di Angelo Guglielmi
L’articolo di Asor Rosa su Repubblica mi suggerisce qualche riflessione non inutile. Il critico professore accortamente registra nella attuale narrativa italiana la presenza di una nuovo ricco numero di autori riconducibili (più o meno tutti) a una caratteristica in comune: che è sì, il ritorno in provincia (come proclama il titolo del tuo intervento) ma prima ancora è il ritorno alla realtà o, meglio ancora, la riproposta (e pratica) del romanzo di fatti che per tutto il secolo scorso nell’intera Europa era stato ritenuto impraticabile. Caro Asor Rosa, tu esalti il fenomeno, compiacendoti della novità e riconoscendo che il primo avvistatore della tendenza e suo efficace (e meritorio) analista è stato il gruppo Wu Ming, che ha indicato il punto d’incontro dei nuovi scrittori e, più specificamente, delle loro opere in due aspetti essenziali: «la presenza determinante di imprese storiche o mitiche, eroiche o comunque avventurose; e la caratteristica di essere narrazioni grandi, ambiziose, a lunga gittata di ampio respiro». Capisco quel tu dici e rispetto quel che Wu Ming scrive, ma ti chiedo: per comprendere questa nuova tendenza e darle un fondamento che le consenta (se meritevole) di sopravvivere, non credi che sarebbe bene interrogarsi sul perché quella modalità narrativa (il romanzo di fatti) sia scomparso per quasi un secolo e oggi sarebbe (anzi è) riapparso? E prima ancora sul perché a partire dalla fine dell’800 la narrativa naturalista e di rappresentazione (appunto rispettosa dei fatti) sia precipitata in una crisi immedicabile perdendo autenticità e verità?
In altre parole: perché mai per oltre un secolo il romanzo che noi (tu e io) amiamo – per intenderci Flaubert, Joyce, Musil, Svevo, Pirandello, Beckett ecc... – non è stato più possibile costruirlo con i materiali della realtà apparente (di cronaca o storica che fosse) e solo era potuto crescere (e prosperare) sul e del rifiuto (e contestazione) di quei materiali? E ancora: perché mai oggi quei materiali per un narratore sarebbero tornati a essere utilizzabili? So che mi perdonerai questa semplificazione che dedico alla comprensione del lettore e so anche (mi è fin troppo presente e noto) che per rispondere a queste domande non bastano i tanti volumi di letteratura storica (e molti portano il tuo nome), di critica letteraria, di storia delle idee, di storia storico-politica che sono stati fino a oggi pubblicati in Italia e nel mondo. Ma insistendo nella semplificazione pur meglio vestita e meno dilettantesca per una prima risposta azzarderei la testimonianza di Foucault il quale scrive: «C’è una ragione che ha portato l’arte moderna a farsi veicolo del cinismo: parlo dell’idea che l’arte stessa, che si tratti di letteratura, di pittura e di musica, deve stabilire con il reale un rapporto che vada al di là dell’imitazione, per divenire messa a nudo, smascheramento, raschiatura, scavo, riduzione violenta dell’esistenza ai suoi elementi primari: Non vi è dubbio che questa visione dell’arte si sia andata affermando in modo sempre più marcato a partire dalla metà del secolo XIX, quando l’arte (con Baudelaire, Flaubert, Manet) si costituisce come luogo di irruzione di ciò che sta in basso, come messa a nudo dell’esistenza».
Volendo aggiungere di mio, per una comprensione più allargata, direi che a partire da metà ‘800 non era stato più possibile sviluppare il rapporto con il reale in termini di imitazione e rappresentazione perché - accantonando le responsabilità (fin troppo accertate) di rivoluzione francese, industrialismo, sviluppo tecnologico, fotografia, civiltà di massa – il sistema linguistico era andato in crisi, conservando più o meno intatta la funzione comunicativa ma denunciando il totale depauperamento della funzione espressiva (con cui lavorano gli scrittori). La parola oggettiva (di rappresentazione) ci serviva ancora per comunicare nella quotidianità ma non più per fare letteratura (e più in genere arte). Bisognava inventarne una nuova, un nuovo linguaggio. E così hanno fatto Cezanne e Picasso, Joyce e Kafka, Majakovskij e Montale, Stravinskij e Berio. Certo con la (grave) conseguenza di allontanare l’arte dalla comprensione popolare e avvicinarla al pubblico colto e agli addetti ai lavori. Tra le vittime più illustri è stato il romanzo (la narratività). Ma così è.
