s. i. a.
Un settimanale russo pubblica l’intervista ad Andrei Tarkovskij jr, il figlio del famoso regista russo. Tarkovskij jr rievoca le circostanze che, 25 anni fa, portarono all’esilio forzato del padre. «I problemi - racconta - cominciarono subito dopo le riprese di Andrej Rublev. Da quel momento mio padre non fece altro che combattere per la sua arte contro gli ideologi sovietici». Già nel 1983, in una lettera al padre poeta, Arsenij, il regista aveva confidato: «In 20 e più anni di lavoro nel cinema sovietico, ne ho passati quasi 17 in disperata disoccupazione. Il Goskino (il Comitato Statale per la Cinematografia) non voleva che io lavorassi!».
«Nel 1982 - prosegue il figlio del regista - Tarkovskij si recò in Italia per girare Nostal’gija. E quando, nell’84, si vide rifiutare dalle autorità sovietiche il prolungamento del permesso di soggiorno in Italia, in una conferenza stampa a Milano, dichiarò che non aveva intenzione di fare ritorno in Urss. Quando mio padre era partito per l’Italia, avevano trattenuto in Unione Sovietica me e mia nonna come ostaggi. Passarono quattro anni prima che mi consentissero di vedere mio padre. Per le autorità sovietiche, naturalmente, non era vantaggioso lasciarmi partire: dato che mio padre mi amava molto, erano sicuri che prima o poi avrebbe ceduto e sarebbe tornato».
«Dopo che si diffuse la notizia della conferenza stampa di Milano - prosegue il figlio del regista -, nessuno ci venne più a trovare. Anzi, quelli che prima ci trattavano con rispetto, ora, incontrandoci per la strada, si giravano dall’altra parte. Passammo così quattro anni, comunicando con mio padre solo per telefono. Senza dubbio tutte le nostre conversazioni venivano spiate e registrate. Papà ogni volta mi diceva che senz’altro ci saremmo incontrati di nuovo, che bisognava aver fede e continuare a sperare. Lui non voleva emigrare, voleva soltanto aver la possibilità di lavorare. Quando arrivò la notizia della sua malattia mortale, le autorità non avevano più motivo di tenermi in ostaggio. E tuttavia riuscirono a dargli il colpo di grazia. Lasciarono partire me e la nonna solo dopo una lettera personale di Mitterrand a Gorbacev. Riuscimmo a vivere insieme un anno intero. Fino alla fine, lui si ritenne offeso dal suo Paese e da coloro che non gli avevano consentito di vivere e lavorare in patria. Così anche nel testamento indicò che voleva essere sepolto in Europa. Affermò che neanche da morto voleva tornare nel Paese che lo aveva cacciato. Per questo di un trasferimento delle sue ceneri non è neanche il caso di parlare. E i suoi archivi sono tuttora conservati in Italia».
Un libro pubblicato pochi mesi fa dall’interprete che lo assistette in Svezia sul set di Sacrificio, Layla Alexander Garrett, conferma che Tarkovskij fu costretto all’esilio dalla mancanza di libertà. «Nell’aprile del 1981, - rivela l’interprete - quando si trovava in Svezia, Tarkovskij cercò di rimanere in Occidente. Il suo desiderio di vivere e lavorare in situazioni normali, senza censura, senza gli ostacoli messi in atto dalla direzione del Goskino, sembrava naturale. Egli si deciderà a questo passo tre anni dopo, non a Stoccolma, ma a Milano».
Ora, a tanti anni di distanza, l’autore di Andrej Rublev sembra essere diventato quasi di moda. Il più antico istituto di cinematografia, il Vgik di Mosca, che annovera tra i suoi insegnanti e studenti i più bei nomi del grande cinema russo - Ejzenshtejn, Pudovkin, Bondarchuk, Paradjanov, Michalkov, Konchalovskij, Tarkovskij, Sokurov, per parlare solo dei registi - ha celebrato un mese fa i 90 anni con una statua in cui compare proprio Andrej Tarkovskij. Putin, che all’apertura delle cerimonie ha espresso l’intenzione di finanziare il cinema russo in modo che possa riconquistare il posto che aveva quello sovietico nell’arena internazionale, ha dimenticato di ricordare che proprio negli anni in cui Tarkovskij era costretto a emigrare, lui era dall’altra parte della barricata: dal ’75 al ’91 faceva parte di quello stesso Kgb che violava la libertà dei cittadini sovietici, impediva a Tarkovskij, Solzhenitsyn e Rostropovich di vivere una vita normale, di girare film, scrivere, esprimere liberamente le proprie idee.
Anche in Occidente la riabilitazione di Tarkovskij vede protagonisti personaggi che, forse, farebbero meglio a tacere. Com’è stato ricordato con ironia su queste pagine, Dacia Maraini ha visto, nell’ultima fatica letteraria di Veltroni, «uno zoom elegante alla Tarkovskij (penso al bellissimo Solaris)». Ora, Solaris è il film che venne affidato appunto alla Maraini, la quale se non fu all’origine dei mostruosi tagli della sua versione italiana (oltre 40 minuti), certo non trovò modo di opporvisi. E Tarkovskij la accusò negli ultimi anni di vita di aver menomato il suo film. Ancora recentemente, nel suo blog, la Maraini si è difesa da questa accusa con l’argomentazione del burocrate: «Io ho semplicemente fatto il mio lavoro che era quello di doppiare il film». Certo, è difficile accampare questa motivazione proprio davanti a Tarkovskij. A lui che aveva scritto a proposito della responsabilità dell’artista (nel suo libro postumo, Scolpire il tempo), «la libertà consiste nel sacrificio in nome dell’amore». È difficile giustificare il proprio mancato eroismo davanti a chi si trovò a scegliere tra la libertà di girare film e il figlio amatissimo rimasto a Mosca, ostaggio delle autorità sovietiche.
