Roma multietnica meglio di Atene
di Eva Cantarella
Roma, 40 d.C.: l'imperatore Claudio propone di concedere ad alcuni Galli la possibilità di essere magistrati o senatori. L'opposizione insorge: «Roma non ha bisogno di stranieri per ricoprire cariche di governo». Ma alla fine la proposta viene accettata. Nel racconto di Tacito, dopo il seguente discorso: «A quale ragione si deve la rovina degli ateniesi e degli spartani se non alla loro ostinazione nel non accogliere gli stranieri? Romolo invece fu così saggio da saper trattare nello stesso giorno gli stessi popoli da nemici e da cittadini. Su di noi hanno regnato degli stranieri, i figli dei nostri ex schiavi possono diventare magistrati. La storia di Roma ne ha dato molti esempi...». Non è questo, ovviamente, il momento di discutere quale fu la causa della rovina dei greci, ma certamente il loro rapporto con gli altri è stato diverso da quello dei romani. A dimostrarlo, in primo luogo, stanno i miti di fondazione delle loro città: quei miti, vale a dire, attraverso i quali le città si raccontavano, dandosi un' identità e definendosi, appunto, nel loro rapporto con gli altri. Gli ateniesi, secondo il mito, erano nati dal suolo patrio, fecondato dal seme di Efesto, finito per terra dopo un vano tentativo del dio di possedere la vergine Atena. Erano autoctoni dunque, gli ateniesi, e tali volevano restare: non volevano essere «contaminati» da altri popoli. Non solo nel mito, anche nella realtà. A darne una prova sta la loro politica verso gli stranieri che risiedevano stabilmente nella città: i famosi «meteci» (da metoikein, vivere insieme). Difficile dire quanti fossero. Secondo il censimento voluto da Demetrio Falereo, tra il 317 e il 307 a.C. erano circa la metà dei cittadini. E la loro presenza, trattandosi prevalentemente di commercianti, era una risorsa fondamentale per l'economia ateniese. Ma Atene non concesse loro diritto di cittadinanza. Si limitò ad accoglierli, a condizione che entro un mese dall' arrivo si registrassero nelle apposite liste. Se non lo facevano potevano subire la confisca dei beni ed essere venduti come schiavi: sanzioni forti, capaci di garantire che non ci fossero molti sans papier. Chi si registrava, invece, acquistava il diritto di residenza, a condizione che un cittadino garantisse per lui, e diventava un contribuente, pagando una speciale tassa (il metoikion). Ma non poteva possedere terre né immobili; non poteva sposare un'ateniese; la sua uccisione era punita meno di quella di un ateniese e in giudizio poteva testimoniare solo sotto tortura (come gli schiavi). Una scelta chiara, molto diversa da quella dei romani, il cui carattere etnicamente composito era celebrato dal mito di fondazione, che riconduceva la nascita della città al matrimonio tra l'eroe troiano Enea e Lavinia, figlia del re Latino. In Romolo, che da quell'unione discendeva, scorreva dunque sangue laziale e sangue troiano. La leggenda raccontava inoltre che per popolare la città egli aveva aperto un asilum nel quale aveva offerto rifugio a tutti gli stranieri che chiedevano ospitalità e protezione, e che le prime mogli dei romani erano Sabine (inutile ricordare il celebre ratto), come il re Tito Tazio. Il mito di Roma, insomma, racconta una città nella quale si aveva da sempre commistione e integrazione di stirpi, e in cui all'apertura etnica si accompagnava l'apertura sociale: gli schiavi liberati, che ad Atene diventano meteci, con la libertà acquistavano anche la cittadinanza romana. Il dato etnico era meno importante di quello politico. Come scrive Polibio, i romani erano più pronti di ogni altro popolo ad adottare costumi stranieri, se migliori dei loro. Simmaco ricorda che avevano adottato le armi dei Sanniti, le insegne degli Etruschi e le leggi dei legislatori greci, Licurgo e Solone. Ma la prova migliore della loro apertura viene dalla politica della cittadinanza in età imperiale. Prima che Caracalla, nel 212 d.C., concedesse la cittadinanza a tutti, nel 198 d.C. divenne imperatore, con il nome di Settimio Severo, un semita di Leptis Magna, che parlava con forte accento punico. E dopo il 212 erano romani tutti gli abitanti dello sterminato impero. Non è inutile, oggi, ricordare i miti che parlano della commistione e della integrazione dei popoli come di una ricchezza, e pensare che vi sono stati momenti in cui così è stato. Sarebbe bello che oggi uno straniero potesse dire, del Paese che lo ha accolto, quel che disse di Roma, nel IV secolo d.C., il poeta Rutilio Namaziano. Costretto a tornare nella Gallia, dove era nato, devastata dall' invasione dei Vandali, Rutilio (nella traduzione di Giosuè Carducci) salutò Roma con queste parole: «Desti una patria ai popoli dispersi in cento luoghi /... del tuo diritto ai sudditi mentre il consorzio appresti / di tutto il mondo una città facesti».
Il Convegno : Terza identità, da Obama a Rosarno. La sfida delle grandi migrazioni
Anticipiamo qui sopra l'intervento di Eva Cantarella al convegno che si svolge oggi a Firenze sulla «Terza identità. Da Obama a Rosarno fino al Vangelo secondo Luca» (Palazzo Medici Riccardi, ore 9.30 la sessione del mattino e 15.30 quella del pomeriggio). Sul tema delle migrazioni come fenomeno fondante delle civiltà, sui processi di globalizzazione e sulle politiche migratorie, si confrontano tra gli altri Luigi Luca Cavalli Sforza, Enrico Chiavacci, Massimo Livi Bacci, Enrico Deaglio. Il convegno è organizzato dalla Provincia di Firenze e dal Gabinetto Vieusseux.
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«Corriere della Sera» del 19 febbraio 2010
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