La famiglia contro lo scrittore D’Avenia che ha raccontato la morte di Irene
di Cristina Taglietti
Un liceo romano, una studentessa stroncata dalla leucemia. Ora le critiche addolorate della mamma
È stato presentato come il nuovo Paolo Giordano. Alessandro D’Avenia, 32 anni, docente di lettere in un liceo milanese, votato all’insegnamento come il professor Keating de L’attimo fuggente (Robin Williams), suo modello dichiarato, con il romanzo d’esordio Bianca come il latte, rosso come il sangue, lanciato da Mondadori la scorsa settimana, doveva diventare il caso letterario del 2010. Tanto che ancora prima che venisse pubblicato già si diceva che forse la Mondadori avrebbe potuto candidarlo al premio Strega e si facevano paragoni (rivelatisi poi alla lettura non troppo calzanti) con La solitudine dei numeri primi. E infatti un caso lo sta diventando, ma per motivi diversi da quelli previsti. L’autore ha raccontato in tutte le interviste di essersi ispirato per questo romanzo a una storia vera, che gli è stata raccontata cinque anni fa mentre faceva una supplenza al liceo Dante di Roma, quando uno studente gli parlò del dolore per la scomparsa di una ragazza della stessa scuola, morta l’anno precedente di leucemia. Dopo qualche tempo quello stesso studente gli ha chiesto di raccontare la sua storia, di dare una voce, e un senso, al suo dolore. Lui lo ha fatto. E questo sembra oggi dispiacere alla mamma della ragazza.
I suoi primi lettori (ed editor) sono stati proprio gli studenti a cui ha fatto leggere capitoli del libro e che gli hanno dato suggerimenti e consigli. Nella sua biografia D’Avenia si presenta come «uno scrittore e un insegnante perdutamente innamorato della realtà» che «cerca il paradiso impastato nella polvere della vita quotidiana e nel cuore delle persone che incontra», cresciuto in una «famiglia folle» con sei figli (tutti su Facebook, attivissimi nel sostenere il fratello), «dove sembra che ciascuno stia facendo una cosa diversa quando in realtà tutti stanno facendo la stessa cosa come nei film di Frank Capra». Mentre il 90 per cento di quello che c’è da sapere sulla vita, scrive, l’ha imparato da questa tribù, la passione per l’insegnamento l’ha ereditata probabilmente dalla madre che si occupa di scuola e educazione (il padre è dentista). Nel libro D’Avenia non parla con la voce del professore che pure c’è ed è un supplente di filosofia, detto il Sognatore (uno che quando entra in classe gli chiedono «perché ha deciso di fare questo mestiere da sfigato»), ma con la voce di Leo, sedicenne complicato come tutti, uno che avrebbe «mille progetti, diecimila desideri, un milione di sogni da realizzare, un miliardo di cose da iniziare», ma poi non riesce a iniziarne una «perché non interessa a nessuno ». Leo è innamorato di Beatrice, «occhi verdi che quando li spalanca prendono tutto il viso, capelli rossi che quando li scioglie l’alba ti viene addosso».
Leo odia il bianco, per lui le cose brutte sono così, senza colore, bianche. Ama il rosso, rosso come l’amore. Non si accorge di Silvia, la migliore amica che vorrebbe essere qualcosa di più, ama Beatrice ma non osa dirglielo, le manda sms sbagliando numero di telefono, la guarda da lontano e immagina il suo sangue trasformarsi da rosso in bianco, assediato dalla malattia. Impotente viene a sapere delle trasfusioni (lui stesso le dona il suo sangue), del trapianto di midollo che non ha funzionato, della malattia che procede facendole perdere i meravigliosi capelli. Fino a quando con Silvia la va a trovare e finalmente la conosce. Ha il sorriso stanco, ma vero, è «sempre un perfetto mix di Nicole Kidman e Liv Tyler» e «tutta la sua figura è una promessa di felicità». Poi lei gli dice che sta morendo: «Tutto l’amore che ho sentito intorno a me in questi mesi mi ha cambiata, mi ha fatto toccare Dio. A poco a poco sto smettendo di avere paura, di piangere, perché credo che chiuderò gli occhi e mi sveglierò vicino a lui». Una storia commovente ma non disperata, di crescita e formazione, con un grande afflato spirituale che D’Avenia racconta con linguaggio semplice, qualche scivolone nella banalità e nelle frasi da carta dei cioccolatini, ma dimostrando grande fiducia negli adolescenti di oggi, ben lontani dalla rappresentazione edonista che ne ha fatto Moccia (non a caso «Avvenire », quotidiano dei vescovi, ha intitolato l’articolo su di lui «Tre metri dentro il cielo»).