«Nel 1982 - prosegue il figlio del regista - Tarkovskij si recò in Italia per girare Nostal’gija. E quando, nell’84, si vide rifiutare dalle autorità sovietiche il prolungamento del permesso di soggiorno in Italia, in una conferenza stampa a Milano, dichiarò che non aveva intenzione di fare ritorno in Urss. Quando mio padre era partito per l’Italia, avevano trattenuto in Unione Sovietica me e mia nonna come ostaggi. Passarono quattro anni prima che mi consentissero di vedere mio padre. Per le autorità sovietiche, naturalmente, non era vantaggioso lasciarmi partire: dato che mio padre mi amava molto, erano sicuri che prima o poi avrebbe ceduto e sarebbe tornato».
«Dopo che si diffuse la notizia della conferenza stampa di Milano - prosegue il figlio del regista -, nessuno ci venne più a trovare. Anzi, quelli che prima ci trattavano con rispetto, ora, incontrandoci per la strada, si giravano dall’altra parte. Passammo così quattro anni, comunicando con mio padre solo per telefono. Senza dubbio tutte le nostre conversazioni venivano spiate e registrate. Papà ogni volta mi diceva che senz’altro ci saremmo incontrati di nuovo, che bisognava aver fede e continuare a sperare. Lui non voleva emigrare, voleva soltanto aver la possibilità di lavorare. Quando arrivò la notizia della sua malattia mortale, le autorità non avevano più motivo di tenermi in ostaggio. E tuttavia riuscirono a dargli il colpo di grazia. Lasciarono partire me e la nonna solo dopo una lettera personale di Mitterrand a Gorbacev. Riuscimmo a vivere insieme un anno intero. Fino alla fine, lui si ritenne offeso dal suo Paese e da coloro che non gli avevano consentito di vivere e lavorare in patria. Così anche nel testamento indicò che voleva essere sepolto in Europa. Affermò che neanche da morto voleva tornare nel Paese che lo aveva cacciato. Per questo di un trasferimento delle sue ceneri non è neanche il caso di parlare. E i suoi archivi sono tuttora conservati in Italia».
Un libro pubblicato pochi mesi fa dall’interprete che lo assistette in Svezia sul set di Sacrificio, Layla Alexander Garrett, conferma che Tarkovskij fu costretto all’esilio dalla mancanza di libertà. «Nell’aprile del 1981, - rivela l’interprete - quando si trovava in Svezia, Tarkovskij cercò di rimanere in Occidente. Il suo desiderio di vivere e lavorare in situazioni normali, senza censura, senza gli ostacoli messi in atto dalla direzione del Goskino, sembrava naturale. Egli si deciderà a questo passo tre anni dopo, non a Stoccolma, ma a Milano».
Ora, a tanti anni di distanza, l’autore di Andrej Rublev sembra essere diventato quasi di moda. Il più antico istituto di cinematografia, il Vgik di Mosca, che annovera tra i suoi insegnanti e studenti i più bei nomi del grande cinema russo - Ejzenshtejn, Pudovkin, Bondarchuk, Paradjanov, Michalkov, Konchalovskij, Tarkovskij, Sokurov, per parlare solo dei registi - ha celebrato un mese fa i 90 anni con una statua in cui compare proprio Andrej Tarkovskij. Putin, che all’apertura delle cerimonie ha espresso l’intenzione di finanziare il cinema russo in modo che possa riconquistare il posto che aveva quello sovietico nell’arena internazionale, ha dimenticato di ricordare che proprio negli anni in cui Tarkovskij era costretto a emigrare, lui era dall’altra parte della barricata: dal ’75 al ’91 faceva parte di quello stesso Kgb che violava la libertà dei cittadini sovietici, impediva a Tarkovskij, Solzhenitsyn e Rostropovich di vivere una vita normale, di girare film, scrivere, esprimere liberamente le proprie idee.
Anche in Occidente la riabilitazione di Tarkovskij vede protagonisti personaggi che, forse, farebbero meglio a tacere. Com’è stato ricordato con ironia su queste pagine, Dacia Maraini ha visto, nell’ultima fatica letteraria di Veltroni, «uno zoom elegante alla Tarkovskij (penso al bellissimo Solaris)». Ora, Solaris è il film che venne affidato appunto alla Maraini, la quale se non fu all’origine dei mostruosi tagli della sua versione italiana (oltre 40 minuti), certo non trovò modo di opporvisi. E Tarkovskij la accusò negli ultimi anni di vita di aver menomato il suo film. Ancora recentemente, nel suo blog, la Maraini si è difesa da questa accusa con l’argomentazione del burocrate: «Io ho semplicemente fatto il mio lavoro che era quello di doppiare il film». Certo, è difficile accampare questa motivazione proprio davanti a Tarkovskij. A lui che aveva scritto a proposito della responsabilità dell’artista (nel suo libro postumo, Scolpire il tempo), «la libertà consiste nel sacrificio in nome dell’amore». È difficile giustificare il proprio mancato eroismo davanti a chi si trovò a scegliere tra la libertà di girare film e il figlio amatissimo rimasto a Mosca, ostaggio delle autorità sovietiche.
«Il Giornale» del 23 dicembre 2009
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