Lo scrittore premiato de «La conchiglia di Anataj» fu sempre fedele a una poetica che privilegiava la sacralità del mondo e dell’uomo e una visione mitica trasfigurata nella nostra esistenza
di Fulvio Panzeri
Ci ha lasciato uno dei più importanti narratori italiani del Secondo Novecento, Carlo Sgorlon: classe 1930, nato a Cassacco, un paese a 13 chilometri da Udine, in quel Friuli che è diventato terra mitica nelle sue opere, un angolo di mondo in cui ritrovare i segni della tradizione e della sacralità delle radici. Non era contento negli ultimi anni e non aveva problemi ad indicare le ragioni del suo disagio e di un isolamento culturale che sentiva un po’ come una condanna, tanto che nelle interviste e in quello che è il suo ultimo libro, La penna d’oro, aveva puntato il dito sulla implacabilità della censura della società letteraria italiana e aveva lamentato «la troppa sufficienza e indifferenza nei miei confronti, specie dalla intellighenzia di sinistra». E aggiungeva: «La mia coerenza e il mio universo di scrittore continuano a suscitare più fastidio e diffidenza che consensi. Che io insista a pensare in modi personali e anticonformisti sui grandi temi del vivere continua a ribadire il bando, l’ostracismo che nessuno ha mai pronunziato apertamente, ma che conserva ancora la sua antica efficacia. Ogni cosa che faccio, o che mi riguarda, viene irrisa e deformata».
Certamente Sgorlon con la sua narrativa non ha mai ceduto alle mode imperanti, rimanendo sempre fedele a una poetica che privilegiava la sacralità del mondo e dell’uomo e una visione mitica trasfigurata nella nostra esistenza. Diceva: «Nella cultura dominante non v’è più il senso della sacralità, né l’amore per la natura e per la vita, né il sentimento dell’armonia con l’Essere, né i miti religiosi, né le emozioni genuine di un tempo, neppure le più vere e forti, come quelle suscitate dall’eros. Ma, soprattutto, la disperazione dominante oggi in Occidente è una forma di conformismo, di diffusa suggestione». Non voleva allinearsi nella rappresentazione del male del mondo e nella forma d’apocalisse della sua degenerazione e rivendicava il diritto ad un esempio di francescana fiducia nella bellezza del mondo: «Personalmente mi pare giusto parlare di ciò che attira, che emoziona, che seduce i sentimenti e appaga il cuore, anche se tutto questo secondo i critici appartiene alla zona del consolatorio. Molti dei miei personaggi, specie quelli che si collocano nei primi piani della storia, hanno una natura profondamente cristiana. Ciò ha fatto scendere sulla mia narrativa l’ombra del buonismo». Un rapporto quindi non facile con la critica e con la società letteraria, anche se l’opera di Carlo Sgorlon è piuttosto vasta.
Nato da Livia, maestra elementare, e da Antonio, sarto, era il secondo di 5 figli e ha vissuto per lunghi periodi in campagna, con i nonni, in assoluta libertà, assimilando il carattere e il senso di quella cultura rurale, intessuta di favole, miti e superstizioni, che sarà poi al centro della sua opera. Si era laureato con una tesi su Franz Kafka, scrittore con il quale sentiva di avere qualche affinità, almeno nel territorio della ricerca religiosa. Iniziò a scrivere negli anni Sessanta, anche se il primo libro in cui si delinea quella coralità di struttura e di personaggi, all’insegna di un originale 'realismo magico' che caratterizzerà il suo ideale di storia e di letteratura, è La Luna color ametista del 1970. Il grande consenso di pubblico arriva nel 1973 con Il trono di legno, romanzo di successo, grazie anche al premio Campiello che Sgorlon vince per la prima volta con questa storia che ha per protagonista un narratore di vicende fantastiche legate alla cultura contadina, un romanzo secondo lo scrittore «come tanti altri miei romanzi, e forse tutti, profondamente intriso di sentimenti ecologici e di immedesimazione con la sacralità della natura».
E il Supercampiello lo vincerà ancora, nel 1983, con La conchiglia di Anataj, da molti considerato il romanzo più significativo dello scrittore friulano, che descrive l’avventura di 400 friulani in Siberia ed è incentrato sul recupero delle origini e del legame con le proprie radici. Emblematico di un altro tema forte della sua narrativa, quello che Sgorlon definisce «il sentimento dominante di alcuni personaggi di essere degli stranieri nel mondo», pur non sottraendosi mai ai propri doveri.
