Un dilemma comune e crudele
di Tommaso Pincio
Perché milioni di ragazze del terzo millennio si struggono per amori vampireschi? Cosa le spinge a fantasticare su uomini che reprimono a stento l'impulso di ucciderle? Alcuni quesiti seminati nella Filosofia di Twilight, dedicata alla saga di Stephanie Meyer, la cui protagonista preferisce, per nulla banalmente, salvarsi le tette piuttosto che il cuore. Un modo tra tanti di dire no alla vita
Può bastare una sola battuta per giustificare la visione di un filmaccio qualunque. Nel finale del recente Il corpo di Jennifer, commedia horror per educande in calore, un'abbagliante Megan Fox - mangiatrice di uomini nel senso più stretto del termine - è distesa sanguinante sul letto. I suoi occhi sono attraversati da un attimo di vuoto sgomento: un taglierino le ha appena perforato il petto statuario. Non ha il coraggio di guardare dove sia stata effettivamente colpita, così fissa il volto della migliore amica, seduta a cavalcioni sopra di lei, e le domanda: «La tetta?» L'amica, autrice dell'inconcepibile sfregio, la corregge all'istante: «No, il cuore!»
Nell'economia della trama non è affatto insensato che Megan, o per meglio dire il personaggio di Jennifer da lei interpretato, tenga più all'integrità di un seno ben modellato che al cuore. Jennifer è una ragazza di provincia del Minnesota, il classico tipo della cheerleader che ha ben poco da offrire a parte le apparenze. Il bisogno smodato di essere sempre ammirata e desiderata la conduce nelle grinfie di una banda di rockettari, i quali la sacrificano a Satana convinti che sia un sistema infallibile per conquistare la fama. Il guaio è che i giovinastri sono anche convinti che Jennifer dica il vero quando asserisce di essere ancora vergine. Il rito sortisce allora effetti inaspettati: la ragazza si trasforma in un mostro, non si sa bene se zombie o licantropo, che rinnova il proprio vigore fisico cibandosi di uomini. Ovvia la conclusione: tanto più Jennifer diventa sventola tanto più la sua anima va a farsi friggere.
Il corpo del vampiro
La battuta della tetta contiene però una serie di sottotesti che vanno al di là della trama. Allude, per esempio, al presunto ritocco mastoplastico dell'attrice e, più in generale, ironizza sul principio, sempre più in voga, per cui: meglio essere stupide o morte che brutte. Va detto che Megan Fox non è affatto una sciocca, e il film di cui è protagonista è meno spazzatura di quel che si potrebbe pensare. Non per niente è stato un mezzo disastro al botteghino, nonostante il plauso di alcune femministe dell'ultima ora. Ed è proprio qui che si compie un interessante miracolo. Alla maniera di gran parte delle pellicole horror americane, Il corpo di Jennifer esalta una morale tipica della cultura di massa che vede le ragazze puntualmente punite per i loro comportamenti disinibiti, peraltro istigati da una società che le valuta soprattutto in quell'ottica. Il dubbio è d'obbligo: cosa può mai esserci di femminista in un film in cui una donna viene dannata solo perché ha osato fare sesso?
È più o meno lo stesso quesito che si pone Bonnie Mann nel suo contributo alla raccolta di saggi su uno dei fenomeni del momento, La filosofia di Twilight (Fazi Editore, a cura di Rebecca Housel e J. Jeremy Wisnewski, pp. 294, euro 16). Perché milioni di ragazze si struggono per gli amori vampireschi? Cosa le spinge, nel terzo millennio, a fantasticare su uomini che reprimono a stento l'impulso di ucciderle? Immergersi nelle pagine della saga di Stephenie Meyer significa fare un salto indietro nel tempo di almeno un paio di secoli. E non tanto per le atmosfere gotiche, quanto per l'ideale di donna che vi viene proposto. Bella, la protagonista, non ha alcunché di speciale, eccetto una spiccata inclinazione al sacrifico e la dote di attirare l'attenzione dei ragazzi; tratto saliente, quest'ultimo, anche del personaggio di Megan Fox. «Non ha particolari interessi o talenti; è incapace in ogni attività. È un esempio di inettitudine e insicurezza femminile esageratamente stereotipato».
