28 febbraio 2010

Dagli epicurei a Voltaire: l'inutile sforzo della virtù

di Carlo Carena
Le meditazioni dell’uomo sul suo destino e sull’ignoto che si nasconde nel tempo innanzi a lui sono logicamente tra le più gravi e conturbanti per loro implicazioni esistenziali, morali e anche sociali; nessuna persona pensante vi sfugge, tanto meno i filosofi con diverse passioni e avvolti in contraddizioni da cui essi stessi non sanno districarsi. Solo un imbecille può dire: « Il medico ha salvato mia zia e le ha allungato la vita di dieci anni: macché, non ha fatto che eseguire ciò che doveva comunque accadere, mia zia doveva ammalarsi e il medico non poteva non prescrivere le medicine che l’avrebbero guarita » – argomenta Voltaire. Le varie teorie che si affrontano sono già presentate nel De fato di Cicerone, un’ardua opera perché arduo appunto è il problema e perché ci è giunta essa stessa gravemente mutila. I due estremi opposti sono incarnati negli stoici e negli epicurei. I primi affrontano titanicamente il fato inesorabile, la stessa intelligenza divina che governa tutto; gemono sotto la sua volontà con la gloria di esserne coscienti e il vanto di saperlo affrontare. Gli altri neppure si occupano del domani, che è oscuro e in grembo a Giove e la cui inutile preoccupazione ci fa perdere l’oggi: non cercar di sapere… ci consiglia l’indolente e fatalista Orazio.
Ma il problema, almeno, si trova centrato assai bene in Alessandro di Afrodisia, il famoso commentatore di Aristotele del III secolo d. C., nel suo trattato dedicato all’argomento e riportato anch’esso in traduzione in un recente volume di Aldo Magris, Trattati antichi sul destino (Morcelliana). Se tutto avviene secondo qualcosa di prefissato e di inevitabile e noi non siamo padroni di nulla bensì sempre succubi delle circostanze e costretti a fare ciò che siamo comunque costretti a subire, « tanti saluti a ciò che comporta fatica e ponderazione » : saremmo come una pietra che necessariamente cade in basso o come un cilindro che rotola su un piano inclinato; ci si abbandonerebbe con estrema facilità alle cose più piacevoli e non si farebbe mai nulla di buono, che costa fatica; faremmo anche noi come coloro che dicono, nelle parole che san Paolo riprende da Isaia: manducemus et bibamus, cras enim moriemur; ne sarebbe sovvertita l’intera esistenza umana e la convivenza civile, l’uomo sarebbe « il più maltrattato degli esseri viventi prodotti dalla natura » . Voltaire è servito in anticipo.
Il Del destino di Alessandro si presenta così come « il più ampio e articolato manifesto antedeterministico dell’antichità » , da cui esce tutelata e innalzata la dignità della persona umana.
Filosoficamente e tecnicamente serrato, condotto sulla scia aristotelica, il testo si presenta anche con profonde e vere osservazioni psicologiche più utili alla fine su questa materia di molte sottili disquisizioni e rompicapi. Conosce la fragilità del nostro pensiero. Anche su un problema così grave siamo soggetti alle oscillazioni degli umori e delle vicende, delle passioni e delle esperienze. I vari casi della vita ci rendono ottimisti o pessimisti anche nelle nostre opinioni, ci fanno pensare che siamo agenti liberi e lieti ovvero tristi vittime di una causalità inesorabile, nelle avversità accusiamo la fortuna, nei successi ci complimentiamo per la nostra bravura. Altro dobbiamo fare, è il precetto dell’antico filosofo: aderire a una dottrina che ci induce a rendere il dovuto culto agli dèi ringraziandoli per quanto abbiamo ricevuto da loro e chiedendo loro quanto sono comunque padroni di concederci o no: « Coscienti di essere responsabili di quanto accade di meglio o di peggio, ci preoccuperemo della virtù».
«Avvenire» del 28 febbraio 2010

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