Dante, Bembo, Manzoni: furono loro a darci identità, non le baionette. E ora dobbiamo proteggerla con cura. L'unità linguistica è anteriore rispetto alla nascita della nazione: risale almeno al Seicento
di Lucio D'Arcangelo
L’italiano non è un bostik, come dice Gilberto Oneto, ma rappresenta un patrimonio culturale comune. Checché egli ne dica, le lingue nazionali hanno sempre avuto, e seguitano ad avere, un valore simbolico, esattamente come la bandiera, ma con una differenza sostanziale: si può stracciare la bandiera italiana, magari inalberandone un’altra, ma non ci si può disfare della lingua italiana, che, bene o male, ci unisce ancora. L’italiano «imposto all’uso comune grazie alla presenza dello Stato»? Tutte le lingue nazionali si sono affermate così, ma differentemente dalle altre la nostra è senza macchia: non è stata promossa da una potente monarchia, né tanto meno dalla forza delle armi, come è avvenuto in Spagna o in Francia, ma dalla propria eccellenza culturale.
Si è soliti ripetere che all’indomani dell’unità l’italiano era una lingua prevalentemente «scritta» e quindi con un uso limitato. Ma questo è vero solo in parte. Già nel Seicento l’italiano era la lingua del pulpito e del teatro - i media d’allora - e quindi non era privo di audience, come si direbbe oggi. Inoltre, come ha dimostrato Luca Serianni nel suo Viaggiatori, musicisti, poeti (Garzanti, 2002) una lingua comune parlata, interregionale (l’«italiano itinerante» indicato dal Foscolo) esisteva nella penisola ancor prima dell’Unità, ed era qualcosa di più delle semplici «isoglosse», che sono un dato ricavato a posteriori.
Perciò è impensabile che il francese potesse diventare la lingua del nuovo Stato unitario, anche perché era fortemente legato ad una nazione egemonica come era allora quella francese, né credo fosse nel cuore dei piemontesi, specie se si guarda il Misogallo dell’Alfieri. Si dà il caso invece che l’italiano venisse adottato in Piemonte negli atti pubblici sin dal 1561 grazie ad una dinastia lungimirante che non intendeva chiudersi nel proprio «staterello». Oggi alla modernità, ossia al Rinascimento, alcuni preferiscono il Medioevo e vorrebbero le cosiddette «lingue regionali» non solo nell’amministrazione, ma anche nella scuola, dove allora si insegnava latino: ciò che sembra tanto più anacronistico in quanto a partire dagli anni ’50 c’è stato un progressivo, e irreversibile, annacquamento dei dialetti. Ma il punto decisivo è un altro: nessuna regione italiana corrisponde ad «un» dialetto. Prendiamo il caso della Lombardia. Cito un esperto della materia: «Usciti da Milano e spingendosi fino a Varese s’incontrano almeno tre ceppi principali: il legnanese, il bustocco e il bosino, ma a Lainate sono fieri del loro accento chiuso, a Busto Garolfo degli arcaismi liguri, mentre Parabiago vuol dire la sua. Così, se sotto la Madonnina l’imbuto è il pedrieu, nell’Insubria è il curnasél. Idem verso Como, con il brianzolo prima, compresa la variante monzese, e il comasco poi, tanto simile al ticinese, ma salendo in Val d’Intelvi la lingua cambia di nuovo. Passato l’Adda, comincia un altro mondo; e i bergamaschi di città faticano a capire il gaì, il gergo usato dai pastori delle valli». Quale di queste parlate useremo come idioma «lombardo»? Certo, ci sarebbe il milanese o, per meglio dire, quel che ne resta. Ma in una situazione così frammentata quale successo avrebbe l’imposizione della parlata metropolitana? E a che servirebbe, data la sua crescente italianizzazione?
Oggi i dialetti storici della penisola sono minacciati di estinzione, ma non se ne salverà né lo spirito né la lettera con un protezionismo linguistico (la legge 482) che non è più nelle cose e che in un mondo come quello attuale è destinato ad una vita grama ed artificiale, se non si costruiranno identità regionali nuove, aperte, in cui le singole comunità possano esprimersi in una dinamica linguistica adeguata alle esigenze locali senza per questo chiudersi in se stesse e rifiutare di contribuire alla costruzione di una lingua che nella sua più vasta accezione non può che essere comune.
Si è soliti ripetere che all’indomani dell’unità l’italiano era una lingua prevalentemente «scritta» e quindi con un uso limitato. Ma questo è vero solo in parte. Già nel Seicento l’italiano era la lingua del pulpito e del teatro - i media d’allora - e quindi non era privo di audience, come si direbbe oggi. Inoltre, come ha dimostrato Luca Serianni nel suo Viaggiatori, musicisti, poeti (Garzanti, 2002) una lingua comune parlata, interregionale (l’«italiano itinerante» indicato dal Foscolo) esisteva nella penisola ancor prima dell’Unità, ed era qualcosa di più delle semplici «isoglosse», che sono un dato ricavato a posteriori.
Perciò è impensabile che il francese potesse diventare la lingua del nuovo Stato unitario, anche perché era fortemente legato ad una nazione egemonica come era allora quella francese, né credo fosse nel cuore dei piemontesi, specie se si guarda il Misogallo dell’Alfieri. Si dà il caso invece che l’italiano venisse adottato in Piemonte negli atti pubblici sin dal 1561 grazie ad una dinastia lungimirante che non intendeva chiudersi nel proprio «staterello». Oggi alla modernità, ossia al Rinascimento, alcuni preferiscono il Medioevo e vorrebbero le cosiddette «lingue regionali» non solo nell’amministrazione, ma anche nella scuola, dove allora si insegnava latino: ciò che sembra tanto più anacronistico in quanto a partire dagli anni ’50 c’è stato un progressivo, e irreversibile, annacquamento dei dialetti. Ma il punto decisivo è un altro: nessuna regione italiana corrisponde ad «un» dialetto. Prendiamo il caso della Lombardia. Cito un esperto della materia: «Usciti da Milano e spingendosi fino a Varese s’incontrano almeno tre ceppi principali: il legnanese, il bustocco e il bosino, ma a Lainate sono fieri del loro accento chiuso, a Busto Garolfo degli arcaismi liguri, mentre Parabiago vuol dire la sua. Così, se sotto la Madonnina l’imbuto è il pedrieu, nell’Insubria è il curnasél. Idem verso Como, con il brianzolo prima, compresa la variante monzese, e il comasco poi, tanto simile al ticinese, ma salendo in Val d’Intelvi la lingua cambia di nuovo. Passato l’Adda, comincia un altro mondo; e i bergamaschi di città faticano a capire il gaì, il gergo usato dai pastori delle valli». Quale di queste parlate useremo come idioma «lombardo»? Certo, ci sarebbe il milanese o, per meglio dire, quel che ne resta. Ma in una situazione così frammentata quale successo avrebbe l’imposizione della parlata metropolitana? E a che servirebbe, data la sua crescente italianizzazione?
Oggi i dialetti storici della penisola sono minacciati di estinzione, ma non se ne salverà né lo spirito né la lettera con un protezionismo linguistico (la legge 482) che non è più nelle cose e che in un mondo come quello attuale è destinato ad una vita grama ed artificiale, se non si costruiranno identità regionali nuove, aperte, in cui le singole comunità possano esprimersi in una dinamica linguistica adeguata alle esigenze locali senza per questo chiudersi in se stesse e rifiutare di contribuire alla costruzione di una lingua che nella sua più vasta accezione non può che essere comune.
«Il Giornale» del 16 dicembre 2009
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