di Michele Brambilla
Com’era facilmente prevedibile, siamo già qui a officiare il funerale del «normale e civile confronto» invocato dal Capo dello Stato, Giorgio Napolitano. Il «normale e civile confronto» in Italia rientra a pieno titolo fra tutte le più belle cose cantate da Fabrizio De Andrè: vivono solo un giorno, come le rose.
Un giorno in cui s'è dato sfoggio a tutta quella retorica che è lì, nel vocabolario dei politici, sempre pronta a essere riesumata. La retorica per la quale la condanna è sempre ferma; la solidarietà piena; lo sdegno unanime; l'aggressione vile; la spirale pericolosa; la preoccupazione profonda; il monito severo. Quanto fossero sinceri certi buoni propositi, lo abbiamo visto già ieri. L'«auspicato dialogo» (altro termine-totem) centrato «sulla politica e sui problemi della gente», piuttosto che sugli attacchi personali, è ripreso a colpi non di fioretto, ma di cannone.
Non è nostra intenzione fare una classifica per stabilire chi s'è rivelato più incontinente. Tuttavia non può non colpire un fatto. Nelle ore successive al ferimento del premier, è stato il centrodestra a reclamare a gran voce - e a ragione - un abbassamento del livello dello scontro. Sarebbe stato quindi ovvio attendersi un comportamento che desse immediatamente il buon esempio. E invece si è partiti da un attacco del Giornale, già lunedì mattina, che ha parlato di «una regia dietro la violenza» in un articolo che ha indotto Pier Ferdinando Casini a sporgere querela. E stiamo parlando di Casini: non di un incendiario.
Ieri mattina poi, alla Camera, il capogruppo del Pdl Cicchitto ha dato dei mandanti morali al gruppo editoriale Repubblica-Espresso e ad «alcuni pm», e del «terrorista mediatico a Marco Travaglio». Anche Travaglio farà querela. Era stato tirato in ballo pure da Capezzone e dal condirettore del Giornale Sallusti, e ieri ha risposto loro su Il Fatto ricordando, a proposito di «normale e civile confronto», Berlusconi che dà dei «coglioni» agli italiani che non votano per lui; «l'uso criminale della tv» attribuito a Enzo Biagi; Sgarbi che dà degli «assassini» ai pm di Milano e Palermo; il pedinamento del giudice Mesiano; le false accuse al direttore di Avvenire Dino Boffo «di essere gay» e a «Veronica Lario di farsela con la guardia del corpo».
Insomma à la guerre comme à la guerre. Di Pietro, tanto per guardare anche dall'altra parte, era stato uno dei primi, già domenica sera, a ignorare l'appello ad abbassare i toni. Però ieri quando lui ha cominciato a parlare alla Camera, l'intero gruppo del Pdl ha lasciato l'aula: e non è un bel modo per gettare acqua sul fuoco. Così come benzina, e non acqua, ha gettato subito dopo sul fuoco il parlamentare dell'Idv Barbato, che ha definito il Pdl «popolo della mafia». Altri titoli di ieri. Il Giornale: «La Bindi? L'avevo detto: è più bella che intelligente»; «E Travaglio insiste: Si può odiare il premier»; «Bersani dagli insulti alle lacrime di coccodrillo». Perché ce n'è anche per il Pd: «La famiglia di Tartaglia ha detto di aver sempre votato per il Pd. Coincidenza pure questa?». Titoli visti, invece, su Libero: «In Italia si respira guerra. E la colpa è dei compagni»; «Le toghe tirano due statuette».
Intendiamoci. Il centrodestra ha ragione quando dice che da tempo contro Berlusconi s'è scatenata una caccia all'uomo che travalica ogni legittima critica politica. A quest'uomo vengono addebitati tutti i mali possibili e immaginabili, terremoti compresi. Resta però bizzarro invocare una tregua a Berlusconi sanguinante e infrangerla a Berlusconi ricoverato.
Il timore è che nessuno dei due «partiti» abbia intenzione di deporre le armi. Ieri un editoriale su Repubblica di Aldo Schiavone terminava con questa affermazione: «Non abbiamo bisogno di intelligenze "al di sopra delle parti", né abbiamo bisogno di edulcorare le nostre asprezze». Schiavone definisce simili atteggiamenti come «finzioni» e «ipocrisie». Sarà. Ma crediamo di non sbagliare se diciamo che in Italia c'è una maggioranza che vorrebbe una politica meno da ring, e che vorrebbe giudicare fatto per fatto, idea per idea, senza essere prigioniera di due curve di ultrà che rinunciano a pensare con la propria testa. È l'Italia che ha conservato non solo modi civili, ma anche uno sguardo senza pregiudizi sulla realtà.
