16 dicembre 2009

Dall’universale al particolare: la poesia di Andrea Zanzotto

di Silvio Ramat
Ogni nuova raccolta di Andrea Zanzotto costituisce ormai un «evento», non solo per quella sorta di laica aureola che del poeta di Pieve di Soligo fa da qualche anno il più ascoltato fra quelli in esercizio ma perché il suo sospingere ogni volta un po’ più in là le carte di quelli che lui stesso ha chiamato, meglio che «lavori in corso», «lavori alla deriva», ha sempre il sapore di una sfida. Nel quadro di un «progresso» implacabile e vorace a cui l’uomo s’impicca (in un libro-intervista con Marzio Breda, Zanzotto lo ha definito appunto «scorsoio») la poesia non vede appagata la propria richiesta di una decorosa cittadinanza e, dove anche riesca a farsi sentire come voce, sarà voce manchevole o eccessiva: una dura prosa, o un lirismo in falsetto.
Conglomerati (Mondadori, pagg. 201, euro 14) è un titolo che esprime il raggrupparsi in masse, coriacee ma intrinsecamente fragili, di varî elementi della suindicata «deriva». Elementi eterogenei, che possono richiamarsi alla tradizione personale del poeta (tornano i luoghi naturali, le crode del Pedrè, i Colli Euganei; riaffiorano i nomi della geografia di giovinezza, a cominciare dal nome più antico e fantastico, «Dolle») oppure attingere alle cronache più disparate, secondo quell’impulso ad associare per vicinanza, magari solo fonica e grafica, ben familiare al pubblico di Zanzotto. Così il mondo di Wall Street («Strada del Muro») sintetizzato nella figura di Alan Greenspan produce uno scherzoso pasticcio che, passando il testo dalla lingua al dialetto, intreccia nome e cognome del potente finanziere ai due toponimi veneti Alano e Crespano. Così, in un panorama di guerre e cannibalismi, veleni e labirintici lerciumi - donde forse il predominio delle tinte grigie, fino al «nerofumo» -, le tristemente note «polveri sottili» suscitano le «ceneri sottili», gli «infimi fili» e il «nihil», in una stretta coesione di grafìa, suono e senso (ed è appena un esempio tra i tanti).
Libro gravato dalla percezione-conduzione della vecchiaia, coi mali ch’essa comporta. Fessure, faglie, frane, croste, dentellature segnalano un perpetuo «stato di pericolo». A dispetto delle sue croniche stanchezze, non c’è verifica che l’autore non svolga di persona. Quasi in apertura, la ricognizione della casa-osteria di Ligonàs e del sito mostruosamente sfigurato lo induce a un «Addio»; e ora l’Alzeimer - scritto senza la h - gli diventa eponimo di una via di quella stravolta «contrada», in cui trova anche una «via Catarro» e una «via Borderline». Il testo s'intitola Rio fu, palese rimando alla famosa Rio Bo di Palazzeschi. Una parodia a freddo, raggelante come lo sono per lo più questi Conglomerati, malgrado il risorgere o l’insorgere di temi struggenti e nobili. Struggenti come l’epicedio per la giovanissima Silvia, figlia di un amico poeta. Nobili come, nelle ricorrenze del 25 aprile, le memorie di una stagione epica man mano sbiadite o per fatalità o per le colpe di noi posteri. È un altro degli ubi sunt?, dei rimpianti (e compianti) di cui il libro si costella.
Può accadere che tacciano addirittura i «mercatini»: al loro inopinato «silenzio» - aiutandosi, come in altre pagine, con un piccolo schizzo illustrativo - il poeta dedica versi in lingua e in dialetto, cedendo per un breve tratto di pagina a quel «dèmone» lirico che invece, di regola, Zanzotto imbriglia o esorcizza: «Voci si odono rare nel gelo/il solito vento che sa di steppa/a marzo infierisce/incristallisce talvolta e come/sempre ferisce…». È l'apice di un’emotività «convenzionale», che sùbito ci rapisce, così come, basta pronunciarli e collegarli a sfondi mirabilmente «azzurri», ci rapiscono «brina», «ghiaccio», «neve», «galaverna»… Ma sembra che il poeta ormai li concepisca e percepisca solo come «argomenti» di un suo ragionare sconfortato, spogliato di qualsiasi speranza. E in questo, mentre per dovere di sincerità non c’invia che lacerti e schegge, l’opera di Zanzotto si rivela idealmente compatta, unitaria. E nemmeno i Versi casalinghi corrispondono a soste compensative delle molte e faticose perlustrazioni se, fra celia ed allarme, per la casa del poeta si prospetta la sorte che tocca alla casa Usher nel racconto di Poe.
Resta da dire della sfera botanica. I più appassionati «vocativi» di Zanzotto (Vocativo, il suo splendido titolo del 1957) si rivolgono adesso alle umili o superbe creature di quel mondo. I papaveri, i topinambur, i pappi…; e, nuovi privilegiati, l’elleboro, velenosamente suggestivo, e il melograno, anzi il succo di melograno, che nell’«asprigno» e nella tinta fa pensare al sangue degli elfi e al Graal. Pur offesa e violata, la natura merita questa confidenza, questi slanci della fantasia. Senza bisogno di ulteriori teorizzazioni, il contrasto natura/storia occupa il centro della scena di Conglomerati.
«Il Giornale» del 16 dicembre 2009

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