12 febbraio 2010

Le scoperte sugli stati vegetativi smascherano le false certezze

Le ammissioni a denti stretti sui rivoluzionari studi di Liegi
di Assuntina Morresi
Quando si parla di neuroscienze si pensa alla com­plessità della mente umana e agli studi che ne possono aumentare la compren­sione, magari miglio­randone le prestazioni. Difficilmente nell’opinione pubblica queste discipline affascinanti si associano alla possibilità di studiare la situazione di persone profondamente disabili, come quelle in stato vegetativo. Non possiamo quindi che essere d’accordo con Carlo Alberto Defanti, il neurologo che ha seguito E­luana Englaro, quando – in un suo inter­vento sull’Unità – si augura che, prose­guendo la ricerca, diventi possibile for­mulare prognosi più attendibili e indica­re percorsi di cura più idonei per le per­sone in questa condizione.
Il fatto che alcuni pazienti in stato vege­tativo potessero in qualche modo entra­re in relazione con l’ambiente esterno, come indicato dalle ricerche dell’équipe di Steven Laureys all’Università di Liegi rese note nei giorni scorsi dal New En­gland Journal of Medicine, non è del tut­to nuovo, come ricorda correttamente Defanti: i lettori di Avvenire lo sanno be­ne, visto che sono stati i primi in Italia già nel 2008 a leggere i risultati dei lavori pionieristici di Adrian Owen all’Univer­sità di Cambridge, e per molto tempo pareva dovessero restare gli unici a es­serne a conoscenza, visto che nessun al­tro ne parlava. Sui cosiddetti 'grandi giornali' si continuava – e si prosegue tuttora – a parlare dei pazienti in stato vegetativo come 'non-morti', inerti ve­getali. Speriamo che oggi Defanti condi­vida almeno l’idea che si tratta, invece, di persone vive.
Il neurologo parla di «illazioni tenden­ziose » riferendosi alla domanda – che a­vevo posto in un editoriale pubblicato domenica in questa stessa pagina – su cosa sarebbe accaduto se Eluana fosse stata sottoposta alle indagini di risonan­za magnetica funzionale utilizzate da Laureys e Owen. E richiamando i risulta­ti dell’autopsia sul corpo della giovane ribadisce l’irreversibilità del suo stato.
Ma quell’autopsia non può dirci niente sul livello dello stato di coscienza di E­luana nei 17 anni di stato vegetativo: nessuno è in grado di correlare le condi­zioni cerebrali rilevate nell’autopsia di E­luana con il suo livello di coscienza. Non esistono studi che mostrino un legame fra la gravità del grado di atrofia e il po­tenziale di reversibilità del disturbo di coscienza. Non c’è specialista al mondo che possa dare certezze in un senso o nell’altro, in casi come questo, né sapre­mo mai quale risposta ci sarebbe stata nel cervello di Eluana se fosse stata sot­toposta ad accertamenti con tecniche d’avanguardia, che pure erano disponi­bili ben prima di un anno fa.
Non sappiamo neppure se Eluana avreb­be veramente voluto morire così, disi­dratata e lontana dai suoi cari. Quello che sappiamo l’abbiamo dovuto leggere sulla relazione di consulenza tecnica medico-legale redatta dopo la sua morte su richiesta della Procura di Udine, per­ché prima nessuno ci aveva raccontato che in seguito all’incidente Eluana «sal­tuariamente esegue ordini semplici su comando della madre», che alle 4 del mattino del 15 ottobre 1993, «stimolata a dire la parola 'mamma' è riuscita a dirla due volte, in modo comprensibile», che «a tratti fissa e sembra contattabile», e che «considerata la giovane età della pa­ziente e la continua evoluzione anche se lenta, si consiglia il prosieguo del tratta­mento riabilitativo». Lo si legge nelle car­telle cliniche riportate dalla relazione, l’ha riferito solamente Avvenire citando il documento. Forse tutto questo non si­gnificava nulla, o forse no: ma perché non ce l’hanno raccontato prima?
Sappiamo di non sapere, o di saperne ben poco. Ma a un anno di distanza ci chiediamo ancora da dove siano venute tutte quelle certezze con cui Eluana è stata accompagnata alla morte.
«Avvenire» del 12 febbraio 2010

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