Dura lex è il quindicesimo titolo della fortunata serie
di Silvana Mazzocchi
Danila Comastri Montanari: "Il mystery classico è possibile solo nel passato"
Il segreto del successo di Danila Comastri Montanari, acclamata scrittrice di gialli seriali ambientati nella Roma del primo secolo dopo Cristo e tradotti in mezza Europa, sta nell'aver compreso che la natura umana, le passioni, gli intrighi, i difetti e le virtù sono eterni nel tempo. Un'intuizione semplice ed efficace che le permette di immergere le sue storie in ambienti di duemila anni fa, senza nulla togliere alla credibilità dei personaggi e delle trame. E Publio Aurelio Stazio, patrizio per nascita e senatore per scelta, investigatore insieme ironico e perspicace, che rifiuta la violenza e che affida alla mente e alle belle maniere i suoi successi, è da sempre l'amato protagonista della fortunata serie, giunta ora al quindicesimo titolo con Dura lex.
Siamo nel 47 d. C., tre neonati vengono trovati morti nelle loro culle a breve distanza l'uno dall'altro. Apparentemente la loro scomparsa non ha alcuna spiegazione: fatalità o omicidio? Indaga senza successo una giovane avvocata ma, grazie alle sue relazioni e alla sua fama, è ancora una volta Publio Aurelio Stazio a prendere in mano i fili dell'intricata matassa. In continua e bonaria lotta con il suo segretario, il furbissimo alessandrino Castore di cui il disincantato senatore non ha nessuna voglia di disfarsi nonostante ne conosca la tendenza all'ozio e alle ruberie, Publio Aurelio decide di rivolgersi ai suoi amici di antica data affinché lo aiutino nella delicatissima impresa.
Il suo cammino, come sempre, non sarà facile. Lui, ricco, ironico e mondano, deve agire in una Roma dove si affollano patrizi e poveracci, famiglie aristocratiche e figure truffaldine, amiche sincere e matrone discutibili. Fra colpi di scena e difficoltà quotidiane. Fino all'inevitabile happy end, che Danila Comastri Montanari sa come sempre costruire con ironica e sofisticata abilità.
Dura Lex è l'ultimo di quindici romanzi che lei ha scritto seguendo una ricetta vincente: calare le regole del giallo classico nell'antica Roma. I perché di questa scelta.
Scrivere un mystery classico nell'era della polizia scientifica e dell'analisi del DNA, sarebbe un'impresa incredibilmente ardua e con grande probabilità destinata al fallimento: un detective che si avvalesse della lente di ingrandimento e del "piccolo chimico" casalingo come Sherlock Holmes o giungesse alla soluzione dell'enigma soltanto con le "celluline grigie" come Poirot, suonerebbe al giorno d'oggi del tutto improbabile alle orecchie dei lettori. Per mettere in scena un investigatore che sia davvero protagonista, che svolga l'inchiesta mettendo in campo acume, capacità di osservazione e di abduzione, nonché una certa dose di intuito, è quindi necessario retrodatare gli eventi, collocandoli in qualche foro, in qualche agorà, o magari in un bel monastero medievale. Una simile ambientazione offre peraltro all'autore un pretesto per divertirsi assai, industriandosi di trasportare nel passato i metodi di indagine contemporanei, senza tuttavia violare mai il dettato storico. Ogni volta è una sfida, che il giallista raccoglie e rilancia al complice lettore.
Publio Aurelio Stazio, è un investigatore raffinato, ricco, galante e, a suo modo, anticonformista. Si è ispirata a qualcuno?
Un tempo nel giallo c'era l'eroe - bello, forte, astuto e sexy - che alla lunga finiva per diventare un personaggio stereotipato. Poi è venuto di moda l'antieroe - bruttino, antipatico, scortese, magari anche un po' corto di comprendonio - ma anche quello, alla lunga, ha finito per diventare un personaggio stereotipato. Dovendo scegliere, non ho avuto dubbi: come scrittrice di professione, passo in compagnia del mio eroe parecchie ore al giorno, e avevo tutti i diritti di trascorrerle con un uomo decente. Così ho attribuito al mio protagonista un certo fascino, un'intelligenza piuttosto viva e inoltre l'ho reso ricco, visto che molti lettori - come d'altra parte la sottoscritta - hanno le loro belle difficoltà nell'arrivare a fine mese e non sarebbe stato opportuno affliggerli con i problemi di un detective in gravi ristrettezze economiche. Per il resto, Publio Aurelio ha molte contraddizioni e molte fisime, che sono esattamente le mie. E' anche anticonformista, perché esce dalla penna - pardon, dal computer - di un'autrice che lo è stata in massimo grado per tutta la vita. Ragiona come me, ha la mia mentalità e spesso parla a mio nome: in breve, come avrebbe detto Flaubert: "Aurelio c'est moi!".
Quanto lavoro di documentazione c'è dietro ai suoi romanzi, e quanta invenzione?
In una serie di libri che hanno l'ambizione di rispondere alle regole del romanzo storico, oltre che a quelle del giallo, la documentazione è ovviamente importantissima. Per questo ho scelto un periodo che già conoscevo abbastanza, in modo da avere chiaro lo sfondo e limitare le nuove ricerche alle singole "subculture" sociali, religiose o giuridiche presenti nella civiltà romana del I secolo d. C., nell'ambito delle quali si svolgono le varie vicende. Il resto è invenzione, DEVE essere invenzione: nessuna ricerca, per quanto esatta, per quanto approfondita, potrà mai sostituire nella fiction una trama accattivante: sarebbe scorretto - oltre che perdente - propinare un saggio tediosamente didascalico sotto le false vesti di un'avventura. Malgrado la mia costante attenzione per i dettagli storici, quindi, è indubbio che, se un giorno dovessi trovarmi davanti a un "conflitto di interessi", sarebbe la trama a prevalere. La massima soddisfazione di un narratore - e soprattutto di un narratore seriale - è creare un mondo all'interno del quale condividere il proprio immaginario con i lettori: se l'immaginario cedesse la prima linea a una serie di aridi documenti, allora tanto varrebbe scrivere saggistica, anziché fiction.