Ora cosa è accaduto nella storia europea e del mondo perché quella lingua che era stata abbandonata perché inadatta a fare arte (a garantire un risultato di verità) oggi possa essere recuperata dagli autori (che tu citi) per scrivere romanzi? Certo è capitato di tutto (mai la storia del mondo è corsa come nel secolo appena alle nostre spalle ed è ancora in fuga accelerata) ma non è questo che possa giustificare quel recupero (anzi lo ha reso più problematico). Ma se non è accaduto nella storia del mondo niente di rilevante rispetto a questo nostro discorso (semmai limitandosi a moltiplicare preoccupazioni e impossibilità) molto è accaduto nella testa e nella coscienza degli autori nei quali è cresciuto una imperiosa voglia di tornare a raccontare, un nuovo bisogno di concretezza che allontanandoli dagli eccessi formali che li aveva preceduti gli restituisse il diritto alla narratività. E questo a cominciare, come tu scrivi, dagli Ammaniti straordinari nella loro gioiosa incontinenza di favoleggiatori. E con loro subito dopo gli altri.
Ma anche per loro si è posto il problema della lingua: anche per loro le parole risultano consumate tanto più oggi travolte dallo tsumani infronteggiabile dello sviluppo dei media (con in testa la televisione). Scoprono che la crisi (indisponibilità) del linguaggio colpisce essenzialmente il rapporto con l’attualità impedendo loro (ma ne sono severamente rimproverati) di raccontare il Paese in cui stanno vivendo, ma lascia relativamente indenne una altra parte della realtà coincidente con gli eventi che si è personalmente vissuti o quell’area costituita dai fatti della storia di ieri che per il fatto di appartenere al passato sembrano più al riparo dagli effetti (dannosissimi) dell’inflazione linguistica. Scoprono che diventa passabilmente possibile il romanzo memorialistico o il romanzo storico e questo decidono di praticare: così Vasta, Bologna, Lagioia, Scurati, De Cataldo, Mazzucco, Lucarelli, Siti e molti altri fino a Roberto Saviano. Quanto all’epicità è un effetto per così dire esterno legato all’aspetto clamoroso degli eventi raccontati più che a un richiamo alto eticamente percepibile. Per questo raggiungimento la realtà del Paese in nessuna delle sue manifestazione sembra avere l’autorità sufficiente.
In altre parole: perché mai per oltre un secolo il romanzo che noi (tu e io) amiamo – per intenderci Flaubert, Joyce, Musil, Svevo, Pirandello, Beckett ecc... – non è stato più possibile costruirlo con i materiali della realtà apparente (di cronaca o storica che fosse) e solo era potuto crescere (e prosperare) sul e del rifiuto (e contestazione) di quei materiali? E ancora: perché mai oggi quei materiali per un narratore sarebbero tornati a essere utilizzabili? So che mi perdonerai questa semplificazione che dedico alla comprensione del lettore e so anche (mi è fin troppo presente e noto) che per rispondere a queste domande non bastano i tanti volumi di letteratura storica (e molti portano il tuo nome), di critica letteraria, di storia delle idee, di storia storico-politica che sono stati fino a oggi pubblicati in Italia e nel mondo. Ma insistendo nella semplificazione pur meglio vestita e meno dilettantesca per una prima risposta azzarderei la testimonianza di Foucault il quale scrive: «C’è una ragione che ha portato l’arte moderna a farsi veicolo del cinismo: parlo dell’idea che l’arte stessa, che si tratti di letteratura, di pittura e di musica, deve stabilire con il reale un rapporto che vada al di là dell’imitazione, per divenire messa a nudo, smascheramento, raschiatura, scavo, riduzione violenta dell’esistenza ai suoi elementi primari: Non vi è dubbio che questa visione dell’arte si sia andata affermando in modo sempre più marcato a partire dalla metà del secolo XIX, quando l’arte (con Baudelaire, Flaubert, Manet) si costituisce come luogo di irruzione di ciò che sta in basso, come messa a nudo dell’esistenza».
