di Carlo Lottieri
Le polemiche di questi giorni intorno all’ipotesi di una Protezione civile Spa hanno mostrato una volta di più quanto sia forte l’ostilità verso la proprietà privata. Benché già i filosofi greci sottolineassero l’importanza di tale istituzione - lo faceva Aristotele nella Politica, ma sulla stessa lunghezza d’onda era il Platone delle Leggi - c’è chi continua a demonizzarla per partito preso. Soprattutto è convinzione comune che una serie di ambiti dovrebbero restare statali, poiché per loro natura sfuggirebbero alle logiche di mercato.
Gli economisti parlano di «beni pubblici» a indicare quei servizi che non sarebbero prodotti (o in quantità insufficiente) senza un’azione coercitiva. I filosofi politici, da parte loro, sostengono invece che l’intervento pubblico sarebbe giustificato da argomenti solidaristici oppure egualitari. Alla fine, le due prospettive convergono nella tesi che non vi potrebbero essere istruzione per i più poveri, sicurezza dai criminali, tutela dell’ambiente o cure mediche per tutti se lo Stato non sottraesse con la forza una gran quantità di risorse a coloro che producono.
Le cose non stanno così, come possono scoprire i lettori de La città volontaria, un volume curato da David T. Beito, Peter Gordon e Alexander Tabarrok ora disponibile anche in lingua italiana (promosso dall’Istituto Bruno Leoni, il testo è pubblicato dalle edizioni Leonardo Facco e Rubbettino, pagg. 412, euro 16). Si tratta di un lavoro notevole, che è apparso in inglese nel 2002 e in cui sono raccolti studi di storici ed economisti i quali hanno cercato - nel passato e nel presente - concrete esperienze e specifiche iniziative che mostrino come le forze del privato si siano sostituite a più riprese alla mano pubblica. Gli autori lasciano parlare i fatti, e questi ultimi ci dicono che non vi è un solo settore oggi controllato dallo Stato in cui, in un qualche momento, non si sia assistito a un fiorire di iniziative spontanee, aventi per protagonisti imprese private.
Nel capitolo sull’espansione edilizia nell’Inghilterra della Rivoluzione industriale, Stephen Davies mostra ad esempio come la costruzione di fabbriche e abitazioni per gli operai non abbia avuto luogo entro il quadro di una pianificazione urbanistica, ma per iniziativa di imprenditori che vincolavano l’utilizzo del terreno e delle costruzioni usando strumenti di diritto privato: al fine di valorizzare i loro beni. Anche in assenza di piani regolatori si è quindi assistito all’emergere di quartieri minuziosamente regolati, in cui tutta una serie di attività erano vietate e questo perché era il mercato stesso a chiedere simili soluzioni. D’altra parte, ben pochi avrebbero acquistato in assenza di garanzie: che si trattasse del diritto di accesso all’abitazione o della certezza che nessuno avrebbe costruito, a fianco, un palazzo altissimo e tale da togliere la luce.
Ma l’urbanistica privata è solo un esempio. Bruce L. Benson esamina il ruolo fondamentale svolto nello sviluppo occidentale dal diritto elaborato dai mercanti al fine di gestire i loro affari (la lex mercatoria), mentre David Beito si sofferma sulle società di mutuo soccorso del diciannovesimo secolo per evidenziare come quel tipo di istituzione fosse efficace nella previdenza e nell’assistenza. Questo universo, è il caso di sottolinearlo, scomparirà a causa dell’intervento pubblico: «il mutuo soccorso, nella storia, era stato una creatura della necessità. Il governo, sottraendo le responsabilità della società, che erano una volta il motivo delle istituzioni volontarie, ha indebolito molta di questa necessità».
Anche oggi potrebbero svilupparsi agenzie private di ogni tipo volte a soddisfare le esigenze fondamentali, ma è chiaro che questo non può piacere a chi detiene il potere. Al riguardo David Green sottolinea che il National Insurance Act, che introdusse nel Regno Unito l’assicurazione sociale obbligatoria per 12 milioni di persone, sia stato promulgato quando «le associazioni volontarie di carattere assicurativo registrate e non registrate - principalmente le società di mutuo soccorso - coprivano già almeno 9 milioni di individui». È chiaro che l’obiettivo non era quello di estendere la copertura anche a quei tre milioni, ma semmai di porre sotto il controllo pubblico l’intero settore.
