22 febbraio 2010

L'adolescenza raccontata dal prof

Alessandro D’avenia voleva scrivere un romanzo sui giovani d'oggi. Ora il suo libro è diventato un caso. Per via di una storia (vera e molto dolorosa) a cui non ha voluto rinunciare
di Simona Coppa
Un romanzo che racconta gli adolescenti con le parole, la testa e le emozioni di un 16enne: voi come ve lo immaginate? Sballi in discoteca, tensioni in famiglia, bullismo a scuola... dopotutto è questa la fotografia che, ogni giorno, ci scivola dentro casa (e che speriamo non prenda mai le sembianze dei nostri figli). Perciò, mi sono detta: sarà l’ennesimo diario fitto di mancanze, di vuoti, che tristezza. Invece no. Bianca come il latte rossa come il sangue (Mondadori), opera prima di Alessandro D’Avenia, 32 anni, insegnante di Lettere al liceo, parla di Leo che ha 16 anni e sa ragionare con il cervello e con il cuore. È generoso, sensibile e (udite, udite) vuole bene ai suoi genitori e lo scrive pure. Leo non è un nuovo Leopardi (isolato, diverso, incompreso e un po’ sfigato): fa il gradasso in motorino e vive cablato al suo iPod, come tutti i suoi coetanei. Il punto è un altro: in questo romanzo viene fuori che la famiglia è ancora un riparo sicuro, che la scuola funziona e che gli adolescenti non sono né mostri né bamboccioni. «La realtà è anche questa, ma siccome le buone notizie non fanno notizia, si dà spazio solo a quelle brutte», sostiene l’autore. Mi viene una gran voglia di credergli e di lasciare una copia del libro sul tavolo del salotto, casomai a mia figlia venisse voglia di leggerlo...
Con questo spirito, mi preparavo a intervistare D’Avenia, quando intorno a lui è scoppiata una polemica che poi è proseguita per giorni sui quotidiani. Riguarda un personaggio del romanzo, Beatrice (l’amore di Leo), malata di leucemia: D’Avenia si è ispirato a una storia vera e la mamma della ragazza (scomparsa all’età di 15 anni) si è risentita pubblicamente.
Non possiamo che partire da qui.
«Facevo il supplente in un liceo di Roma, quando uno studente mi parlò della compagna di scuola che l’anno precedente si era ammalata. Non sapevo neanche il suo nome (Irene, ndr), ma la storia mi commosse profondamente».
I suoi alunni come hanno reagito alla polemica?
«Un ragazzo di prima mi ha accolto in classe dicendo: “Professore, la difendiamo noi!”. Si sentono molto coinvolti, hanno partecipato materialmente alla stesura, quando il libro non era che una risma di fogli stropicciati».
E lei? Qual è stata la sua reazione?
«Ai ragazzi ripeto spesso che il mio compito è farli uscire dal liceo con un amore sconfinato per la bellezza e la verità. In questa occasione, mi hanno visto in difficoltà proprio su questo punto: la sincerità. Ma ho la coscienza a posto, quindi, ho detto loro: “Andiamo fino in fondo, cercando la verità e tutto andrà bene”. Poi, ho fatto lezione».
C’era proprio bisogno di un dramma così, per raccontare la vita di un adolescente?
«Il dramma di Beatrice segna l’ingresso del dolore nella vita. Nella mia e in quella dei ragazzi».
Non è detto che, a 16 anni, si sia già vissuto un lutto...
«La settimana scorsa, nella scuola di Milano dove insegno, abbiamo celebrato il funerale di un alunno...».
Forse è un dolore che tocca più lei, Alessandro, che Leo...
«Forse. Se si presta attenzione ai ringraziamenti del libro, l’unica persona aggiunta ai miei familiari ha a che fare con questa sofferenza».
(Ammutolisce e mi guarda come per chiedermi: cambiamo argomento?).
I genitori di Leo sono sempre attenti a cogliere l’umore del figlio: rispettano i suoi silenzi, ma sono pronti ad ascoltarlo quando lui sente il bisogno di sfogarsi. Sono quasi perfetti...
«Io vedo i padri e le madri che vengono ai colloqui con i professori e mi sembrano più partecipi e più coinvolti nella vita dei figli di quanto si pensi».
Ma i suoi studenti sono soddisfatti dei loro genitori?
«Bella domanda... Temono di prendere un brutto voto perché poi, a casa, “chissà cosa mi aspetta”. Pensano che il risultato scolastico sia tutt’uno con la loro persona: “Ho sbagliato il compito in classe, i miei penseranno che sono io sbagliato”. Questo è, più o meno, il loro ragionamento. Confondono l’azione con la persona».
Il padre di Leo, però, usa le parole giuste al momento giusto, sa essere severo, ma riconosce la libertà del figlio di commettere degli errori. Gli insegna persino il nome delle costellazioni e a sognare guardando le stelle. Piuttosto raro, non trova?
«Mio papà è così. Forse anche per questo motivo mi stava a cuore raccontare la figura paterna. Comunque, ce ne sono più di quanti si creda: tutti i genitori amano i propri figli, non tutti sono capaci di farli sentire amati. Anche se ci vuole poco».
Parla da figlio o da aspirante padre?
«Parlo da professore che sta con gli adolescenti: si vedono brutti, sgraziati, insignificanti, ma basta una parola, un complimento, uno sguardo per farli sentire bene. E amati».
Dica la verità, le sue allieve sono tutte innamorate di lei…
«Diciamo che si danno un gran da fare per sistemarmi. Organizzano comitati per trovarmi un buon partito: una “prof”, naturalmente».
Ha tagliato qualcosa del romanzo solo perché ai suoi alunni non piaceva?
«Sì. Ho sistemato alcuni passaggi in cui si sentiva che la voce di Leo era la mia. E ho eliminato tutta una tirata un po’ moralistica a proposito di Alice, la ragazza con cui si mette Vito, il migliore amico di Leo. Avevo scritto qualcosa tipo: “È una facile, una di quelle che te la danno subito”
Però queste cose gli adolescenti le dicono...
«Certo. Ma le ragazze si sono ribellate: il giudizio è superficiale e la battuta suona maschilista. Avevano ragione».
«Grazia Magazine» del 15 Febbraio 2010

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