Le ammissioni a denti stretti sui rivoluzionari studi di Liegi
di Assuntina Morresi
Quando si parla di neuroscienze si pensa alla complessità della mente umana e agli studi che ne possono aumentare la comprensione, magari migliorandone le prestazioni. Difficilmente nell’opinione pubblica queste discipline affascinanti si associano alla possibilità di studiare la situazione di persone profondamente disabili, come quelle in stato vegetativo. Non possiamo quindi che essere d’accordo con Carlo Alberto Defanti, il neurologo che ha seguito Eluana Englaro, quando – in un suo intervento sull’Unità – si augura che, proseguendo la ricerca, diventi possibile formulare prognosi più attendibili e indicare percorsi di cura più idonei per le persone in questa condizione.
Il fatto che alcuni pazienti in stato vegetativo potessero in qualche modo entrare in relazione con l’ambiente esterno, come indicato dalle ricerche dell’équipe di Steven Laureys all’Università di Liegi rese note nei giorni scorsi dal New England Journal of Medicine, non è del tutto nuovo, come ricorda correttamente Defanti: i lettori di Avvenire lo sanno bene, visto che sono stati i primi in Italia già nel 2008 a leggere i risultati dei lavori pionieristici di Adrian Owen all’Università di Cambridge, e per molto tempo pareva dovessero restare gli unici a esserne a conoscenza, visto che nessun altro ne parlava. Sui cosiddetti 'grandi giornali' si continuava – e si prosegue tuttora – a parlare dei pazienti in stato vegetativo come 'non-morti', inerti vegetali. Speriamo che oggi Defanti condivida almeno l’idea che si tratta, invece, di persone vive.
Il neurologo parla di «illazioni tendenziose » riferendosi alla domanda – che avevo posto in un editoriale pubblicato domenica in questa stessa pagina – su cosa sarebbe accaduto se Eluana fosse stata sottoposta alle indagini di risonanza magnetica funzionale utilizzate da Laureys e Owen. E richiamando i risultati dell’autopsia sul corpo della giovane ribadisce l’irreversibilità del suo stato.
Ma quell’autopsia non può dirci niente sul livello dello stato di coscienza di Eluana nei 17 anni di stato vegetativo: nessuno è in grado di correlare le condizioni cerebrali rilevate nell’autopsia di Eluana con il suo livello di coscienza. Non esistono studi che mostrino un legame fra la gravità del grado di atrofia e il potenziale di reversibilità del disturbo di coscienza. Non c’è specialista al mondo che possa dare certezze in un senso o nell’altro, in casi come questo, né sapremo mai quale risposta ci sarebbe stata nel cervello di Eluana se fosse stata sottoposta ad accertamenti con tecniche d’avanguardia, che pure erano disponibili ben prima di un anno fa.
Non sappiamo neppure se Eluana avrebbe veramente voluto morire così, disidratata e lontana dai suoi cari. Quello che sappiamo l’abbiamo dovuto leggere sulla relazione di consulenza tecnica medico-legale redatta dopo la sua morte su richiesta della Procura di Udine, perché prima nessuno ci aveva raccontato che in seguito all’incidente Eluana «saltuariamente esegue ordini semplici su comando della madre», che alle 4 del mattino del 15 ottobre 1993, «stimolata a dire la parola 'mamma' è riuscita a dirla due volte, in modo comprensibile», che «a tratti fissa e sembra contattabile», e che «considerata la giovane età della paziente e la continua evoluzione anche se lenta, si consiglia il prosieguo del trattamento riabilitativo». Lo si legge nelle cartelle cliniche riportate dalla relazione, l’ha riferito solamente Avvenire citando il documento. Forse tutto questo non significava nulla, o forse no: ma perché non ce l’hanno raccontato prima?
Sappiamo di non sapere, o di saperne ben poco. Ma a un anno di distanza ci chiediamo ancora da dove siano venute tutte quelle certezze con cui Eluana è stata accompagnata alla morte.
Il fatto che alcuni pazienti in stato vegetativo potessero in qualche modo entrare in relazione con l’ambiente esterno, come indicato dalle ricerche dell’équipe di Steven Laureys all’Università di Liegi rese note nei giorni scorsi dal New England Journal of Medicine, non è del tutto nuovo, come ricorda correttamente Defanti: i lettori di Avvenire lo sanno bene, visto che sono stati i primi in Italia già nel 2008 a leggere i risultati dei lavori pionieristici di Adrian Owen all’Università di Cambridge, e per molto tempo pareva dovessero restare gli unici a esserne a conoscenza, visto che nessun altro ne parlava. Sui cosiddetti 'grandi giornali' si continuava – e si prosegue tuttora – a parlare dei pazienti in stato vegetativo come 'non-morti', inerti vegetali. Speriamo che oggi Defanti condivida almeno l’idea che si tratta, invece, di persone vive.
Il neurologo parla di «illazioni tendenziose » riferendosi alla domanda – che avevo posto in un editoriale pubblicato domenica in questa stessa pagina – su cosa sarebbe accaduto se Eluana fosse stata sottoposta alle indagini di risonanza magnetica funzionale utilizzate da Laureys e Owen. E richiamando i risultati dell’autopsia sul corpo della giovane ribadisce l’irreversibilità del suo stato.
Ma quell’autopsia non può dirci niente sul livello dello stato di coscienza di Eluana nei 17 anni di stato vegetativo: nessuno è in grado di correlare le condizioni cerebrali rilevate nell’autopsia di Eluana con il suo livello di coscienza. Non esistono studi che mostrino un legame fra la gravità del grado di atrofia e il potenziale di reversibilità del disturbo di coscienza. Non c’è specialista al mondo che possa dare certezze in un senso o nell’altro, in casi come questo, né sapremo mai quale risposta ci sarebbe stata nel cervello di Eluana se fosse stata sottoposta ad accertamenti con tecniche d’avanguardia, che pure erano disponibili ben prima di un anno fa.
Non sappiamo neppure se Eluana avrebbe veramente voluto morire così, disidratata e lontana dai suoi cari. Quello che sappiamo l’abbiamo dovuto leggere sulla relazione di consulenza tecnica medico-legale redatta dopo la sua morte su richiesta della Procura di Udine, perché prima nessuno ci aveva raccontato che in seguito all’incidente Eluana «saltuariamente esegue ordini semplici su comando della madre», che alle 4 del mattino del 15 ottobre 1993, «stimolata a dire la parola 'mamma' è riuscita a dirla due volte, in modo comprensibile», che «a tratti fissa e sembra contattabile», e che «considerata la giovane età della paziente e la continua evoluzione anche se lenta, si consiglia il prosieguo del trattamento riabilitativo». Lo si legge nelle cartelle cliniche riportate dalla relazione, l’ha riferito solamente Avvenire citando il documento. Forse tutto questo non significava nulla, o forse no: ma perché non ce l’hanno raccontato prima?
Sappiamo di non sapere, o di saperne ben poco. Ma a un anno di distanza ci chiediamo ancora da dove siano venute tutte quelle certezze con cui Eluana è stata accompagnata alla morte.
«Avvenire» del 12 febbraio 2010
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