di Elena Loewenthal
L’insegna di Auschwitz è stata ritrovata fra le mani di cinque gaglioffi qualunque, che (forse) avevano eseguito il «colpo» su commissione di un misterioso collezionista. Nulla a che fare con rigurgiti di neonazismo né storpiature della storia: si è trattato di delinquenza comune e pure di terz’ordine, vista la velocità con cui malviventi e corpo del reato sono stati acciuffati.
Un brutto affare, certo, ma nulla a che vedere con lo scandalo morale da molti additato appena «Arbeit macht frei» era sparito da in cima a quel terribile cancello. Il richiamo al neonazismo - fenomeno che non va affatto sottovalutato ma che qui non c’entrava nulla - è stato immediato, quasi naturale. Esclusa a priori la pista della banalità, quel furto è parso a quasi tutti un affronto alla storia, a quel passato inenarrabile, ai milioni di vittime.
E invece si è trattato di un assurdo equivoco, dove un crimine qualunque ha avuto per cassa di risonanza un certo qualunquismo della memoria. Perché siamo ormai abituati a ritualizzare il nostro rapporto con il passato, in particolar modo quel passato di cui il cancello di Auschwitz è l’ingresso. E di conseguenza a caricarlo di una sacralità che, nel bene e nel male, lo rende qualcosa di astratto. Ma Auschwitz non è affatto un luogo sacro, tutt’altro: è reale, vero, terribilmente concreto. Se allora fosse sparita quella targa, le SS non ci avrebbero pensato su due volte: ne avrebbero fatta fare un’altra, uguale. Perché nulla, lì dentro, nel campo e nelle camere a gas e nei forni crematori, nulla è mai stato un simbolo, ma solo e soltanto una tremenda verità di carne e sangue.
Invece, la ritualizzazione della memoria procede nel senso opposto, trasformando tutto in simboli più o meno evanescenti, carichi di allusioni magari inafferrabili. Ormai abituata a trasformare le cose in simboli - vuoi per ragioni di comodità, vuoi perché così è più facile ridurre tutto a ricorrenza, a celebrazione collettiva - la memoria collettiva finisce per produrre banalità, e si ritrova a caricare una targa di ferro battuto di significati che non ha mai avuto. Per questo il furto di quella insegna è sembrato inevitabilmente un esproprio della memoria, di quel passato - e un crimine così potevano averlo compiuto solo dei neonazisti, non certo dei malfattori comuni. Come su una linea di partenza tanto invisibile quanto netta, è scattato il grido allo scandalo, alla profanazione. Ma quale profanazione, se Auschwitz è il luogo più profano e infame che l’umanità sia mai stata in grado di concepire?
La riduzione della memoria a un catalogo di simboli non rende onore alle vittime, e nemmeno al nostro così disorientato presente: rischia invece di banalizzare il ricordo, facendolo dipendere da una targa di ferro battuto che, con gli occhi a terra e il cuore pieno di uno sgomento inenarrabile, i milioni di prigionieri passati lì sotto non hanno quasi mai fatto in tempo a vedere.
Un brutto affare, certo, ma nulla a che vedere con lo scandalo morale da molti additato appena «Arbeit macht frei» era sparito da in cima a quel terribile cancello. Il richiamo al neonazismo - fenomeno che non va affatto sottovalutato ma che qui non c’entrava nulla - è stato immediato, quasi naturale. Esclusa a priori la pista della banalità, quel furto è parso a quasi tutti un affronto alla storia, a quel passato inenarrabile, ai milioni di vittime.
E invece si è trattato di un assurdo equivoco, dove un crimine qualunque ha avuto per cassa di risonanza un certo qualunquismo della memoria. Perché siamo ormai abituati a ritualizzare il nostro rapporto con il passato, in particolar modo quel passato di cui il cancello di Auschwitz è l’ingresso. E di conseguenza a caricarlo di una sacralità che, nel bene e nel male, lo rende qualcosa di astratto. Ma Auschwitz non è affatto un luogo sacro, tutt’altro: è reale, vero, terribilmente concreto. Se allora fosse sparita quella targa, le SS non ci avrebbero pensato su due volte: ne avrebbero fatta fare un’altra, uguale. Perché nulla, lì dentro, nel campo e nelle camere a gas e nei forni crematori, nulla è mai stato un simbolo, ma solo e soltanto una tremenda verità di carne e sangue.
Invece, la ritualizzazione della memoria procede nel senso opposto, trasformando tutto in simboli più o meno evanescenti, carichi di allusioni magari inafferrabili. Ormai abituata a trasformare le cose in simboli - vuoi per ragioni di comodità, vuoi perché così è più facile ridurre tutto a ricorrenza, a celebrazione collettiva - la memoria collettiva finisce per produrre banalità, e si ritrova a caricare una targa di ferro battuto di significati che non ha mai avuto. Per questo il furto di quella insegna è sembrato inevitabilmente un esproprio della memoria, di quel passato - e un crimine così potevano averlo compiuto solo dei neonazisti, non certo dei malfattori comuni. Come su una linea di partenza tanto invisibile quanto netta, è scattato il grido allo scandalo, alla profanazione. Ma quale profanazione, se Auschwitz è il luogo più profano e infame che l’umanità sia mai stata in grado di concepire?
La riduzione della memoria a un catalogo di simboli non rende onore alle vittime, e nemmeno al nostro così disorientato presente: rischia invece di banalizzare il ricordo, facendolo dipendere da una targa di ferro battuto che, con gli occhi a terra e il cuore pieno di uno sgomento inenarrabile, i milioni di prigionieri passati lì sotto non hanno quasi mai fatto in tempo a vedere.
«La Stampa» del 22 dicembre 2009
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