La figura di Beatrice è ispirata a Irene, studentessa del liceo classico Dante Alighieri di Roma, scomparsa a 15 anni nel maggio 2004. Irene amava il teatro che aveva iniziato a praticare proprio a scuola. Su di lei si trovano molti ricordi su Facebook anche perché la madre Francesca con l’attore Adriano Evangelisti e con il presidente del Ravello Festival Domenico De Masi hanno deciso di ricordarla con un premio, intitolato Alidirene destinato a tutti quei ragazzi, che abbiano dimostrato di possedere la stessa passione per il teatro e lo stesso spirito di gruppo nel lavoro comune, un’iniziativa che nel corso degli anni è stata sostenuta da personaggi dello spettacolo come Loretta Goggi, Fabrizio Frizzi, Carlo Delle Piane. E se all’inzio, almeno a quanto emerge dai post su Facebook, la madre aveva accolto con favore il fatto che la figlia rivivesse in qualche modo nel romanzo, adesso che la macchina del bestseller è partita, rivestendo di una patina di irrealtà questa storia vera e dolorosissima, qualcosa nel rapporto con D’Avenia sembra essersi incrinato. «È una storia che brucia, che mi fa stare molto male — dice soltanto — e ora non posso raccontarla dall’inizio».
I suoi primi lettori (ed editor) sono stati proprio gli studenti a cui ha fatto leggere capitoli del libro e che gli hanno dato suggerimenti e consigli. Nella sua biografia D’Avenia si presenta come «uno scrittore e un insegnante perdutamente innamorato della realtà» che «cerca il paradiso impastato nella polvere della vita quotidiana e nel cuore delle persone che incontra», cresciuto in una «famiglia folle» con sei figli (tutti su Facebook, attivissimi nel sostenere il fratello), «dove sembra che ciascuno stia facendo una cosa diversa quando in realtà tutti stanno facendo la stessa cosa come nei film di Frank Capra». Mentre il 90 per cento di quello che c’è da sapere sulla vita, scrive, l’ha imparato da questa tribù, la passione per l’insegnamento l’ha ereditata probabilmente dalla madre che si occupa di scuola e educazione (il padre è dentista). Nel libro D’Avenia non parla con la voce del professore che pure c’è ed è un supplente di filosofia, detto il Sognatore (uno che quando entra in classe gli chiedono «perché ha deciso di fare questo mestiere da sfigato»), ma con la voce di Leo, sedicenne complicato come tutti, uno che avrebbe «mille progetti, diecimila desideri, un milione di sogni da realizzare, un miliardo di cose da iniziare», ma poi non riesce a iniziarne una «perché non interessa a nessuno ». Leo è innamorato di Beatrice, «occhi verdi che quando li spalanca prendono tutto il viso, capelli rossi che quando li scioglie l’alba ti viene addosso».
Leo odia il bianco, per lui le cose brutte sono così, senza colore, bianche. Ama il rosso, rosso come l’amore. Non si accorge di Silvia, la migliore amica che vorrebbe essere qualcosa di più, ama Beatrice ma non osa dirglielo, le manda sms sbagliando numero di telefono, la guarda da lontano e immagina il suo sangue trasformarsi da rosso in bianco, assediato dalla malattia. Impotente viene a sapere delle trasfusioni (lui stesso le dona il suo sangue), del trapianto di midollo che non ha funzionato, della malattia che procede facendole perdere i meravigliosi capelli. Fino a quando con Silvia la va a trovare e finalmente la conosce. Ha il sorriso stanco, ma vero, è «sempre un perfetto mix di Nicole Kidman e Liv Tyler» e «tutta la sua figura è una promessa di felicità». Poi lei gli dice che sta morendo: «Tutto l’amore che ho sentito intorno a me in questi mesi mi ha cambiata, mi ha fatto toccare Dio. A poco a poco sto smettendo di avere paura, di piangere, perché credo che chiuderò gli occhi e mi sveglierò vicino a lui». Una storia commovente ma non disperata, di crescita e formazione, con un grande afflato spirituale che D’Avenia racconta con linguaggio semplice, qualche scivolone nella banalità e nelle frasi da carta dei cioccolatini, ma dimostrando grande fiducia negli adolescenti di oggi, ben lontani dalla rappresentazione edonista che ne ha fatto Moccia (non a caso «Avvenire », quotidiano dei vescovi, ha intitolato l’articolo su di lui «Tre metri dentro il cielo»).
La figura di Beatrice è ispirata a Irene, studentessa del liceo classico Dante Alighieri di Roma, scomparsa a 15 anni nel maggio 2004. Irene amava il teatro che aveva iniziato a praticare proprio a scuola. Su di lei si trovano molti ricordi su Facebook anche perché la madre Francesca con l’attore Adriano Evangelisti e con il presidente del Ravello Festival Domenico De Masi hanno deciso di ricordarla con un premio, intitolato Alidirene destinato a tutti quei ragazzi, che abbiano dimostrato di possedere la stessa passione per il teatro e lo stesso spirito di gruppo nel lavoro comune, un’iniziativa che nel corso degli anni è stata sostenuta da personaggi dello spettacolo come Loretta Goggi, Fabrizio Frizzi, Carlo Delle Piane. E se all’inzio, almeno a quanto emerge dai post su Facebook, la madre aveva accolto con favore il fatto che la figlia rivivesse in qualche modo nel romanzo, adesso che la macchina del bestseller è partita, rivestendo di una patina di irrealtà questa storia vera e dolorosissima, qualcosa nel rapporto con D’Avenia sembra essersi incrinato. «È una storia che brucia, che mi fa stare molto male — dice soltanto — e ora non posso raccontarla dall’inizio».
«Corriere della sera» del 3 febbraio 2010
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