Le sue uniche abilità, guarda caso, sono cucinare e fare il bucato, attività cui si dedica per suo padre senza lamentarsi. Per contro, il vampiro Edward «è la grandiosità mascolina scritta a lettere cubitali». Ha avuto a disposizione cento anni per raffinarsi e diventare un pozzo di scienza: ha girato il mondo, parla varie lingue, legge nel pensiero della gente. L'età veneranda non ne fa però un vecchio decrepito; dispone anzi di un corpo marmoreo da adolescente ed è abbastanza forte da spezzare alberi come fossero grissini. Sarebbe un uomo perfetto, non fosse torturato dal desiderio di mordere Bella sul collo. In questo gioco delle parti da retrogrado mondo antico, è fatale che Bella si definisca «una luna solitaria», un minuscolo satellite che non può far altro che ruotare attorno l'oscuro astro del suo violentatore.
Il successo di Twilight ha spinto Bonnie Mann a recuperare un testo fondante del pensiero femminista, Il secondo sesso, dove Simone De Beauvoir rilevava che una ragazza impara fin dall'infanzia una dura lezione: «il mondo si definisce senza di lei». Il suo futuro dipenderà dal piacere di un uomo, giacché essere donne significa mostrarsi «debole, futile, docile». La femminilità è pertanto una «rinuncia all'autonomia», per l'appunto la vocazione di Bella a diventare un satellite dell'amato vampiro. Ma da quando De Beauvoir delineava la sua cruda analisi ne è passata di acqua sotto i ponti. Le ragazze di oggi sono in tutto e per tutto emancipate, costituiscono la maggioranza del corpo studentesco delle università e ottengono voti migliori dei colleghi maschi. Possibile si identifichino ancora in fanciulle dalla zucca vuota la cui massima aspirazione è sacrificarsi sull'altare dell'uomo. Il fatto è che le giovani seguitano a essere bombardate da «messaggi intricati» riconducibili a due filosofie spicciole e contrastanti. «Da una parte, il concetto che l'amore vince ogni cosa è dovunque: è presentato come l'unica chance di salvezza, per una ragazza. Dall'altra, c'è il concetto che l'amore fa soffrire e che non possono aspettarsi troppo dagli uomini, che dopotutto vengono da Marte, non da Venere». Il minimo che può sortire da un simile pasticcio è il conflitto magnificamente sintetizzato da Megan Fox. Meglio badare al cuore o alle tette? Scavare nelle profondità del problema porterebbe però alle solite geremiadi sulla conseguenza nefaste della società dei consumi. Conseguenze innegabili, per carità, ma fin troppo note e sviscerate. Proviamo allora a spostare la faccenda su un piano più astratto, più filosofico, e domandiamoci se, per assurdo e per gioco, è possibile intendere il dilemma di Megan Fox come una condizione umana di carattere universale. In un certo senso, su un piano esistenziale, l'essere umano nel suo complesso, maschio o femmina che sia, è donna. Lo è perché di fronte alla complessità del mondo e ai capricci del destino l'uomo si rivela spesso debole e futile come il secondo sesso di Simone De Beauvoir. Forse gli difetta il tratto della docilità, giacché gli capita di ribellarsi, ma la sua finitezza lo costringe comunque ad arrendersi, seppure controvoglia.
Nell'economia della trama non è affatto insensato che Megan, o per meglio dire il personaggio di Jennifer da lei interpretato, tenga più all'integrità di un seno ben modellato che al cuore. Jennifer è una ragazza di provincia del Minnesota, il classico tipo della cheerleader che ha ben poco da offrire a parte le apparenze. Il bisogno smodato di essere sempre ammirata e desiderata la conduce nelle grinfie di una banda di rockettari, i quali la sacrificano a Satana convinti che sia un sistema infallibile per conquistare la fama. Il guaio è che i giovinastri sono anche convinti che Jennifer dica il vero quando asserisce di essere ancora vergine. Il rito sortisce allora effetti inaspettati: la ragazza si trasforma in un mostro, non si sa bene se zombie o licantropo, che rinnova il proprio vigore fisico cibandosi di uomini. Ovvia la conclusione: tanto più Jennifer diventa sventola tanto più la sua anima va a farsi friggere.