Un giorno in cui s'è dato sfoggio a tutta quella retorica che è lì, nel vocabolario dei politici, sempre pronta a essere riesumata. La retorica per la quale la condanna è sempre ferma; la solidarietà piena; lo sdegno unanime; l'aggressione vile; la spirale pericolosa; la preoccupazione profonda; il monito severo. Quanto fossero sinceri certi buoni propositi, lo abbiamo visto già ieri. L'«auspicato dialogo» (altro termine-totem) centrato «sulla politica e sui problemi della gente», piuttosto che sugli attacchi personali, è ripreso a colpi non di fioretto, ma di cannone.
Non è nostra intenzione fare una classifica per stabilire chi s'è rivelato più incontinente. Tuttavia non può non colpire un fatto. Nelle ore successive al ferimento del premier, è stato il centrodestra a reclamare a gran voce - e a ragione - un abbassamento del livello dello scontro. Sarebbe stato quindi ovvio attendersi un comportamento che desse immediatamente il buon esempio. E invece si è partiti da un attacco del Giornale, già lunedì mattina, che ha parlato di «una regia dietro la violenza» in un articolo che ha indotto Pier Ferdinando Casini a sporgere querela. E stiamo parlando di Casini: non di un incendiario.
Ieri mattina poi, alla Camera, il capogruppo del Pdl Cicchitto ha dato dei mandanti morali al gruppo editoriale Repubblica-Espresso e ad «alcuni pm», e del «terrorista mediatico a Marco Travaglio». Anche Travaglio farà querela. Era stato tirato in ballo pure da Capezzone e dal condirettore del Giornale Sallusti, e ieri ha risposto loro su Il Fatto ricordando, a proposito di «normale e civile confronto», Berlusconi che dà dei «coglioni» agli italiani che non votano per lui; «l'uso criminale della tv» attribuito a Enzo Biagi; Sgarbi che dà degli «assassini» ai pm di Milano e Palermo; il pedinamento del giudice Mesiano; le false accuse al direttore di Avvenire Dino Boffo «di essere gay» e a «Veronica Lario di farsela con la guardia del corpo».
Insomma à la guerre comme à la guerre. Di Pietro, tanto per guardare anche dall'altra parte, era stato uno dei primi, già domenica sera, a ignorare l'appello ad abbassare i toni. Però ieri quando lui ha cominciato a parlare alla Camera, l'intero gruppo del Pdl ha lasciato l'aula: e non è un bel modo per gettare acqua sul fuoco. Così come benzina, e non acqua, ha gettato subito dopo sul fuoco il parlamentare dell'Idv Barbato, che ha definito il Pdl «popolo della mafia». Altri titoli di ieri. Il Giornale: «La Bindi? L'avevo detto: è più bella che intelligente»; «E Travaglio insiste: Si può odiare il premier»; «Bersani dagli insulti alle lacrime di coccodrillo». Perché ce n'è anche per il Pd: «La famiglia di Tartaglia ha detto di aver sempre votato per il Pd. Coincidenza pure questa?». Titoli visti, invece, su Libero: «In Italia si respira guerra. E la colpa è dei compagni»; «Le toghe tirano due statuette».
Intendiamoci. Il centrodestra ha ragione quando dice che da tempo contro Berlusconi s'è scatenata una caccia all'uomo che travalica ogni legittima critica politica. A quest'uomo vengono addebitati tutti i mali possibili e immaginabili, terremoti compresi. Resta però bizzarro invocare una tregua a Berlusconi sanguinante e infrangerla a Berlusconi ricoverato.
Il timore è che nessuno dei due «partiti» abbia intenzione di deporre le armi. Ieri un editoriale su Repubblica di Aldo Schiavone terminava con questa affermazione: «Non abbiamo bisogno di intelligenze "al di sopra delle parti", né abbiamo bisogno di edulcorare le nostre asprezze». Schiavone definisce simili atteggiamenti come «finzioni» e «ipocrisie». Sarà. Ma crediamo di non sbagliare se diciamo che in Italia c'è una maggioranza che vorrebbe una politica meno da ring, e che vorrebbe giudicare fatto per fatto, idea per idea, senza essere prigioniera di due curve di ultrà che rinunciano a pensare con la propria testa. È l'Italia che ha conservato non solo modi civili, ma anche uno sguardo senza pregiudizi sulla realtà.
«La Stampa» del 15 dicembre 2009
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