di Stefano Zecchi
Abbassare i toni della politica; le parole possono diventare armi; l’avversario non è un nemico da abbattere. Altre frasi di buona volontà si pronunciano con accorato senso di responsabilità dopo l’attentato a Berlusconi, e di fronte a tali propositi che promettono di cambiare il comportamento politico si dovrebbe essere rassicurati e sereni. Ci vedo invece un’ipocrisia gigantesca, simile a quella (ovviamente molto più innocente) del bambino che, dopo averla fatta grossa, giura al papà che d’ora in avanti sarà tutta un’altra cosa.
La questione non riguarda l’altezza, l’asprezza dei toni della politica, ma il luogo dal quale questi toni arrivano alla gente, e cioè la televisione. Chi segue la politica dai primi decenni del dopoguerra si ricorderà la durezza verbale, l’irrisione con cui veniva trattato l’avversario dai palchetti dei comizi. Si ascoltavano le parole dei leader, e fedeli e simpatizzanti si sentivano gratificati, galvanizzati, consolati, e tutto finiva lì. Eventualmente qualcuno dava poi la caccia al fascista, cosa che non suscitava però clamore perché nel nome della Resistenza e della libertà non era riprovevole aggredire il fascista.
Nessuno temeva che i toni di politici e sindacalisti fossero troppo accesi: se si escludono gli anni immediatamente a ridosso del ’45, segnati ancora dalla guerra civile e dal pericolo che potesse continuare dopo il clamore del periodo elettorale tutto rientrava nell’alveo di una noiosa, bizantina, incomprensibile vita politica parlamentare.
Oggi - è sotto gli occhi di tutti - la politica è un ingrediente fondamentale dello spettacolo televisivo che dura tutto l’anno, e i politici là dentro, prima ancora che i rappresentanti del popolo, hanno una responsabilità, per così dire, economica: da loro dipende il successo di una trasmissione e, di conseguenza, del successo della loro immagine. È in televisione che la violenza verbale diventa devastante per una massa sociale che ha trovato nella televisione il suo principale strumento di comunicazione.
I giornali ormai li legge una élite: la campagna di denigrazione sistematica della Repubblica contro Berlusconi e chi lo vota non infiamma nessuna reale passione battagliera nei suoi lettori radical-chic. Me se gli argomenti di Repubblica vengono esposti in televisione dai suoi stessi giornalisti o dagli amici politici, è allora che la comunicazione diventa pericolosa, e le parole diventano armi, e l’avversario politico diventa il nemico da abbattere ecc. ecc. La televisione si trasforma in un megafono di propaganda, in cui l’unico filtro è la professionalità del conduttore. A uno come Bruno Vespa ho visto raramente sfuggire il controllo della comunicazione; Maurizio Costanzo faceva in modo che i suoi ospiti «comuni» si accapigliassero sul senso del mondo, ma non lasciava che i politici partecipassero al teatrino, li intervistava separatamente in modo che esponessero chiaramente senza giri di parole il loro pensiero.
I colleghi di Vespa e Costanzo non sono meno bravi: è la loro trasmissione impostata sulla violenza verbale, sul dibattito che non risparmia colpi bassi... in nome del dio Auditel. Un programma che non fa ascolti viene soppresso, e si sa che la lite è il lievito di una trasmissione. Il politico che partecipa al teatrino ne conosce perfettamente il funzionamento: sa che se non è pronto, aggressivo, impudente, se non ruba la parola, non dà sulla voce passa inosservato, non buca il teleschermo e non verrà più chiamato in Tv. Potrebbe essere la fine della sua carriera politica. Non si crederà che la comunicazione politica si svolga in Parlamento? Chi ieri ha seguito un telegiornale e avrà visto i leader politici parlare dell’attentato a Berlusconi dal loro scranno parlamentare, si sarà accorto che leggevano su dei foglietti il discorso. I più fortunati di loro andranno in televisione, ma se davanti alle telecamere prendessero di tasca quei foglietti e si mettessero a leggerli verrebbero cacciati. Lo spettacolo televisivo vuole altri toni, proprio quelli che adesso i politici promettono di non usare più.
Un buon proposito se non ci fossero quelle trasmissioni che invece li pretendono, se non ci fossero più processi televisivi a Berlusconi che esigono odio, aggressività da parte dei convenuti al tribunale mediatico.