Volendo aggiungere di mio, per una comprensione più allargata, direi che a partire da metà ‘800 non era stato più possibile sviluppare il rapporto con il reale in termini di imitazione e rappresentazione perché - accantonando le responsabilità (fin troppo accertate) di rivoluzione francese, industrialismo, sviluppo tecnologico, fotografia, civiltà di massa – il sistema linguistico era andato in crisi, conservando più o meno intatta la funzione comunicativa ma denunciando il totale depauperamento della funzione espressiva (con cui lavorano gli scrittori). La parola oggettiva (di rappresentazione) ci serviva ancora per comunicare nella quotidianità ma non più per fare letteratura (e più in genere arte). Bisognava inventarne una nuova, un nuovo linguaggio. E così hanno fatto Cezanne e Picasso, Joyce e Kafka, Majakovskij e Montale, Stravinskij e Berio. Certo con la (grave) conseguenza di allontanare l’arte dalla comprensione popolare e avvicinarla al pubblico colto e agli addetti ai lavori. Tra le vittime più illustri è stato il romanzo (la narratività). Ma così è.
Ora cosa è accaduto nella storia europea e del mondo perché quella lingua che era stata abbandonata perché inadatta a fare arte (a garantire un risultato di verità) oggi possa essere recuperata dagli autori (che tu citi) per scrivere romanzi? Certo è capitato di tutto (mai la storia del mondo è corsa come nel secolo appena alle nostre spalle ed è ancora in fuga accelerata) ma non è questo che possa giustificare quel recupero (anzi lo ha reso più problematico). Ma se non è accaduto nella storia del mondo niente di rilevante rispetto a questo nostro discorso (semmai limitandosi a moltiplicare preoccupazioni e impossibilità) molto è accaduto nella testa e nella coscienza degli autori nei quali è cresciuto una imperiosa voglia di tornare a raccontare, un nuovo bisogno di concretezza che allontanandoli dagli eccessi formali che li aveva preceduti gli restituisse il diritto alla narratività. E questo a cominciare, come tu scrivi, dagli Ammaniti straordinari nella loro gioiosa incontinenza di favoleggiatori. E con loro subito dopo gli altri.
Ma anche per loro si è posto il problema della lingua: anche per loro le parole risultano consumate tanto più oggi travolte dallo tsumani infronteggiabile dello sviluppo dei media (con in testa la televisione). Scoprono che la crisi (indisponibilità) del linguaggio colpisce essenzialmente il rapporto con l’attualità impedendo loro (ma ne sono severamente rimproverati) di raccontare il Paese in cui stanno vivendo, ma lascia relativamente indenne una altra parte della realtà coincidente con gli eventi che si è personalmente vissuti o quell’area costituita dai fatti della storia di ieri che per il fatto di appartenere al passato sembrano più al riparo dagli effetti (dannosissimi) dell’inflazione linguistica. Scoprono che diventa passabilmente possibile il romanzo memorialistico o il romanzo storico e questo decidono di praticare: così Vasta, Bologna, Lagioia, Scurati, De Cataldo, Mazzucco, Lucarelli, Siti e molti altri fino a Roberto Saviano. Quanto all’epicità è un effetto per così dire esterno legato all’aspetto clamoroso degli eventi raccontati più che a un richiamo alto eticamente percepibile. Per questo raggiungimento la realtà del Paese in nessuna delle sue manifestazione sembra avere l’autorità sufficiente.
«L'Unità» del 20 dicembre 2009
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