Il corpo del vampiro
La battuta della tetta contiene però una serie di sottotesti che vanno al di là della trama. Allude, per esempio, al presunto ritocco mastoplastico dell'attrice e, più in generale, ironizza sul principio, sempre più in voga, per cui: meglio essere stupide o morte che brutte. Va detto che Megan Fox non è affatto una sciocca, e il film di cui è protagonista è meno spazzatura di quel che si potrebbe pensare. Non per niente è stato un mezzo disastro al botteghino, nonostante il plauso di alcune femministe dell'ultima ora. Ed è proprio qui che si compie un interessante miracolo. Alla maniera di gran parte delle pellicole horror americane, Il corpo di Jennifer esalta una morale tipica della cultura di massa che vede le ragazze puntualmente punite per i loro comportamenti disinibiti, peraltro istigati da una società che le valuta soprattutto in quell'ottica. Il dubbio è d'obbligo: cosa può mai esserci di femminista in un film in cui una donna viene dannata solo perché ha osato fare sesso?
È più o meno lo stesso quesito che si pone Bonnie Mann nel suo contributo alla raccolta di saggi su uno dei fenomeni del momento, La filosofia di Twilight (Fazi Editore, a cura di Rebecca Housel e J. Jeremy Wisnewski, pp. 294, euro 16). Perché milioni di ragazze si struggono per gli amori vampireschi? Cosa le spinge, nel terzo millennio, a fantasticare su uomini che reprimono a stento l'impulso di ucciderle? Immergersi nelle pagine della saga di Stephenie Meyer significa fare un salto indietro nel tempo di almeno un paio di secoli. E non tanto per le atmosfere gotiche, quanto per l'ideale di donna che vi viene proposto. Bella, la protagonista, non ha alcunché di speciale, eccetto una spiccata inclinazione al sacrifico e la dote di attirare l'attenzione dei ragazzi; tratto saliente, quest'ultimo, anche del personaggio di Megan Fox. «Non ha particolari interessi o talenti; è incapace in ogni attività. È un esempio di inettitudine e insicurezza femminile esageratamente stereotipato».
Le sue uniche abilità, guarda caso, sono cucinare e fare il bucato, attività cui si dedica per suo padre senza lamentarsi. Per contro, il vampiro Edward «è la grandiosità mascolina scritta a lettere cubitali». Ha avuto a disposizione cento anni per raffinarsi e diventare un pozzo di scienza: ha girato il mondo, parla varie lingue, legge nel pensiero della gente. L'età veneranda non ne fa però un vecchio decrepito; dispone anzi di un corpo marmoreo da adolescente ed è abbastanza forte da spezzare alberi come fossero grissini. Sarebbe un uomo perfetto, non fosse torturato dal desiderio di mordere Bella sul collo. In questo gioco delle parti da retrogrado mondo antico, è fatale che Bella si definisca «una luna solitaria», un minuscolo satellite che non può far altro che ruotare attorno l'oscuro astro del suo violentatore.
