di Ezio Savino
Tour operator, gestori di ristoranti, animatori di discoteche che grazie alla notte del veglione di Capodanno si ritrovano con le tasche più gonfie, sappiano chi ringraziare: Giulio Cesare. Mettere in riga le legioni non gli bastava. Così, con un editto dei suoi, fece ordine nel guazzabuglio del calendario romano. Prima di lui, i mesi «romulei», frutto di una prima sgrezzata inferta al computo dell’anno dal fondatore Romolo, integrati dai ritocchi di Numa Pompilio, 700 a.C., comportavano lo scomodo fatto che il periodo civile e quello astronomico viaggiassero a velocità sfalsate. Risultato: i consoli entravano in carica il primo di gennaio, ma la comunità festeggiava l’inizio dell’anno nuovo a martius, mese consacrato al dio della guerra. Per l’occasione, ci si scambiava le strenae, i ramoscelli di alloro primaverile, colti nel bosco votivo di Strenia, antica dea della fortuna e della felicità. Ed ecco l’origine delle nostre strenne.
Ma torniamo a Cesare. Despota illuminato, convocò gli scienziati dell’astronomia. Sosìgene era il più titolato. Teneva cattedra ad Alessandria d’Egitto, nella Biblioteca e, da greco dotto, conosceva ogni trucco per rimettere in pari le agende personali con l’effettivo volgersi delle stagioni. Per esempio, ogni quattro anni, intercalare un giorno «doppio», bis sexta dies, verso la fine di febbraio, e inventare così il bisestile. La riforma più drastica fu il Capodanno, bloccato invariabilmente sul primo di gennaio. Si cominciò con l’anno 45 a.C. Per far quadrare i conti, Cesare dovette allungare il 46 a.C. di quasi settanta giorni, tra novembre e dicembre. Fu il più lungo della storia, noto come l’«anno della confusione», con usurai e affaristi che non sapevano più come calcolare i tassi. Ma poi tutto tornava in ordine, sotto l’impero del dio Giano, dal cui nome proveniva januarius, il nostro gennaio. Dio del transito, Giano era immaginato bifrons, con un volto maturo e barbuto rivolto al passato, e uno giovanile e augurale che guardava negli occhi il futuro. Il suo simbolo era la porta.
Alla scoccare della mezzanotte, a San Silvestro, un pensierino al vecchio Giano bisognerebbe farlo, perché stanno tra le sue mani le chiavi dell’inizio, dell’ingresso in ogni impresa e in ogni tempo. I Romani, popolo in cui religione e superstizione si mischiavano volentieri, lo veneravano come «padre del mattino», portinaio degli dei, ai quali spalancava i portali dell’Olimpo a ogni sorgere di sole. Era logico lisciarlo un po’ a Capodanno, alla Kalendae Januariae. Il sacerdote gli preparava una focaccia di farina, uova, olio e formaggio grattugiato: a contorno, farro e sale. Secondo il pratico principio del do ut des, «ti do perché tu mi dia», il buon Giano avrebbe sentito il dovere di disobbligarsi, con annate ricche di messi e guadagni. I regali di rito tra amici e conoscenti, nel Capodanno romano, erano miele, datteri e fichi: roba dolce, per un dolce inizio. Proibite le parole sgradevoli. Bene accette le espressioni di amicizia e fortuna, antenate dei nostri auguri. Si continuava a regalare foglie di alloro, come ai vecchi tempi: ai vip, però, la confezione speciale, con il rametto in un bagno d’oro.
Il vischio entrava in scena più a nord, nelle terre celtiche, tra Irlanda e Gallia. Lassù i Druidi, a quanto ci racconta Plinio il Vecchio, coglievano il vischio di rovere, il più raro, in una sagra che si svolgeva il sesto giorno di Luna, il Capodanno celtico. Una data speciale, all’equinozio di ottobre, quando la metà chiara ed estiva dell’anno sfumava in quella buia e invernale. Scattava la festa di Samain, tra riunioni tribali, banchetti di più giorni e possenti bevute di idromele. Si spalancava anche la porta verso Sid, la landa degli Immortali e dei grandi trapassati. All’inizio di novembre si staccava il biglietto per il viaggio nell’aldilà, nel mito e nella magia, un trip che il cristianesimo avrebbe solennizzato in Ognissanti e la globalizzazione trasformato nel mercatino mascherato di Halloween.
