26 febbraio 2010

La tristezza degli scientisti

Superbia intellettuale e malinconia per la finitezza della vita: l’ateismo applicato alla scienza, lungi dal liberare l’uomo, ne mortifica l’anelito alla conoscenza
di Carlo Cardia
Periodicamente riaffiorano an­tiche polemiche di matrice il­luminista sul rapporto tra fe­de, ragione, scienza, come è acca­duto di recente con alcune affer­mazioni di Umberto Veronesi. Per il quale la religione è di ostacolo alla ragione perché chiede di credere ciecamente, senza prove, mentre la scienza conduce alla verità e si fon­da su dati certi. A onor del vero, u­na critica così aspra alla religione ha avuto scarsa eco perché si pone in tale contrasto con la storia della scienza che pochi se la sono sentita di difenderla. La religione cristiana è all’origine del più grande sviluppo del pensiero scientifico e umanista in Europa e nel mondo, e nessuno oggi nega che con il cristianesimo si è realizzata la svolta decisiva che ha dato vita all’homo faber capace di costruire il proprio futuro. D’altron­de il più grande elogio della scienza lo si trova nella Bibbia, dove gli uo­mini sono esortati ad accettare «la mia istruzione e non l’argento, la scienza anziché l’oro fino, perché la scienza vale più delle perle e nessu­na cosa preziosa l’eguaglia» (Prv 8, 10-11), e si dice che «suo principio è il desiderio d’istruzione; la cura dell’istruzione è amore» (Sap 6, 17). A me, però, preme soffermarmi sul­la presunta funzione salvifica della scienza, quasi che in essa l’uomo raggiunga la verità e realizzi la pie­nezza del proprio essere. In questo modo si deforma la funzione del sa­pere scientifico che è strumento per ampliare le conoscenze, non il fine ultimo dell’essere, strumento do­nato agli uomini perché usino l’in­telletto per comprendere il cosmo e migliorare sé stessi.
Il sapere scientifico risponde all’a­pertura al futuro che è propria del­l’uomo, e nel divenire della storia si riempie di molte cose, la voglia di conoscere ciò che ci circonda fino agli spazi ultimi dell’universo, il de­siderio di creare strumenti di cono­scenza e di benessere, la vocazione innata ad armonizzare conoscenza e bellezza. L’uomo sa che se si fer­masse, se dicesse 'adesso conosco ogni cosa, non ho più alcuna meta da raggiungere', in quel momento perderebbe identità e libertà. Si tra­sformerebbe in un essere ripetitivo, forse tecnologicamente perfetto, ma privato della spinta che lo incorag­gia sempre oltre la meta appena rag­giunta. Anche per questo la scienza ha dei limiti intrinseci che però ser­vono per conseguire traguardi sem­pre più ambiziosi. Nella dialettica tra vocazione a sapere e limiti della conoscenza stanno la grandezza e la tensione dell’intelligenza. Anche le idee e le teorie errate che si accu­mulano nel progresso scientifico svolgono una funzione importante, se non altro perché dopo aver veri­ficato l’errore si sceglie la strada giu­sta, o si sbaglia di meno. Ma l’uomo, questo è il punto che il pensiero il­luminista non ha mai voluto af- frontare, percepisce sin dall’inizio che la sua mente aspira a qualcosa di più, a conoscere, almeno a intui­re, l’infinito e l’invisibile. Immanuel Kant pone precisi limiti alla cono­scenza umana, ma aggiunge che senza l’intuizione e la fede in Dio la vita dell’uomo perde senso, diviene piatta e statica. Ma il razionalismo scientista preferisce chiudere in un cassetto questa parte di Kant.
L’uomo avverte che le facoltà superiori aprono orizzonti che vanno oltre la materia­­lità, anche se occorrono tempo, fa­tica, affinamenti continui, per met­tere insieme pezzetti e segmenti di verità. E comprende che esiste nel­la sua coscienza un’altra dimensio­ne, non contraria al­la scienza ma più grande del sapere scientifico, capace di concepire e rea­lizzare cose imma­teriali come la bel­lezza e l’armonia, l’amore per gli altri, il sacrificio di sé. In questa dimensione interiore teologi e fi­losofi innestano la vocazione a su­perare i limiti della vita e a proiettarsi in un orizzonte il più vicino possi­bile alla verità e alla perfezione. Con la modernità la tensione feconda tra il sapere e i suoi limiti ha conosciu­to nuove lacerazioni, soprattutto quando si è trasformata la tensione in una mistura di superbia e di ma­linconia che avvolge poco alla volta il cammino del pensiero. Superbia per le capacità dell’intelletto, ma­linconia per la finitezza della vita in­dividuale che conosce spazi di ful­gore ma deperisce e lascia dietro di sé universi infiniti quasi inutili per­ché apprezzabili per pochi istanti dall’uomo. A volte superbia e ma­linconia creano un corto circuito nelle menti più sensibili che colgo­no l’assurdità di una esperienza u­mana votata al declino. Già nell’Ot­tocento, quando l’euforia per il pro­cesso scientifico vuole cancellare l’'illusione' religiosa, c’è chi ricor­da che comunque vadano le cose «la gioventù spensierata costituirà sempre solo una piccola parte del­l’umanità e l’altra parte sarà vittima della triste