Il successo di Twilight ha spinto Bonnie Mann a recuperare un testo fondante del pensiero femminista, Il secondo sesso, dove Simone De Beauvoir rilevava che una ragazza impara fin dall'infanzia una dura lezione: «il mondo si definisce senza di lei». Il suo futuro dipenderà dal piacere di un uomo, giacché essere donne significa mostrarsi «debole, futile, docile». La femminilità è pertanto una «rinuncia all'autonomia», per l'appunto la vocazione di Bella a diventare un satellite dell'amato vampiro. Ma da quando De Beauvoir delineava la sua cruda analisi ne è passata di acqua sotto i ponti. Le ragazze di oggi sono in tutto e per tutto emancipate, costituiscono la maggioranza del corpo studentesco delle università e ottengono voti migliori dei colleghi maschi. Possibile si identifichino ancora in fanciulle dalla zucca vuota la cui massima aspirazione è sacrificarsi sull'altare dell'uomo. Il fatto è che le giovani seguitano a essere bombardate da «messaggi intricati» riconducibili a due filosofie spicciole e contrastanti. «Da una parte, il concetto che l'amore vince ogni cosa è dovunque: è presentato come l'unica chance di salvezza, per una ragazza. Dall'altra, c'è il concetto che l'amore fa soffrire e che non possono aspettarsi troppo dagli uomini, che dopotutto vengono da Marte, non da Venere». Il minimo che può sortire da un simile pasticcio è il conflitto magnificamente sintetizzato da Megan Fox. Meglio badare al cuore o alle tette? Scavare nelle profondità del problema porterebbe però alle solite geremiadi sulla conseguenza nefaste della società dei consumi. Conseguenze innegabili, per carità, ma fin troppo note e sviscerate. Proviamo allora a spostare la faccenda su un piano più astratto, più filosofico, e domandiamoci se, per assurdo e per gioco, è possibile intendere il dilemma di Megan Fox come una condizione umana di carattere universale. In un certo senso, su un piano esistenziale, l'essere umano nel suo complesso, maschio o femmina che sia, è donna. Lo è perché di fronte alla complessità del mondo e ai capricci del destino l'uomo si rivela spesso debole e futile come il secondo sesso di Simone De Beauvoir. Forse gli difetta il tratto della docilità, giacché gli capita di ribellarsi, ma la sua finitezza lo costringe comunque ad arrendersi, seppure controvoglia.
L'assurdo secondo Camus
La difficoltà di capacitarsi dell'insensatezza del mondo non è poi così lontana dal disagio di una donna che vede il proprio corpo considerato come un vuoto ricettacolo per il desiderio maschile. In maniera analoga, l'uomo si sente come il ricettacolo dell'assurdità del mondo. Infine, i messaggi intricati che ricevono le ragazze nell'era della mercificazione sono contrastanti quanto l'afflato dell'uomo verso l'infinito e l'irrimediabile condizione di finitezza cui egli è costretto.
Il pensiero di un altro scrittore esistenzialista, Albert Camus, muove le mosse per l'appunto dall'assurdità derivante da questa condizione. In un suo recente saggio, Paolo Flores d'Arcais, Albert Camus filosofo del futuro (Codice Edizioni, pp. 64, euro 9), nota giustamente che «di fronte a un universo che non (cor)risponde alla sua domanda di senso, si aprono all'uomo due possibilità: la coerenza o la fuga». Agli effimeri sforzi di negare la contingenza umana, vengono opposti l'etica del disincanto e il rifiuto dell'ipocrisia, l'uomo che dal profondo del cuore dice no. In termini spicci: la rivolta. Può l'uomo, da solo e senza il soccorso dell'eterno, creare i suoi valori? In questo enorme interrogativo consiste la sfida di Camus, che preferiva la rivolta alla rivoluzione non certo per sottrarsi all'impegno politico, bensì nella convinzione che «proprio l'ideologia rivoluzionaria apra la breccia al disimpegno e alla fuga dalla responsabilità». Troppo spesso, infatti, la rivoluzione, «anche e soprattutto quando si dichiara materialista, è solo una crociata metafisica».
Il no di Camus - il riottoso che dice «Basta!» - non è pura negatività, semplice essere contro. Scrive sempre Flores d'Arcais: «Quel mero no! è già l'espressione di un articolato sì» e dunque di un ideale positivo di umanità. Ciò implica tuttavia che gli estremi del dilemma di Megan non sono poi così ovvi come sembrano. Prendiamo il no più estremo che un individuo possa concepire: il no alla propria esistenza. «Vi è soltanto un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio» afferma lo scrittore francese nel noto incipit del Mito di Sisifo. Ragionare sul suicidio è infatti qualcosa di più dello stabilire se la vita valga la pena di essere vissuta, in quanto implica la necessità di scendere a patti con uno dei principali tabù del consorzio umano. Bollato come peccato da molte religioni, liquidato in termini di follia dalla società, il no estremo pare inconciliabile con l'ipotesi di un articolato sì. Eppure è proprio la conclusione cui giunge James Hillman, sviluppando da una prospettiva psicoanalitica molti temi cari all'esistenzialismo. «Finché possiamo dire no alla vita, non gli abbiamo detto davvero sì» si legge in uno dei suoi testi fondamentali, Il suicidio e l'anima (pubblicato ora da Adelphi, trad. Adriana Bottini, pp. 240, euro 13).