Ma anche per il potente Cesare, mettere ordine tra i campanili d’Italia, almeno in fatto di Capodanno, restò un pio desiderio. Ciascuno continuò a modo suo. Se Venezia festeggiava l’anno nuovo il primo di marzo, avvio di primavera, Firenze rispondeva con il suo Capodanno del 25 marzo, giorno dell’Incarnazione di Nostro Signore. In meridione, nelle terre a influenza greca, si seguiva lo stile bizantino: anno nuovo al primo settembre. La Roma papalina faceva coincidere il Capodanno con il Natale, uso che fu anche milanese fino alla fine del 1700. Ci voleva la modernità dell’industria e delle ferie programmate, per metterci tutti, finalmente, d’accordo.
Ma torniamo a Cesare. Despota illuminato, convocò gli scienziati dell’astronomia. Sosìgene era il più titolato. Teneva cattedra ad Alessandria d’Egitto, nella Biblioteca e, da greco dotto, conosceva ogni trucco per rimettere in pari le agende personali con l’effettivo volgersi delle stagioni. Per esempio, ogni quattro anni, intercalare un giorno «doppio», bis sexta dies, verso la fine di febbraio, e inventare così il bisestile. La riforma più drastica fu il Capodanno, bloccato invariabilmente sul primo di gennaio. Si cominciò con l’anno 45 a.C. Per far quadrare i conti, Cesare dovette allungare il 46 a.C. di quasi settanta giorni, tra novembre e dicembre. Fu il più lungo della storia, noto come l’«anno della confusione», con usurai e affaristi che non sapevano più come calcolare i tassi. Ma poi tutto tornava in ordine, sotto l’impero del dio Giano, dal cui nome proveniva januarius, il nostro gennaio. Dio del transito, Giano era immaginato bifrons, con un volto maturo e barbuto rivolto al passato, e uno giovanile e augurale che guardava negli occhi il futuro. Il suo simbolo era la porta.
Alla scoccare della mezzanotte, a San Silvestro, un pensierino al vecchio Giano bisognerebbe farlo, perché stanno tra le sue mani le chiavi dell’inizio, dell’ingresso in ogni impresa e in ogni tempo. I Romani, popolo in cui religione e superstizione si mischiavano volentieri, lo veneravano come «padre del mattino», portinaio degli dei, ai quali spalancava i portali dell’Olimpo a ogni sorgere di sole. Era logico lisciarlo un po’ a Capodanno, alla Kalendae Januariae. Il sacerdote gli preparava una focaccia di farina, uova, olio e formaggio grattugiato: a contorno, farro e sale. Secondo il pratico principio del do ut des, «ti do perché tu mi dia», il buon Giano avrebbe sentito il dovere di disobbligarsi, con annate ricche di messi e guadagni. I regali di rito tra amici e conoscenti, nel Capodanno romano, erano miele, datteri e fichi: roba dolce, per un dolce inizio. Proibite le parole sgradevoli. Bene accette le espressioni di amicizia e fortuna, antenate dei nostri auguri. Si continuava a regalare foglie di alloro, come ai vecchi tempi: ai vip, però, la confezione speciale, con il rametto in un bagno d’oro.
Il vischio entrava in scena più a nord, nelle terre celtiche, tra Irlanda e Gallia. Lassù i Druidi, a quanto ci racconta Plinio il Vecchio, coglievano il vischio di rovere, il più raro, in una sagra che si svolgeva il sesto giorno di Luna, il Capodanno celtico. Una data speciale, all’equinozio di ottobre, quando la metà chiara ed estiva dell’anno sfumava in quella buia e invernale. Scattava la festa di Samain, tra riunioni tribali, banchetti di più giorni e possenti bevute di idromele. Si spalancava anche la porta verso Sid, la landa degli Immortali e dei grandi trapassati. All’inizio di novembre si staccava il biglietto per il viaggio nell’aldilà, nel mito e nella magia, un trip che il cristianesimo avrebbe solennizzato in Ognissanti e la globalizzazione trasformato nel mercatino mascherato di Halloween.
Ma anche per il potente Cesare, mettere ordine tra i campanili d’Italia, almeno in fatto di Capodanno, restò un pio desiderio. Ciascuno continuò a modo suo. Se Venezia festeggiava l’anno nuovo il primo di marzo, avvio di primavera, Firenze rispondeva con il suo Capodanno del 25 marzo, giorno dell’Incarnazione di Nostro Signore. In meridione, nelle terre a influenza greca, si seguiva lo stile bizantino: anno nuovo al primo settembre. La Roma papalina faceva coincidere il Capodanno con il Natale, uso che fu anche milanese fino alla fine del 1700. Ci voleva la modernità dell’industria e delle ferie programmate, per metterci tutti, finalmente, d’accordo.
«Il Giornale» del 31 dicembre 2009
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