Il ministro Maroni intende chiudere i siti Internet che inneggiano alla violenza. Anche se è la classica goccia d’acqua in un oceano, anche se sono ricettacoli di sfoghi di grafomani repressi o frustrati credo sia giusto dare un segnale che oggi la violenza politica ha nella comunicazione il suo problema essenziale. Internet è incontrollabile, e chiudere un sito ha solo un valore simbolico. La televisione è invece controllabile, ma qui la questione è molto più complicata, anche se le responsabilità sono evidenti.
La questione non riguarda l’altezza, l’asprezza dei toni della politica, ma il luogo dal quale questi toni arrivano alla gente, e cioè la televisione. Chi segue la politica dai primi decenni del dopoguerra si ricorderà la durezza verbale, l’irrisione con cui veniva trattato l’avversario dai palchetti dei comizi. Si ascoltavano le parole dei leader, e fedeli e simpatizzanti si sentivano gratificati, galvanizzati, consolati, e tutto finiva lì. Eventualmente qualcuno dava poi la caccia al fascista, cosa che non suscitava però clamore perché nel nome della Resistenza e della libertà non era riprovevole aggredire il fascista.
Nessuno temeva che i toni di politici e sindacalisti fossero troppo accesi: se si escludono gli anni immediatamente a ridosso del ’45, segnati ancora dalla guerra civile e dal pericolo che potesse continuare dopo il clamore del periodo elettorale tutto rientrava nell’alveo di una noiosa, bizantina, incomprensibile vita politica parlamentare.
Oggi - è sotto gli occhi di tutti - la politica è un ingrediente fondamentale dello spettacolo televisivo che dura tutto l’anno, e i politici là dentro, prima ancora che i rappresentanti del popolo, hanno una responsabilità, per così dire, economica: da loro dipende il successo di una trasmissione e, di conseguenza, del successo della loro immagine. È in televisione che la violenza verbale diventa devastante per una massa sociale che ha trovato nella televisione il suo principale strumento di comunicazione.
I giornali ormai li legge una élite: la campagna di denigrazione sistematica della Repubblica contro Berlusconi e chi lo vota non infiamma nessuna reale passione battagliera nei suoi lettori radical-chic. Me se gli argomenti di Repubblica vengono esposti in televisione dai suoi stessi giornalisti o dagli amici politici, è allora che la comunicazione diventa pericolosa, e le parole diventano armi, e l’avversario politico diventa il nemico da abbattere ecc. ecc. La televisione si trasforma in un megafono di propaganda, in cui l’unico filtro è la professionalità del conduttore. A uno come Bruno Vespa ho visto raramente sfuggire il controllo della comunicazione; Maurizio Costanzo faceva in modo che i suoi ospiti «comuni» si accapigliassero sul senso del mondo, ma non lasciava che i politici partecipassero al teatrino, li intervistava separatamente in modo che esponessero chiaramente senza giri di parole il loro pensiero.
I colleghi di Vespa e Costanzo non sono meno bravi: è la loro trasmissione impostata sulla violenza verbale, sul dibattito che non risparmia colpi bassi... in nome del dio Auditel. Un programma che non fa ascolti viene soppresso, e si sa che la lite è il lievito di una trasmissione. Il politico che partecipa al teatrino ne conosce perfettamente il funzionamento: sa che se non è pronto, aggressivo, impudente, se non ruba la parola, non dà sulla voce passa inosservato, non buca il teleschermo e non verrà più chiamato in Tv. Potrebbe essere la fine della sua carriera politica. Non si crederà che la comunicazione politica si svolga in Parlamento? Chi ieri ha seguito un telegiornale e avrà visto i leader politici parlare dell’attentato a Berlusconi dal loro scranno parlamentare, si sarà accorto che leggevano su dei foglietti il discorso. I più fortunati di loro andranno in televisione, ma se davanti alle telecamere prendessero di tasca quei foglietti e si mettessero a leggerli verrebbero cacciati. Lo spettacolo televisivo vuole altri toni, proprio quelli che adesso i politici promettono di non usare più.
Un buon proposito se non ci fossero quelle trasmissioni che invece li pretendono, se non ci fossero più processi televisivi a Berlusconi che esigono odio, aggressività da parte dei convenuti al tribunale mediatico.
Il ministro Maroni intende chiudere i siti Internet che inneggiano alla violenza. Anche se è la classica goccia d’acqua in un oceano, anche se sono ricettacoli di sfoghi di grafomani repressi o frustrati credo sia giusto dare un segnale che oggi la violenza politica ha nella comunicazione il suo problema essenziale. Internet è incontrollabile, e chiudere un sito ha solo un valore simbolico. La televisione è invece controllabile, ma qui la questione è molto più complicata, anche se le responsabilità sono evidenti.
«Il Giornale» del 16 dicembre 2009
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