Il pensiero di un altro scrittore esistenzialista, Albert Camus, muove le mosse per l'appunto dall'assurdità derivante da questa condizione. In un suo recente saggio, Paolo Flores d'Arcais, Albert Camus filosofo del futuro (Codice Edizioni, pp. 64, euro 9), nota giustamente che «di fronte a un universo che non (cor)risponde alla sua domanda di senso, si aprono all'uomo due possibilità: la coerenza o la fuga». Agli effimeri sforzi di negare la contingenza umana, vengono opposti l'etica del disincanto e il rifiuto dell'ipocrisia, l'uomo che dal profondo del cuore dice no. In termini spicci: la rivolta. Può l'uomo, da solo e senza il soccorso dell'eterno, creare i suoi valori? In questo enorme interrogativo consiste la sfida di Camus, che preferiva la rivolta alla rivoluzione non certo per sottrarsi all'impegno politico, bensì nella convinzione che «proprio l'ideologia rivoluzionaria apra la breccia al disimpegno e alla fuga dalla responsabilità». Troppo spesso, infatti, la rivoluzione, «anche e soprattutto quando si dichiara materialista, è solo una crociata metafisica».
Il no di Camus - il riottoso che dice «Basta!» - non è pura negatività, semplice essere contro. Scrive sempre Flores d'Arcais: «Quel mero no! è già l'espressione di un articolato sì» e dunque di un ideale positivo di umanità. Ciò implica tuttavia che gli estremi del dilemma di Megan non sono poi così ovvi come sembrano. Prendiamo il no più estremo che un individuo possa concepire: il no alla propria esistenza. «Vi è soltanto un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio» afferma lo scrittore francese nel noto incipit del Mito di Sisifo. Ragionare sul suicidio è infatti qualcosa di più dello stabilire se la vita valga la pena di essere vissuta, in quanto implica la necessità di scendere a patti con uno dei principali tabù del consorzio umano. Bollato come peccato da molte religioni, liquidato in termini di follia dalla società, il no estremo pare inconciliabile con l'ipotesi di un articolato sì. Eppure è proprio la conclusione cui giunge James Hillman, sviluppando da una prospettiva psicoanalitica molti temi cari all'esistenzialismo. «Finché possiamo dire no alla vita, non gli abbiamo detto davvero sì» si legge in uno dei suoi testi fondamentali, Il suicidio e l'anima (pubblicato ora da Adelphi, trad. Adriana Bottini, pp. 240, euro 13).
Un dilemma diffuso
Laddove molti di noi associano il suicidio a una forma di rinunciataria e irresponsabile codardia, Hillman vi scorge i germi di una coraggiosa ricerca della verità, perché soltanto quando facciamo i conti con la morte, e di conseguenza con la vacuità della condizione umana, ci è possibile comprendere appieno e apprezzare la vita. L'impulso di morire non deve allora essere necessariamente inteso come un gesto negativo, poiché può essere l'espressione della richiesta di un'esistenza più piena. E non è un paradosso. Se Megan Fox si preoccupa tanto del proprio seno è perché lo scambia per ciò che di più vitale c'è in lei. Più che preferire la tetta al cuore, è convinta che sia la tetta il suo vero cuore. Confonde la vita con la morte e viceversa. È vittima di un dilemma perché i termini della questione le appaiono ribaltati. Lo stesso accade alle adolescenti che vorrebbero essere Bella e si struggono per il vampiro Edward. Fuori della finzione romanzesca, l'uomo dei loro sogni costituirebbe un pericolo letale, sarebbe in tutta probabilità uno stalker votato alla violenza. Nel mondo normale, Edward si beccherebbe quantomeno un ordine restrittivo, invece lo vediamo pavoneggiarsi sul piedistallo dell'amore romantico. Ma attenti a ritenerci migliori di Bella e delle milioni di fan di Twilight: il dilemma di Megan Fox è più diffuso di quanto siamo disposti a credere. Basta guardarsi attorno.
«Il Manifesto» del 21 febbraio 2010
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