L’analisi storica mostra che gli uomini sono in grado di cooperare e spesso sanno anche essere generosi. Per giunta, essa obbliga a constatare che il Welfare State è stato ed è tuttora «bismarckiano» pure al di fuori del mondo tedesco. Nella sua Introduzione, il grande storico Paul Johnson sottolinea che «di solito quello che lo Stato può fare, lo farà, a meno che non trovi la ferma opposizione di interessi potenti» che glielo impediscono. Il che è un altro modo per dire che sono semplici logiche di egemonia, e non esigenze di efficienza o preoccupazioni di solidarietà, a favorire l’espansione dello Stato.
Se oggi per proteggerci, salvaguardare l’aria, prenderci cura dei più deboli o educare i bambini ricorriamo costantemente ai poteri pubblici (con risultati assai modesti), questo si deve a talune scelte ben precise compiute dai governanti soprattutto nel corso dell’ultimo secolo. Ma quella strategia ha avuto successo, perché quasi non sappiamo vedere alternative al potere e alla legge. Nelle parole di Vito Tanzi, che ha prefato l’edizione italiana, da tempo viviamo «in un mondo in cui il ruolo dello Stato è così preponderante che abbiamo finito con il convincerci che l’esorbitante ruolo dello Stato sia del tutto naturale».
Benché analizzi essenzialmente esperienze tratte dalla storia anglosassone, in qualche occasione il volume allarga l'orizzonte. James Tooley, in particolare, si sofferma sul vasto arcipelago delle scuole private dell’India contemporanea dove, di fronte alla bassa qualità degli istituti di Stato, sono ormai moltissime le famiglie indiane di misere condizioni che accettano di fare sacrifici per dare una buona istruzione ai ragazzi e che per questo motivo scelgono il privato. Lo stesso succede in Costa d’Avorio e in Argentina, dove «il 30 e il 57 per cento rispettivamente degli iscritti della scuola secondaria sono nel settore privato».
Uno dei fenomeni più affascinanti emerge dal saggio di Robert Nelson, che descrive lo sviluppo di quei quartieri privati (in qualche caso si tratta di intere città) che vanno sviluppandosi soprattutto negli Stati Uniti. Si tratta di condomini sui generis, poiché invece che di occuparsi soltanto dei giardini comuni o del riscaldamento, queste istituzioni contrattuali offrono scuole, poliziotti, servizi anti-incendio, piscine e centri ricreativi. L’idea è che nel momento in cui si acquista un appartamento si accetti, al tempo stesso, di entrare in una «comunità volontaria» che gestisce una serie di servizi usualmente demandati al potere statale.
È appunto, come recita il titolo, l’idea di una «città volontaria», in cui le logiche del privato possano espandersi nel migliore dei modi. Tutt’altro che un’utopia, poiché già ne conosciamo molte anticipazioni. Bisogna soltanto lasciare che crescano e si sviluppino.
Gli economisti parlano di «beni pubblici» a indicare quei servizi che non sarebbero prodotti (o in quantità insufficiente) senza un’azione coercitiva. I filosofi politici, da parte loro, sostengono invece che l’intervento pubblico sarebbe giustificato da argomenti solidaristici oppure egualitari. Alla fine, le due prospettive convergono nella tesi che non vi potrebbero essere istruzione per i più poveri, sicurezza dai criminali, tutela dell’ambiente o cure mediche per tutti se lo Stato non sottraesse con la forza una gran quantità di risorse a coloro che producono.
Le cose non stanno così, come possono scoprire i lettori de La città volontaria, un volume curato da David T. Beito, Peter Gordon e Alexander Tabarrok ora disponibile anche in lingua italiana (promosso dall’Istituto Bruno Leoni, il testo è pubblicato dalle edizioni Leonardo Facco e Rubbettino, pagg. 412, euro 16). Si tratta di un lavoro notevole, che è apparso in inglese nel 2002 e in cui sono raccolti studi di storici ed economisti i quali hanno cercato - nel passato e nel presente - concrete esperienze e specifiche iniziative che mostrino come le forze del privato si siano sostituite a più riprese alla mano pubblica. Gli autori lasciano parlare i fatti, e questi ultimi ci dicono che non vi è un solo settore oggi controllato dallo Stato in cui, in un qualche momento, non si sia assistito a un fiorire di iniziative spontanee, aventi per protagonisti imprese private.
Nel capitolo sull’espansione edilizia nell’Inghilterra della Rivoluzione industriale, Stephen Davies mostra ad esempio come la costruzione di fabbriche e abitazioni per gli operai non abbia avuto luogo entro il quadro di una pianificazione urbanistica, ma per iniziativa di imprenditori che vincolavano l’utilizzo del terreno e delle costruzioni usando strumenti di diritto privato: al fine di valorizzare i loro beni. Anche in assenza di piani regolatori si è quindi assistito all’emergere di quartieri minuziosamente regolati, in cui tutta una serie di attività erano vietate e questo perché era il mercato stesso a chiedere simili soluzioni. D’altra parte, ben pochi avrebbero acquistato in assenza di garanzie: che si trattasse del diritto di accesso all’abitazione o della certezza che nessuno avrebbe costruito, a fianco, un palazzo altissimo e tale da togliere la luce.
