a Custoza e a Lissa come a premesse «logiche e inevitabili di ben altre sconfitte, che, da Caporetto fino alla marcia anglo-americana dall’Africa alla Sicilia del giugno 1943», avevano segnato infine, col «collasso dello Stato, sorto 85 anni or sono», la conclusione logica di una «costruzione artificiale inadeguata agli italiani».
Questa interpretazione, poi destinata a radicarsi nella pubblica opinione, aveva toccato il suo culmine con un intellettuale vicino alle posizioni del Partito d’azione: Giulio Colamarino. Questi tornava a mettere in evidenza la presunta continuità tra Risorgimento e fascismo, che indebitamente Giovanni Gentile aveva considerato come il fenomeno più significativo della storia d’Italia. Colamarino tuttavia non si limitava a negare il significato positivo di quella continuità, ma lo rovesciava nel suo esatto contrario. L’ascesa di Mussolini e poi il «miserando epilogo italiano dell’8 settembre» avevano la loro origine in un processo di unificazione politica fallito e in una dinamica di nazionalizzazione incompiuta. Il fatto che il capo delle camicie nere avesse potuto «spendere a suo vantaggio i grandi nomi degli unificatori della patria e presentarsi come l’autentico erede del Risorgimento» non equivaleva infatti soltanto a una truffaldina manipolazione della storia.
La riuscita di un così vasto inganno non poteva spiegarsi unicamente con l’abilità della mistificatoria politica culturale del regime. Per comprenderne effettivamente la portata bisognava invece ammettere «l’assenza delle conquiste ideali del Risorgimento nel popolo italiano». In altri termini, si doveva «confessare che dagli stessi eventi di quel periodo non si ricava un chiaro disegno del futuro d’Italia capace di tradursi in norma di vita collettiva». Non casualmente il «crollo politico del 1922», proseguiva Colamarino, era stato propiziato dal vecchio ceto politico liberale, da quella stessa «classe dirigente che avrebbe dovuto custodire il patrimonio ideale del Risorgimento». Né la caduta del regime fascista si era verificata «in seguito ad un moto di rivolta delle opposizioni», ma a opera del Gran Consiglio del fascismo e della monarchia.
Soltanto «sotto l’incubo della disfatta militare», quelle forze avevano posto fine a «vent’anni di oppressione instaurata col consenso e la collaborazione delle classi alte e medie», giacché gli unici a opporre resistenza alla dittatura, prima del 25 luglio, furono non la borghesia liberale, ma le organizzazioni operaie e contadine «sia pure non in nome degli ideali del Risorgimento». Argomenti non del tutto originali, quelli di Colamarino. Già Togliatti nel ’31, nel corso di una furiosa polemica con Carlo Rosselli, aveva sostenuto infatti che «se la tradizione del Risorgimento vive nel fascismo ed è stata da esso sviluppata all’estremo», la rivoluzione antifascista «non potrà essere quindi che una rivoluzione contro il Risorgimento, contro la sua ideologia, contro la soluzione che essa ha dato a tutti i problemi della vita italiana».
Che i legittimi eredi dei denigratori dell’unità nazionale di ieri ne siano diventati oggi i più fanatici sostenitori mostra fino a che punto si possa spingere l’opportunismo politico e la manipolazione ideologica. Le forze del centrodestra sbaglierebbero però gravemente nell’abbandonare ad altri questa partita: occorre tornare a riconoscere che il Risorgimento non costituì soltanto un atto di forza che si illuse di sovrapporre a una comunità secolare di tradizioni e di costumi, di consuetudini giuridiche e di rapporti commerciali, un’unità politica conquistata manu militari, anche contro quegli italiani per nulla inclini ad accettarla.
Ma allo stesso tempo, proprio a noi tocca ricordare che il moto unitario non ebbe la capacità di assicurarsi l’adesione della masse, come invece hanno recentemente sostenuto, con una strumentale interpretazione, Alberto Maria Banti e Paul Ginsbourg nella prefazione al volume della Storia d’Italia Einaudi dedicato appunto al Risorgimento. Quel moto fu piuttosto il risultato degli sforzi di una minoranza virtuosa composta dai quadri politici e intellettuali che, per Croce, «sempre effettivamente tengono e tirano i fili delle azioni». Il cammino verso l’indipendenza della Penisola non rappresentò dunque una marcia trionfale, condivisa da tutto il popolo. Ma la genesi di una grande Nazione nasce sempre anche dai suoi conflitti intestini e dai tentativi fatti per eliminarli.
«Il Foglio» del 18 dicembre 2009
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