vecchiaia» (Eduard von Hartmann). Il corto circuito provo­ca nel pensiero europeo pessimi­smo, nichilismo, a volte autodistru­zione, e Max Stirner scopre che con l’illuminismo «l’uomo ha ucciso Dio soltanto per diventare lui stesso u­nico Dio nei cieli», senza però poter aspirare alla grandezza divina. E un dio senza divinità è come un invo­lucro pieno di vuoto. Il superamen­to di superbia e pessimismo è pos­sibile, avviene spesso all’interno del­l’esperienza religiosa, in quella cri­stiana in particolare, dove l’alterigia è cancellata dall’accettazione grata dell’atto creatore, e dei limiti della nostra umanità, la malinconia è col­mata dall’inserimento dell’essere in un progetto senza confini, aperto al­l’amore divino che propone l’espe­rienza terrena come anticipazione di un destino più alto.
N on deve stupire che il corto circuito tra superbia e pes­simismo si ripresenti perio­dicamente con una mimesi che col­pisce anche il profano, come è av­venuto di recente negli sviluppi del­la fisica e dell’astronomia. Molti ri­cordano che l’anno scorso alcuni scienziati, cercando di riprodurre le condizioni scientifiche del Big Bang (singolarità all’origine dell’univer­so), quasi annunciavano che vole­vano trovare la 'particella di Dio', un qualcosa cioè che spiegasse tut­to e permettesse la formulazione di una teoria totalizzante della realtà. I profani, cioè quasi tutti noi, igno­rano che la teoria del Big Bang è re­lativamente recente, si è affermata nel corso del Novecento, è in certa misura contestata dalle teorie quan­tistiche che, soprattutto ad opera di Stephen Hawking, avvertono che l’i­nizio dell’universo può essere qual­cosa di più sfumato dell’esplosione primordiale dal quale tutto nasce come da un punto infinitesimale. Ciò perché, ammessa anche la vali­dità parziale del Big Bang, restano aperte le ipotesi sull’unicità dell’u­niverso, sulla molteplicità e prolife­razione di universi che si interseca­no, sul destino di ciascu­no di essi, e comunque non si è ancora riusciti a costruire la 'teoria uni­ficante' ( theory of e­verything)
che spieghi o­gni cosa dell’universo. È singolare constatare che, movendo da una fede re­ligiosa forte e serena, si è più disponibili di altri ad accettare gli esiti della ri­cerca scientifica, a stu­diarli, scrutarli con stu­pore e gratificazione. In­vece, ancora oggi, si ri­propone la presunzione della scienza, come uni­ca verità per l’uomo, op­pure si alimenta l’attesa della scoperta della 'par­ticella di Dio', senza av- vertire la contraddizione insupera­bile (anche di tipo semantico) con­tenuta nell’annunciata epifania. La conoscenza piena della verità, una volta raggiunta e compressa nei li­miti della vita materiale, porrebbe fine all’ansia di andare oltre, porte­rebbe all’uomo-robot pago della ve­rità raggiunta; mentre la delusione per una verità sfuggita produrreb­be nuove lacerazioni e farebbe au­mentare la vertigine della ragione di fronte ad ipotetici sconvolgenti sce­nari (pluralità di universi, multidi­mensionalità, espansione o contra­zione del singolo universo, ecc.).
La vertigine si attenuerebbe se si in­serisse la ricerca scientifica in un o­rizzonte più vasto, riconoscendo che le acquisizioni della scienza non contrastano con va­lorizzazione delle facoltà spirituali dell’uomo, del suo universo interiore, della vocazione u­mana all’infinito. Se alcuni scienziati parlano della musi­ca dell’universo (in senso metaforico, qualcuno in senso letterale), ciò è perché l’immensità del creato è una delle fonti dello stu­pore che riempie l’uomo quando si affaccia sulla soglia dell’inesprimi­bile. Lo stupore, se bene interpreta­to, dimostra meglio di ogni altra co­sa che le aspirazioni spirituali costi­tuiscono una forza formidabile del­la coscienza che tende a Dio come al suo naturale compimento.
In questa dimensione, presun­zione, pessimismo, ricerca spa­smodica della scienza assoluta, scomparirebbero e si sentirebbe un’altra musica, quella musica che Schopenhauer definiva come lo strumento che ci parla dell’univer­so in una lingua che essa stessa non comprende. L’ascolto dell’interio­rità darebbe maggior pregio alle sco­perte scientifiche, viste come arric­chimento del nostro essere, tappe di una evoluzione dell’uomo senza confini perché egli aspira alla rea­lizzazione più grande. Superbia e pessimismo scomparirebbero d’in­canto, trasfigurati nell’attesa di un compimento pieno, mentre la scienza costituirebbe una compo­nente sempre più affinata e prezio­sa di una crescita armonica che ca­ratterizza da sempre il cammino dell’umanità.

Immanuel Kant pone precisi limiti alla conoscenza umana, ma aggiunge che senza l’intuizione e la fede in Dio la vita dell’uomo perde senso, diviene piatta e statica L’ascolto dell’interiorità darebbe maggior pregio alle scoperte scientifiche, viste come arricchimento del nostro essere, tappe di una evoluzione dell’uomo senza confini
«Avvenire» del 26 febbraio 2010

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