Ma l’urbanistica privata è solo un esempio. Bruce L. Benson esamina il ruolo fondamentale svolto nello sviluppo occidentale dal diritto elaborato dai mercanti al fine di gestire i loro affari (la lex mercatoria), mentre David Beito si sofferma sulle società di mutuo soccorso del diciannovesimo secolo per evidenziare come quel tipo di istituzione fosse efficace nella previdenza e nell’assistenza. Questo universo, è il caso di sottolinearlo, scomparirà a causa dell’intervento pubblico: «il mutuo soccorso, nella storia, era stato una creatura della necessità. Il governo, sottraendo le responsabilità della società, che erano una volta il motivo delle istituzioni volontarie, ha indebolito molta di questa necessità».
Anche oggi potrebbero svilupparsi agenzie private di ogni tipo volte a soddisfare le esigenze fondamentali, ma è chiaro che questo non può piacere a chi detiene il potere. Al riguardo David Green sottolinea che il National Insurance Act, che introdusse nel Regno Unito l’assicurazione sociale obbligatoria per 12 milioni di persone, sia stato promulgato quando «le associazioni volontarie di carattere assicurativo registrate e non registrate - principalmente le società di mutuo soccorso - coprivano già almeno 9 milioni di individui». È chiaro che l’obiettivo non era quello di estendere la copertura anche a quei tre milioni, ma semmai di porre sotto il controllo pubblico l’intero settore.
L’analisi storica mostra che gli uomini sono in grado di cooperare e spesso sanno anche essere generosi. Per giunta, essa obbliga a constatare che il Welfare State è stato ed è tuttora «bismarckiano» pure al di fuori del mondo tedesco. Nella sua Introduzione, il grande storico Paul Johnson sottolinea che «di solito quello che lo Stato può fare, lo farà, a meno che non trovi la ferma opposizione di interessi potenti» che glielo impediscono. Il che è un altro modo per dire che sono semplici logiche di egemonia, e non esigenze di efficienza o preoccupazioni di solidarietà, a favorire l’espansione dello Stato.
Se oggi per proteggerci, salvaguardare l’aria, prenderci cura dei più deboli o educare i bambini ricorriamo costantemente ai poteri pubblici (con risultati assai modesti), questo si deve a talune scelte ben precise compiute dai governanti soprattutto nel corso dell’ultimo secolo. Ma quella strategia ha avuto successo, perché quasi non sappiamo vedere alternative al potere e alla legge. Nelle parole di Vito Tanzi, che ha prefato l’edizione italiana, da tempo viviamo «in un mondo in cui il ruolo dello Stato è così preponderante che abbiamo finito con il convincerci che l’esorbitante ruolo dello Stato sia del tutto naturale».
Benché analizzi essenzialmente esperienze tratte dalla storia anglosassone, in qualche occasione il volume allarga l'orizzonte. James Tooley, in particolare, si sofferma sul vasto arcipelago delle scuole private dell’India contemporanea dove, di fronte alla bassa qualità degli istituti di Stato, sono ormai moltissime le famiglie indiane di misere condizioni che accettano di fare sacrifici per dare una buona istruzione ai ragazzi e che per questo motivo scelgono il privato. Lo stesso succede in Costa d’Avorio e in Argentina, dove «il 30 e il 57 per cento rispettivamente degli iscritti della scuola secondaria sono nel settore privato».
Uno dei fenomeni più affascinanti emerge dal saggio di Robert Nelson, che descrive lo sviluppo di quei quartieri privati (in qualche caso si tratta di intere città) che vanno sviluppandosi soprattutto negli Stati Uniti. Si tratta di condomini sui generis, poiché invece che di occuparsi soltanto dei giardini comuni o del riscaldamento, queste istituzioni contrattuali offrono scuole, poliziotti, servizi anti-incendio, piscine e centri ricreativi. L’idea è che nel momento in cui si acquista un appartamento si accetti, al tempo stesso, di entrare in una «comunità volontaria» che gestisce una serie di servizi usualmente demandati al potere statale.
È appunto, come recita il titolo, l’idea di una «città volontaria», in cui le logiche del privato possano espandersi nel migliore dei modi. Tutt’altro che un’utopia, poiché già ne conosciamo molte anticipazioni. Bisogna soltanto lasciare che crescano e si sviluppino.
«Il Giornale» del 20 febbraio 2010
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