di Massimo Onofri
L’ultimo romanzo di Ammaniti, Che la festa cominci, inizia nella pizzeria Jerry 2 di Oriolo Romano, dove si trovano riunite attorno al loro leader, Saverio Moneta detto Mantos, le Belve di Abaddon, una maldestra setta di satanisti che perde pezzi ed ha una sola alternativa: sciogliersi definitivamente o tentare l’impresa incredibile che ne rilanci le azioni nel firmamento dei figli del demonio. Oriolo Romano, nonostante il nome, è l’ultimo paese della provincia di Viterbo: pochi chilometri più a sud, con Manziana, che è già un verde paese dormitorio per capitolini, inizia la provincia di Roma. La differenza tra il paese viterbese e quello romano è, nonostante la prossimità, rilevante: se Manziana è confortevole periferia della capitale, Oriolo accampa, accanto ai resti antichi e rurali tipici d’un borgo della Tuscia, ampie zone d’un presente degradato e globalizzato. Ecco, Oriolo Romano è esattamente l’Italia così come ce la restituisce Ammaniti in questo romanzo esilarante e che si legge d’un soffio: un luogo arcaico e moderno sino alla parodia di se stesso, in cui un’antica grettezza tribale si coniuga alla greve modernità di schermi al plasma Pioneer, dentro case superaccessoriate dove, però, l’invadenza del kitsch è la stessa di ieri, seppure aggiornata. Del resto se l’Italia - e Roma: dove si svolge la più parte della vicenda - non fosse ibrida e improbabile, snaturata infine, come Oriolo Romano (e sino a Capranica), sarebbe davvero possibile far convivere i satanisti di Mantos (in strepitosa veste di camerieri), col famosissimo scrittore, il putto divo, Francesco Ciba, che scrive best- seller cari soprattutto alle lettrici più avvenenti e conduce trasmissioni televisive di successo? E convivere, lo sottolineo, nello stesso luogo: la sfarzosissima residenza del trimalcionesco Sasà Chiatti (ma non è il cognome del mostro di Foligno?) che si trova addirittura a Villa Ada, dove, come in una specie di colossal cinematografico tutto in cartapesta, e per una folla di invitati di primissimo piano (soprattutto il mondo editoriale: son consentite letture a chiave), s’improvvisa una caccia grossa in costume (poco importa se alla volpe o alla tigre), tra belve feroci d’ogni sorta dimesse come malati terminali dagli zoo e i circhi del mondo. Non mancano, diciamo così, i revenants: se il lettore verrà a conoscere quale fine abbia fatto la nazionale di calcio sovietica che non rientrò in patria, nel 1960, dalle Olimpiadi. Sarà qui che le Belve tenteranno di mozzare la testa alla cantante bacchettona Larita di Chieti Scalo, niente di meno che con una durlindana, acquistata su internet: per un finale degno, parodicamente, del peggior catastrofismo hollywoodiano. Diciamolo. Non c’è forse oggi, tra i nostri narratori, uno scrittore che, con la stessa abilità affabulatoria, sappia pigiare il pedale del comico come Ammaniti. Né c’è qualcuno che sappia raccontare, come lui, un acquazzone di venerdì notte al centro d’una Roma congestionata dal traffico: con tutte le disperate e esilaranti conseguenze del caso. Qualcuno dirà - l’ha già detto - che l’Italia di questi mesi, nella sua euforica e mortifera dissipazione, nella sua assoluta immoralità, ha già superato quella immaginata nel romanzo. Forse è vero: ma non è una buona ragione, questa, per non goderselo tutto, per non assaporarne fino in fondo il dolciastro fiele.
Niccolò Ammaniti, Che la festa cominci, Einaudi, pp. 332, € 18,00
«Avvenire» del 12 dicembre 2009
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