Il web invaso da minacce e insulti
di Gian Antonio Stella
Ma davvero «in democrazia un cittadino deve avere il diritto di dire le sciocchezze più grandi che crede», come teorizzò nel 2003 l’allora ministro della Giustizia Roberto Castelli mettendosi di traverso alla legge europea che voleva ridefinire i reati di razzismo e xenofobia? Roberto Maroni, vista l’immondizia che trabocca online a sostegno dell’uomo che ha scaraventato una statuetta in faccia a Silvio Berlusconi (c’è chi si è spinto a scrivere: «Gli doveva rompere il cranio a quel testa d’asfalto!») pensa di no. E ha ragione. Se è vero che la nostra libertà finisce là dove inizia la libertà degli altri, anche la libertà di parola, cioè il bene più prezioso dell’oro in una democrazia, ha un limite. Che non è solo il buon senso: è il codice penale.
Ci sono delle leggi: l’istigazione a delinquere e l’apologia di reato vanno puniti. Uno Stato serio non può tollerare che esista una zona franca dove divampa una guerra che quotidianamente si fa più aspra, volgare, violenta. Come ha spiegato Antonio Roversi nel libro «L’odio in Rete», il lato oscuro del web «è popolato da individui e gruppi che, pur nella diversità di accenti e idiomi utilizzati, parlano tutti, salvo qualche rara ma importante eccezione, il linguaggio della violenza, della sopraffazione, dell’annientamento ». Tomas Maldonado l’aveva già intuito anni fa: «In queste comunità elettroniche cessa il confronto, il dialogo, il dissenso e cresce il rischio del fanatismo. Web significa Rete ma anche ragnatela. Una ragnatela apparentemente senza ragno, dove la comunicazione, a differenza della tivù, sembra potersi esercitare senza controllo». Ma più libertà di odio è più democrazia? È una tesi dura da sostenere. E pericolosa. Perché, diceva Fulvio Tomizza, che aveva visto il suo piccolo paradiso istriano disintegrarsi in una faida etnica un tempo inimmaginabile, «devono ancora inventarlo un lievito che si gonfi come si gonfia l’odio».
Colpire Internet, dicono gli avvocati di Google denunciata per certi video infami su YouTube ( esempio: un disabile pestato e irriso dai compagni) «è come processare i postini per il contenuto delle lettere che portano». E lo stesso ministro degli Interni non si è nascosto la difficoltà di avventurarsi in battaglie internazionali contro un gigante immenso e impalpabile. Peggio, c’è il rischio di far la fine dello scoiattolino dell’«Era glaciale»: a ogni forellino che tappa, l’acqua irrompe da un’altra parte. Ancora più rischioso, però, sarebbe avviare una (giusta) campagna contro solo una parte dell’odio online. Trascurando tutti gli altri siti che tracimano di fiele come quelli che impunemente scrivono d’un «olocausto comunista perpetrato dalla mafia razzista ebraica responsabile dello sterminio di 300 milioni di non ebrei», di «fottuti schifosi puzzoni stramaledetti sporchi negri mangiabanana », di «maledetti zingari immigrati razza inutile sporca da torturare», di respingimenti da abolire perché «la soluzione a questi problemi è il napalm, altro che rimpatri». Non puoi combattere l’odio se non lo combatti tutto. Andando a colpire sia i teppisti razzisti che sputano online su Umberto Bossi chiamandolo «paralitico di m.» sia quanti aprono gruppi di Facebook intitolati «Io odio Di Pietro» o «Uccidiamo Bassolino». Mai come stavolta, però, il buon esempio deve venire dall’alto. Occorre abbassare i toni. Tutti.
Ci sono delle leggi: l’istigazione a delinquere e l’apologia di reato vanno puniti. Uno Stato serio non può tollerare che esista una zona franca dove divampa una guerra che quotidianamente si fa più aspra, volgare, violenta. Come ha spiegato Antonio Roversi nel libro «L’odio in Rete», il lato oscuro del web «è popolato da individui e gruppi che, pur nella diversità di accenti e idiomi utilizzati, parlano tutti, salvo qualche rara ma importante eccezione, il linguaggio della violenza, della sopraffazione, dell’annientamento ». Tomas Maldonado l’aveva già intuito anni fa: «In queste comunità elettroniche cessa il confronto, il dialogo, il dissenso e cresce il rischio del fanatismo. Web significa Rete ma anche ragnatela. Una ragnatela apparentemente senza ragno, dove la comunicazione, a differenza della tivù, sembra potersi esercitare senza controllo». Ma più libertà di odio è più democrazia? È una tesi dura da sostenere. E pericolosa. Perché, diceva Fulvio Tomizza, che aveva visto il suo piccolo paradiso istriano disintegrarsi in una faida etnica un tempo inimmaginabile, «devono ancora inventarlo un lievito che si gonfi come si gonfia l’odio».
Colpire Internet, dicono gli avvocati di Google denunciata per certi video infami su YouTube ( esempio: un disabile pestato e irriso dai compagni) «è come processare i postini per il contenuto delle lettere che portano». E lo stesso ministro degli Interni non si è nascosto la difficoltà di avventurarsi in battaglie internazionali contro un gigante immenso e impalpabile. Peggio, c’è il rischio di far la fine dello scoiattolino dell’«Era glaciale»: a ogni forellino che tappa, l’acqua irrompe da un’altra parte. Ancora più rischioso, però, sarebbe avviare una (giusta) campagna contro solo una parte dell’odio online. Trascurando tutti gli altri siti che tracimano di fiele come quelli che impunemente scrivono d’un «olocausto comunista perpetrato dalla mafia razzista ebraica responsabile dello sterminio di 300 milioni di non ebrei», di «fottuti schifosi puzzoni stramaledetti sporchi negri mangiabanana », di «maledetti zingari immigrati razza inutile sporca da torturare», di respingimenti da abolire perché «la soluzione a questi problemi è il napalm, altro che rimpatri». Non puoi combattere l’odio se non lo combatti tutto. Andando a colpire sia i teppisti razzisti che sputano online su Umberto Bossi chiamandolo «paralitico di m.» sia quanti aprono gruppi di Facebook intitolati «Io odio Di Pietro» o «Uccidiamo Bassolino». Mai come stavolta, però, il buon esempio deve venire dall’alto. Occorre abbassare i toni. Tutti.
«Corriere della sera» del 15 dicembre 2009
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