Siamo nel 47 d. C., tre neonati vengono trovati morti nelle loro culle a breve distanza l'uno dall'altro. Apparentemente la loro scomparsa non ha alcuna spiegazione: fatalità o omicidio? Indaga senza successo una giovane avvocata ma, grazie alle sue relazioni e alla sua fama, è ancora una volta Publio Aurelio Stazio a prendere in mano i fili dell'intricata matassa. In continua e bonaria lotta con il suo segretario, il furbissimo alessandrino Castore di cui il disincantato senatore non ha nessuna voglia di disfarsi nonostante ne conosca la tendenza all'ozio e alle ruberie, Publio Aurelio decide di rivolgersi ai suoi amici di antica data affinché lo aiutino nella delicatissima impresa.
Il suo cammino, come sempre, non sarà facile. Lui, ricco, ironico e mondano, deve agire in una Roma dove si affollano patrizi e poveracci, famiglie aristocratiche e figure truffaldine, amiche sincere e matrone discutibili. Fra colpi di scena e difficoltà quotidiane. Fino all'inevitabile happy end, che Danila Comastri Montanari sa come sempre costruire con ironica e sofisticata abilità.
Dura Lex è l'ultimo di quindici romanzi che lei ha scritto seguendo una ricetta vincente: calare le regole del giallo classico nell'antica Roma. I perché di questa scelta.
Scrivere un mystery classico nell'era della polizia scientifica e dell'analisi del DNA, sarebbe un'impresa incredibilmente ardua e con grande probabilità destinata al fallimento: un detective che si avvalesse della lente di ingrandimento e del "piccolo chimico" casalingo come Sherlock Holmes o giungesse alla soluzione dell'enigma soltanto con le "celluline grigie" come Poirot, suonerebbe al giorno d'oggi del tutto improbabile alle orecchie dei lettori. Per mettere in scena un investigatore che sia davvero protagonista, che svolga l'inchiesta mettendo in campo acume, capacità di osservazione e di abduzione, nonché una certa dose di intuito, è quindi necessario retrodatare gli eventi, collocandoli in qualche foro, in qualche agorà, o magari in un bel monastero medievale. Una simile ambientazione offre peraltro all'autore un pretesto per divertirsi assai, industriandosi di trasportare nel passato i metodi di indagine contemporanei, senza tuttavia violare mai il dettato storico. Ogni volta è una sfida, che il giallista raccoglie e rilancia al complice lettore.
Publio Aurelio Stazio, è un investigatore raffinato, ricco, galante e, a suo modo, anticonformista. Si è ispirata a qualcuno?
Un tempo nel giallo c'era l'eroe - bello, forte, astuto e sexy - che alla lunga finiva per diventare un personaggio stereotipato. Poi è venuto di moda l'antieroe - bruttino, antipatico, scortese, magari anche un po' corto di comprendonio - ma anche quello, alla lunga, ha finito per diventare un personaggio stereotipato. Dovendo scegliere, non ho avuto dubbi: come scrittrice di professione, passo in compagnia del mio eroe parecchie ore al giorno, e avevo tutti i diritti di trascorrerle con un uomo decente. Così ho attribuito al mio protagonista un certo fascino, un'intelligenza piuttosto viva e inoltre l'ho reso ricco, visto che molti lettori - come d'altra parte la sottoscritta - hanno le loro belle difficoltà nell'arrivare a fine mese e non sarebbe stato opportuno affliggerli con i problemi di un detective in gravi ristrettezze economiche. Per il resto, Publio Aurelio ha molte contraddizioni e molte fisime, che sono esattamente le mie. E' anche anticonformista, perché esce dalla penna - pardon, dal computer - di un'autrice che lo è stata in massimo grado per tutta la vita. Ragiona come me, ha la mia mentalità e spesso parla a mio nome: in breve, come avrebbe detto Flaubert: "Aurelio c'est moi!".
Quanto lavoro di documentazione c'è dietro ai suoi romanzi, e quanta invenzione?
In una serie di libri che hanno l'ambizione di rispondere alle regole del romanzo storico, oltre che a quelle del giallo, la documentazione è ovviamente importantissima. Per questo ho scelto un periodo che già conoscevo abbastanza, in modo da avere chiaro lo sfondo e limitare le nuove ricerche alle singole "subculture" sociali, religiose o giuridiche presenti nella civiltà romana del I secolo d. C., nell'ambito delle quali si svolgono le varie vicende. Il resto è invenzione, DEVE essere invenzione: nessuna ricerca, per quanto esatta, per quanto approfondita, potrà mai sostituire nella fiction una trama accattivante: sarebbe scorretto - oltre che perdente - propinare un saggio tediosamente didascalico sotto le false vesti di un'avventura. Malgrado la mia costante attenzione per i dettagli storici, quindi, è indubbio che, se un giorno dovessi trovarmi davanti a un "conflitto di interessi", sarebbe la trama a prevalere. La massima soddisfazione di un narratore - e soprattutto di un narratore seriale - è creare un mondo all'interno del quale condividere il proprio immaginario con i lettori: se l'immaginario cedesse la prima linea a una serie di aridi documenti, allora tanto varrebbe scrivere saggistica, anziché fiction.
«La Repubblica» del 17 dicembre 2009
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