Nel 1985 vince il premio Strega con L’armata dei fiumi perduti, ispirato alle vicende poco note della duplice tragedia del popolo cosacco; un romanzo che raggiunge le 22 edizioni. Scrittore molto amato dal pubblico, autore di una trentina di romanzi (tra i quali ricordiamo ancora La carrozza di rame, Il Calderàs, L’ultima valle, La foiba grande), raccolte di racconti e vari saggi, Sgorlon ha sempre rivendicato un carattere di forte moralità alla propria letteratura e una fedeltà al suo mondo e alla sua verità di cui ha voluto essere cantore umile e semplice, anche se sempre molto appassionato, al punto di lavorare, nell’ultimo periodo, verso una «fusione della cultura umanistica con quella scientifica, e in particolare la fisica e l’astrofisica, di cui sono molto curioso». Con una scoperta: «La sostanza del mondo è diversa dalle sue apparenze e dalle nostre sensazioni». E un lascito ideale: «Non sono uno scrittore 'buonista', ma semplicemente un ammiratore della bontà, e di tutto ciò che essa comporta. Né sono un moralista, ma uno scrittore morale. Senza etica una società non è più tale, ma un Caos senza forma, destinata a crollare e scomparire».
Certamente Sgorlon con la sua narrativa non ha mai ceduto alle mode imperanti, rimanendo sempre fedele a una poetica che privilegiava la sacralità del mondo e dell’uomo e una visione mitica trasfigurata nella nostra esistenza. Diceva: «Nella cultura dominante non v’è più il senso della sacralità, né l’amore per la natura e per la vita, né il sentimento dell’armonia con l’Essere, né i miti religiosi, né le emozioni genuine di un tempo, neppure le più vere e forti, come quelle suscitate dall’eros. Ma, soprattutto, la disperazione dominante oggi in Occidente è una forma di conformismo, di diffusa suggestione». Non voleva allinearsi nella rappresentazione del male del mondo e nella forma d’apocalisse della sua degenerazione e rivendicava il diritto ad un esempio di francescana fiducia nella bellezza del mondo: «Personalmente mi pare giusto parlare di ciò che attira, che emoziona, che seduce i sentimenti e appaga il cuore, anche se tutto questo secondo i critici appartiene alla zona del consolatorio. Molti dei miei personaggi, specie quelli che si collocano nei primi piani della storia, hanno una natura profondamente cristiana. Ciò ha fatto scendere sulla mia narrativa l’ombra del buonismo». Un rapporto quindi non facile con la critica e con la società letteraria, anche se l’opera di Carlo Sgorlon è piuttosto vasta.
Nato da Livia, maestra elementare, e da Antonio, sarto, era il secondo di 5 figli e ha vissuto per lunghi periodi in campagna, con i nonni, in assoluta libertà, assimilando il carattere e il senso di quella cultura rurale, intessuta di favole, miti e superstizioni, che sarà poi al centro della sua opera. Si era laureato con una tesi su Franz Kafka, scrittore con il quale sentiva di avere qualche affinità, almeno nel territorio della ricerca religiosa. Iniziò a scrivere negli anni Sessanta, anche se il primo libro in cui si delinea quella coralità di struttura e di personaggi, all’insegna di un originale 'realismo magico' che caratterizzerà il suo ideale di storia e di letteratura, è La Luna color ametista del 1970. Il grande consenso di pubblico arriva nel 1973 con Il trono di legno, romanzo di successo, grazie anche al premio Campiello che Sgorlon vince per la prima volta con questa storia che ha per protagonista un narratore di vicende fantastiche legate alla cultura contadina, un romanzo secondo lo scrittore «come tanti altri miei romanzi, e forse tutti, profondamente intriso di sentimenti ecologici e di immedesimazione con la sacralità della natura».
E il Supercampiello lo vincerà ancora, nel 1983, con La conchiglia di Anataj, da molti considerato il romanzo più significativo dello scrittore friulano, che descrive l’avventura di 400 friulani in Siberia ed è incentrato sul recupero delle origini e del legame con le proprie radici. Emblematico di un altro tema forte della sua narrativa, quello che Sgorlon definisce «il sentimento dominante di alcuni personaggi di essere degli stranieri nel mondo», pur non sottraendosi mai ai propri doveri.
Nel 1985 vince il premio Strega con L’armata dei fiumi perduti, ispirato alle vicende poco note della duplice tragedia del popolo cosacco; un romanzo che raggiunge le 22 edizioni. Scrittore molto amato dal pubblico, autore di una trentina di romanzi (tra i quali ricordiamo ancora La carrozza di rame, Il Calderàs, L’ultima valle, La foiba grande), raccolte di racconti e vari saggi, Sgorlon ha sempre rivendicato un carattere di forte moralità alla propria letteratura e una fedeltà al suo mondo e alla sua verità di cui ha voluto essere cantore umile e semplice, anche se sempre molto appassionato, al punto di lavorare, nell’ultimo periodo, verso una «fusione della cultura umanistica con quella scientifica, e in particolare la fisica e l’astrofisica, di cui sono molto curioso». Con una scoperta: «La sostanza del mondo è diversa dalle sue apparenze e dalle nostre sensazioni». E un lascito ideale: «Non sono uno scrittore 'buonista', ma semplicemente un ammiratore della bontà, e di tutto ciò che essa comporta. Né sono un moralista, ma uno scrittore morale. Senza etica una società non è più tale, ma un Caos senza forma, destinata a crollare e scomparire».
«Avvenire» del 28 dicembre 2009
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