12 dicembre 2009

Ammaniti, lo scrittore del «kitsch»

di Massimo Onofri
L’ultimo romanzo di Ammaniti, Che la festa cominci, inizia nel­la pizzeria Jerry 2 di Oriolo Ro­mano, dove si trovano riunite attorno al loro leader, Saverio Moneta detto Mantos, le Bel­ve di Abaddon, una maldestra setta di satanisti che perde pezzi ed ha una sola alternati­va: sciogliersi definitivamen­te o tentare l’impresa incredi­bile che ne rilanci le azioni nel firmamento dei figli del de­monio. Oriolo Romano, no­nostante il nome, è l’ultimo paese della provincia di Viter­bo: pochi chilometri più a sud, con Manziana, che è già un verde paese dormitorio per ca­pitolini, inizia la provincia di Roma. La differenza tra il pae­se viterbese e quello romano è, nonostante la prossimità, ri­levante: se Manziana è confortevole periferia della capitale, Oriolo accampa, accanto ai re­sti antichi e rurali tipici d’un borgo della Tuscia, ampie zo­ne d’un presente degradato e globalizzato. Ecco, Oriolo Ro­mano è esattamente l’Italia così come ce la restituisce Am­maniti in questo romanzo esi­larante e che si legge d’un sof­fio: un luogo arcaico e moder­no sino alla parodia di se stes­so, in cui un’antica grettezza tribale si coniuga alla greve modernità di schermi al pla­sma Pioneer, dentro case su­peraccessoriate dove, però, l’invadenza del kitsch è la stes­sa di ieri, seppure aggiornata. Del resto se l’Italia - e Roma: dove si svolge la più parte del­la vicenda - non fosse ibrida e improbabile, snaturata infine, come Oriolo Romano (e sino a Capranica), sarebbe davvero possibile far convivere i sata­nisti di Mantos (in strepitosa veste di camerieri), col famo­sissimo scrittore, il putto divo, Francesco Ciba, che scrive be­st- seller cari soprattutto alle lettrici più avvenenti e condu­ce trasmissioni televisive di successo? E convivere, lo sot­tolineo, nello stesso luogo: la sfarzosissima residenza del trimalcionesco Sasà Chiatti (ma non è il cognome del mo­stro di Foligno?) che si trova addirittura a Villa Ada, dove, come in una specie di colossal cinematografico tutto in car­tapesta, e per una folla di in­vitati di primissimo piano (so­prattutto il mondo editoriale: son consentite letture a chia­ve), s’improvvisa una caccia grossa in costume (poco im­porta se alla volpe o alla tigre), tra belve feroci d’ogni sorta di­messe come malati terminali dagli zoo e i circhi del mondo. Non mancano, diciamo così, i revenants: se il lettore verrà a conoscere quale fine abbia fat­to la nazionale di calcio sovie­tica che non rientrò in patria, nel 1960, dalle Olimpiadi. Sarà qui che le Belve tenteranno di mozzare la testa alla cantante bacchettona Larita di Chieti Scalo, niente di meno che con una durlindana, acquistata su internet: per un finale degno, parodicamente, del peggior catastrofismo hollywoodiano. Diciamolo. Non c’è forse oggi, tra i nostri narratori, uno scrittore che, con la stessa abilità affabulatoria, sappia pigiare il pedale del comico come Am­maniti. Né c’è qualcuno che sappia raccontare, come lui, un acquazzone di venerdì not­te al centro d’una Roma con­gestionata dal traffico: con tut­te le disperate e esilaranti con­seguenze del caso. Qualcuno dirà - l’ha già detto - che l’Ita­lia di questi mesi, nella sua euforica e mortifera dissipa­zione, nella sua assoluta im­moralità, ha già superato quel­la immaginata nel romanzo. Forse è vero: ma non è una buona ragione, questa, per non goderselo tutto, per non assaporarne fino in fondo il dolciastro fiele.
Niccolò Ammaniti, Che la festa cominci, Einaudi, pp. 332, € 18,00
«Avvenire» del 12 dicembre 2009

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