12 dicembre 2009

De Luca, lo scrittore del decennio

Giorgio De Rienzo fa il bilancio di dieci anni. Che ci hanno consegnato il testamento di due grandi: Pontiggia e Rigoni Stern
di Giorgio De Rienzo
Promossi Corona e Roveredo. Bocciati Tabucchi e Mazzantini
Sono dieci anni che scrivo, nello spazio breve di novecento battute, le «pagelle» domenicali: cioè il giudizio su un libro, reso più chiaro da un voto. Le regole pattuite erano chiare. La pagella doveva solamente essere dedicata ai romanzi entrati in classifica. Era una scommessa che pareva destinata a un rapido tramonto. In un mondo culturale confuso e ambiguo, in cui gli scrittori fanno i critici (e viceversa), in cui è facile che s' imponga una comoda legge di scambio (io recensisco te, tu recensisci me), la pagella diventava un qualcosa di estraneo o un semplice gioco. Invece si è imposta per la sua chiarezza di giudizio nel voto motivato. Ho vinto la scommessa. La «pagella» ben presto è stata apprezzata dai lettori (ho un riscontro sicuro), rispettata dal giornale (ho agito sempre in totale libertà nello scegliere i libri e non sono mai stato censurato), accolta spesso con dispetto dagli scrittori (mi è costata inimicizie a iosa) e - come è giusto - snobbata (apparentemente) dagli editori, contenti comunque dei dati di vendita. Dieci anni sono tanti e permettono di fare un bilancio del primo scorcio del terzo millennio sulle opere che hanno ottenuto il consenso di un pubblico ampio, ma volta per volta eterogeneo. Mi limiterò ai romanzi italiani. Nel mio catalogo ci sono, per forza di cose, libri di scarso conto letterario. Le storie rosa della Casati Modignani, rese più insopportabili dall'accostamento a problemi sociali, affrontati di struscio con una banalità irritante. Quelle vuote per eterni adolescenti di Moccia, che ha almeno il buon senso di non prendersi troppo sul serio. Le vicende stralunate per ragazze svitate di Pulsatilla. La (supposta) autobiografia pornografica di Melissa P., subito caduta nell'oblio dopo la straripante fortuna del libro d'esordio. L'archivio delle pagelle è pieno di romanzi gialli. In questo scaffale merita un posto a parte Andrea Camilleri, capace di dare nel giro di un solo anno un piccolo capolavoro come La gita a Tindari e un libro scadente come Il re di Girgenti. Camilleri, nella propria straordinaria fecondità, fa caso a sé. È uno scrittore tardivo che, dopo essere stato accolto dalla grande editoria con Un filo di fumo nel lontano 1980, ne è stato rifiutato per anni. Quindi può esserci in lui il gioco di una piccola (e allegra) vendetta: tanto è vero che le sue opere peggiori (Il calore del sole, per esempio) le ha affidate a Mondadori e non a Sellerio che ha saputo apprezzarlo. Per il resto il giallo o si è impigrito in un'imitazione di quello americano (il caso di Faletti soprattutto) o ha trovato una convincente nuova via all'italiana: è accaduto per le storie lievi nella scrittura, ma compatte nella struttura della Oggero, e ancor più per la narrativa variegata di Perissinotto, che usa il genere per mallearlo in discorsi più complessi. Ci sono poi scrittori che traggono libri da esperienze professionali: il pesante De Cataldo e il leggero Carofiglio (magistrati), fino al più intrigante Carrisi, criminologo, con il recente Suggeritore. Forse da questi romanzi di genere sono venute le cose migliori della nostra letteratura dell'ultimo decennio: si tratta comunque di opere di dignitoso artigianato come quelle, sia pure discontinue, di Biondillo, Carlotto e Vichi. Così di ottimo artigianato (e anche di dottrina) sono tutti i libri di ricostruzione sulla storia antica di Manfredi. Il resto, a parte qualche rara eccezione, offre per lo più il panorama un po' squallido di scrittori prestigiosi (o popolari) ormai bolsi o privi di idee, legati a clan che sanno imporli e sostenerli. Eco nelle oltre quattrocento pagine de La misteriosa fiamma della regina Eluana dà un romanzo fatto di niente: riempito da immagini stereotipe e frasi sapienti, da brani di vecchie canzoni e da stantie barzellette. Citati nelle Scintille di Dio, propone una raccolta di saggi tra letteratura, religione ed essoterismo, spacciata dall'editore come romanzo: un libro di schegge molto dotte che non sanno organizzarsi in una struttura e sono scandite in una nenia di endecasillabi. La Tamaro ha portato in libreria prediche religiose ed ecologiche, dove la semplicità della scrittura è soffocata da un uggioso tono di antica saggezza. Non convince, se non nelle prime quaranta pagine, il romanzo destrutturato dell'esordiente Giordano. Come non convincono le storie sfilacciate della Comencini e quelle tragiche nelle intenzioni, ma melodrammatiche negli esiti della Mazzantini. Un vero disastro sono i libri della Mastrocola, per lo più storie strampalate ambientate nel mondo della scuola. Le saghe familiari della Agus cadono troppo spesso nei luoghi comuni e la loro scrittura, pur nella semplicità, non riesce a trovare equilibrio. Di poca sostanza, pur se provocatorio e astuto, è stato l'esordio di Piperno, consapevole se non altro dei propri limiti. Invece Scarpa e Scurati sopravvalutano il loro talento e si perdono in storie sconclusionate e spesso sciatte nella scrittura, mentre altri più anziani scrittori che hanno pur dato buoni libri ai loro esordi si accomodano sugli allori di un successo e cercano sperimentazioni raramente azzeccate: da Cerami a Tabucchi, da De Carlo a Benni, da Baricco ad Ammaniti. Brizzi, dopo l'esordio a suo modo originale di Jack Frusciante è uscito dal gruppo, ha perso il senso del suo linguaggio e cade nel kitsch: parla di una «luce robustosa», di un «sole roboante». Persuadono molto più le opere di narratori che approdano alla scrittura senza una cultura canonica alle spalle e dunque non protetti (o sviati) da modelli letterari consunti. Penso alle storie di montagna di Mauro Corona, dense della forza di chi è abituato a convivere e combattere con le asprezze della natura o a incantarsi di fronte alla sua potente bellezza; a quelle poetiche di Pino Roveredo su una vita sbalestrata da cui si è usciti con fatica; al libro coraggioso di denuncia di Roberto Saviano. Ma penso soprattutto ai libretti esili ma profondi di Erri De Luca: il solo vero scrittore di rango che per ora ci abbia dato il Duemila. Per il resto questi dieci anni ci hanno consegnato le ultime fatiche di scrittori eccellenti. Due su tutti: Giuseppe Pontiggia e Mario Rigoni Stern, che però appartengono al secolo scorso, non solo per la loro formazione culturale, ma soprattutto per quel senso sacrale della scrittura e quel rispetto profondo del lavoro letterario, che ormai si sono perduti.
«Corriere della sera» dell'11 dicembre 2009

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