di Carlo Carena
Le meditazioni dell’uomo sul suo destino e sull’ignoto che si nasconde nel tempo innanzi a lui sono logicamente tra le più gravi e conturbanti per loro implicazioni esistenziali, morali e anche sociali; nessuna persona pensante vi sfugge, tanto meno i filosofi con diverse passioni e avvolti in contraddizioni da cui essi stessi non sanno districarsi. Solo un imbecille può dire: « Il medico ha salvato mia zia e le ha allungato la vita di dieci anni: macché, non ha fatto che eseguire ciò che doveva comunque accadere, mia zia doveva ammalarsi e il medico non poteva non prescrivere le medicine che l’avrebbero guarita » – argomenta Voltaire. Le varie teorie che si affrontano sono già presentate nel De fato di Cicerone, un’ardua opera perché arduo appunto è il problema e perché ci è giunta essa stessa gravemente mutila. I due estremi opposti sono incarnati negli stoici e negli epicurei. I primi affrontano titanicamente il fato inesorabile, la stessa intelligenza divina che governa tutto; gemono sotto la sua volontà con la gloria di esserne coscienti e il vanto di saperlo affrontare. Gli altri neppure si occupano del domani, che è oscuro e in grembo a Giove e la cui inutile preoccupazione ci fa perdere l’oggi: non cercar di sapere… ci consiglia l’indolente e fatalista Orazio.
Ma il problema, almeno, si trova centrato assai bene in Alessandro di Afrodisia, il famoso commentatore di Aristotele del III secolo d. C., nel suo trattato dedicato all’argomento e riportato anch’esso in traduzione in un recente volume di Aldo Magris, Trattati antichi sul destino (Morcelliana). Se tutto avviene secondo qualcosa di prefissato e di inevitabile e noi non siamo padroni di nulla bensì sempre succubi delle circostanze e costretti a fare ciò che siamo comunque costretti a subire, « tanti saluti a ciò che comporta fatica e ponderazione » : saremmo come una pietra che necessariamente cade in basso o come un cilindro che rotola su un piano inclinato; ci si abbandonerebbe con estrema facilità alle cose più piacevoli e non si farebbe mai nulla di buono, che costa fatica; faremmo anche noi come coloro che dicono, nelle parole che san Paolo riprende da Isaia: manducemus et bibamus, cras enim moriemur; ne sarebbe sovvertita l’intera esistenza umana e la convivenza civile, l’uomo sarebbe « il più maltrattato degli esseri viventi prodotti dalla natura » . Voltaire è servito in anticipo.
Il Del destino di Alessandro si presenta così come « il più ampio e articolato manifesto antedeterministico dell’antichità » , da cui esce tutelata e innalzata la dignità della persona umana.
Filosoficamente e tecnicamente serrato, condotto sulla scia aristotelica, il testo si presenta anche con profonde e vere osservazioni psicologiche più utili alla fine su questa materia di molte sottili disquisizioni e rompicapi. Conosce la fragilità del nostro pensiero. Anche su un problema così grave siamo soggetti alle oscillazioni degli umori e delle vicende, delle passioni e delle esperienze. I vari casi della vita ci rendono ottimisti o pessimisti anche nelle nostre opinioni, ci fanno pensare che siamo agenti liberi e lieti ovvero tristi vittime di una causalità inesorabile, nelle avversità accusiamo la fortuna, nei successi ci complimentiamo per la nostra bravura. Altro dobbiamo fare, è il precetto dell’antico filosofo: aderire a una dottrina che ci induce a rendere il dovuto culto agli dèi ringraziandoli per quanto abbiamo ricevuto da loro e chiedendo loro quanto sono comunque padroni di concederci o no: « Coscienti di essere responsabili di quanto accade di meglio o di peggio, ci preoccuperemo della virtù».
Ma il problema, almeno, si trova centrato assai bene in Alessandro di Afrodisia, il famoso commentatore di Aristotele del III secolo d. C., nel suo trattato dedicato all’argomento e riportato anch’esso in traduzione in un recente volume di Aldo Magris, Trattati antichi sul destino (Morcelliana). Se tutto avviene secondo qualcosa di prefissato e di inevitabile e noi non siamo padroni di nulla bensì sempre succubi delle circostanze e costretti a fare ciò che siamo comunque costretti a subire, « tanti saluti a ciò che comporta fatica e ponderazione » : saremmo come una pietra che necessariamente cade in basso o come un cilindro che rotola su un piano inclinato; ci si abbandonerebbe con estrema facilità alle cose più piacevoli e non si farebbe mai nulla di buono, che costa fatica; faremmo anche noi come coloro che dicono, nelle parole che san Paolo riprende da Isaia: manducemus et bibamus, cras enim moriemur; ne sarebbe sovvertita l’intera esistenza umana e la convivenza civile, l’uomo sarebbe « il più maltrattato degli esseri viventi prodotti dalla natura » . Voltaire è servito in anticipo.
Il Del destino di Alessandro si presenta così come « il più ampio e articolato manifesto antedeterministico dell’antichità » , da cui esce tutelata e innalzata la dignità della persona umana.
Filosoficamente e tecnicamente serrato, condotto sulla scia aristotelica, il testo si presenta anche con profonde e vere osservazioni psicologiche più utili alla fine su questa materia di molte sottili disquisizioni e rompicapi. Conosce la fragilità del nostro pensiero. Anche su un problema così grave siamo soggetti alle oscillazioni degli umori e delle vicende, delle passioni e delle esperienze. I vari casi della vita ci rendono ottimisti o pessimisti anche nelle nostre opinioni, ci fanno pensare che siamo agenti liberi e lieti ovvero tristi vittime di una causalità inesorabile, nelle avversità accusiamo la fortuna, nei successi ci complimentiamo per la nostra bravura. Altro dobbiamo fare, è il precetto dell’antico filosofo: aderire a una dottrina che ci induce a rendere il dovuto culto agli dèi ringraziandoli per quanto abbiamo ricevuto da loro e chiedendo loro quanto sono comunque padroni di concederci o no: « Coscienti di essere responsabili di quanto accade di meglio o di peggio, ci preoccuperemo della virtù».
«Avvenire» del 28 febbraio 2010
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