Un saggio di Giuseppe Antonelli analizza il rapporto tra l'italiano scritto o parlato e l'italiano della musica pop
di Paolo Di Stefano
Le canzonette hanno un linguaggio conservatore. Poche eccezioni lasciano il segno, come «Parole parole»
Le domande sono parecchie e le risposte non sempre prevedibili. Qual è il rapporto tra italiano popolare e italiano del pop? Quale modello grammaticale hanno proposto, negli ultimi cinquant'anni, i testi delle canzoni di successo, quelle cioè capaci di incidere nella lingua comune? Che impatto hanno avuto le innovazioni linguistiche nella tessitura della canzone italiana? Le risposte le troverete in uno studio di Giuseppe Antonelli, che sarà in libreria l'11 febbraio (Ma cosa vuoi che sia una canzone. Mezzo secolo di italiano cantato, Il Mulino, pagine 254, 16). «La sensazione - scrive Antonelli, docente di Linguistica italiana all' Università di Cassino - è che la canzone italiana (anche quella d'autore) sia rimasta legata nel tempo a un'idea tradizionale di norma, molto vicina a quella della grammatica scolastica». Per fortuna, la norma è lì per essere infranta e Antonelli, oltre ad analizzare gli stilemi della tradizione (soprattutto sanremese), individua le punte di iceberg innovative che prefigurano i mutamenti che verranno lentamente. Perché la storia linguistica della canzone italiana non è una storia di svolte improvvise, ma di successivi aggiustamenti. Va detto che il corpus su cui si fonda il saggio di Antonelli è necessariamente limitato alle canzoni da hit parade, che hanno avuto un impatto sul grande pubblico. Si parte, giustamente, dal '58, l'anno in cui Domenico Modugno vince il Festival volando sulle ali di Nel blu dipinto di blu, scritta con Franco Migliacci. È «una scossa che fa vacillare il tradizionale assetto della canzone italiana»: basti pensare a testi come L'edera, che in quella stessa edizione del Festival esibiva il repertorio dei più fantastici luoghi comuni dell' epoca («sono qui tra le tue braccia ancor / avvinta come l'edera»). Insomma, con il Modugno a braccia levate, l'Italia entra nell'era moderna della musica leggera. Per tanti motivi, ma non per il linguaggio, la cui potenza innovativa Antonelli tende nettamente a ridimensionare. È vero che manca l'inossidabile rima amore-cuore di Son tutte belle le mamme del mondo; è vero che non c'è traccia di troncamenti simil poetici tipo sol, mar, fior, fatal; è vero che non si cade in consunti arcaismi lessicali come beltà. È anche vero che una tale serie di verbi all'infinito non si era mai vista. Però, il codice complessivo della canzone non si discosta troppo dalle formule in uso con Nilla Pizzi e Claudio Villa: rime baciate accentate sull'ultima sillaba (mai più: blu, blu, lassù e così via), e conseguente alterazione dell'ordine naturale della sintassi («venivo dal vento rapito», «negli occhi tuoi belli»). E non mancano sole e luna e sogni che svaniscono all'alba. I cliché del canzonettismo sanremese sono duri a morire, anche perché, spiega Antonelli, le esigenze del ritmo e della rima impongono ai testi una «mascherina» più o meno fissa (e facilmente scandibile con l' aiuto dei numeri) che lascia poco spazio alla fantasia, costringendo qualche volta a veri e propri salti mortali per far tornare i conti. Una gabbia che favorisce l'adozione di una «ricetta della nonna» buona per tutti i palati: la presenza di un goffo e generico «tu» montaliano, l'uso del passato remoto ed eventualmente del futuro (con accentazione tronca) a scapito di altri tempi verbali, il moltiplicarsi di avverbi accentati e monosillabi, le inversioni ardite («sei salita sulla moto mia») e alla disperata l' immissione di evidentissime zeppe («ancora noi sì», «per mano uniti là», canteranno Gianni e Marcella Bella). Sono formule che resistono nel tempo e che, dopo una fase di declino negli anni Settanta, tornano sorprendentemente in una sorta di «vintage» postmoderno nei decenni più vicini a noi, grazie a voci come quella di Gianna Nannini. Per trovare un testo davvero sconvolgente, piuttosto che rivolgersi a Modugno (del resto rientrato nei ranghi sin dall'anno successivo con Piove: «Mille violini suonati dal vento»), bisognerà guardare al Gino Paoli del 1960 e alla straordinaria modernità de Il cielo in una stanza: «Quando sei qui con me / questa stanza non ha più pareti / ma alberi, alberi infiniti», dove non c'è ombra di troncamenti, zeppe, inversioni ardite, passati remoti o arcaismi lessicali, e dove tutto scorre via senza sforzo grazie alla felice trama della lingua parlata. Una sensibilità precocissima, che fa piazza pulita di tutti gli obblighi passati e presenti. Per cui dovrà trascorrere oltre un decennio perché si ritrovi qualcosa di simile. Ed è interessante notare, con Antonelli, come i cantautori impegnati (che presto diventeranno «santautori», intellettuali e maîtres à penser), in fin dei conti, riescano sì ad aprire a nuove tematiche, ma con scelte molto prudenti sul piano della lingua, se si esclude un ampliamento della tastiera verso il colloquiale. Molto più innovativo il paziente lavorio dei cosiddetti parolieri: i vari Migliacci, Bardotti, Bigazzi, Mogol, Dati... Il paradosso, poi, è che spesso anche la canzonetta con intenti politici, come quella beat, finisce per rimanere ingabbiata nelle forme tradizionali e persino l'Equipe 84 di Bang bang inciampa in un «cuor». Il vero anno di svolta è il '72: l'anno di Parole parole in cui Mina e Alberto Lupo prendono in giro il vocabolario amoroso corrente, di Grande grande grande («e invece no, e invece no, la vita è quella che tu dai a me») e di Comunque bella in cui la coppia Mogol-Battisti impone un parlato dialogante in netta contrapposizione con le artificiose e sontuose soluzioni vigenti. E soprattutto è l'anno di Baglioni, che con Questo piccolo grande amore cancella ogni sottolineatura simil poetica e fa trionfare l'innocenza adolescenziale della frase («che non gliel'ho detto mai / ma io ci andavo matto»). Le suggestioni dello studio di Antonelli sono innumerevoli e sempre fondate. Per esempio, quando intravede una solida linea ermetica che mima, forse involontariamente, i codici stilistici della poesia «alta» di Quasimodo, Ungaretti, Montale, Luzi (mentre i cantautori guardano, piuttosto, verso l'America dylaniana o la Francia di Brel e Brassens), in una sorta di «irrazionalismo criptico ed evocativo» che spesso e volentieri diventa genericità e frammentarietà prevedibile. Per sfuggire agli stereotipi, poi, le vie d' uscita saranno tante: il demenziale degli Skiantos, il dialetto puro (vedi De André) oppure mescolato con l'italiano e/o l'inglese (vedi Pino Daniele), il recupero del vecchio armamentario in chiave parodico-citazionistica (vedi Panella), l'infrazione violenta e gergale del rap (vedi Frankie HI-NRG e in seconda battuta Jovanotti). Ma le mascherine, quelle, non muoiono mai.
«Corriere della Sera» del 7 febbraio 2010
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