Per l’antropologo e gesuita «la modernità riserva a nuovi 'chierici' il diritto di fissare il 'giusto' senso di un testo: un monopolio che in pubblico nessuno contesta. Però in privato si riafferma l’inventiva
di Michel de Certeau
La lettura non è che un aspetto parziale, ma fondamentale del consumo. In una società sempre più scritta, organizzata attraverso il potere di modificare le cose e di riformare le strutture a partire da modelli scritturali (scientifici, economici, politici), tramutati poco a poco in « testi » combinati (amministrativi, urbanistici, industriali eccetera), si può spesso sostituire al binomio produzioneconsumo il suo equivalente e rivelatore generale, ovvero il binomio scritturalettura. Il potere che ha instaurato la volontà ( di volta in volta riformista, scientifica, rivoluzionaria o pedagogica) di rifare la storia, grazie a operazioni scritturali effettuate innanzitutto in campi chiusi, ha del resto per corollario una grande divisione fra leggere e scrivere. « La modernizzazione, la modernità, è la scrittura » , dice François Furet. La generalizzazione della scrittura ha in effetti provocato la sostituzione con la legge astratta, quella dello Stato, delle autorità tradizionali e la disgregazione del gruppo a vantaggio dell’individuo. Ma questa trasformazione è stata effettuata attraverso una ' commistione' fra due elementi distinti, lo scritto e l’orale. Solo la scuola ha congiunto, ma attraverso un sistema rimasto molto spesso fragile, le due capacità di leggere e di scrivere. In effetti queste sono state a lungo separate nel passato, fino al XIX secolo inoltrato; e oggi, nella vita adulta delle persone scolarizzate si verifica ben presto, in molti casi, una dissociazione fra scrivere e 'leggere soltanto'; da cui la necessità di interrogarsi sui percorsi propri della letteratura dove essa si sposa con la scrittura. Ciò che va rimesso in discussione è l’assimilazione della lettura alla passività. In effetti, leggere significa peregrinare in un sistema imposto (quello del testo), analogo all’organizzazione fisica di una città o di un supermercato. Ma è stato dimostrato che «qualsiasi lettura modifica il suo oggetto» , che (come già diceva Borges) «una letteratura differisce da un’altra meno per i suoi testi che per i modi in cui vengono letti» , e che infine un sistema di segni verbali o iconici è una riserva di forme che attendono dal lettore il loro senso. Se dunque « il libro è un effetto ( una costruzione) del lettore» , l’operazione compiuta da quest’ultimo dev’essere concepita come una sorta di lectio, ovvero come una produzione propria del ' lettore'. Questi non sostituisce l’autore né prende il suo posto. Inventa attraverso i testi cose diverse dalla loro ' intenzione' iniziale.
Li stacca dalla loro origine (perduta o secondaria). Ne combina i frammenti e introduce un insaputo nello spazio che essi consentono di creare grazie alla loro pluralità indefinita di significati. Questa attività di ' lettura' è riservata ai critici letterari (sempre privilegiati attraverso gli studi sulla lettura), ovvero a una nuova categoria di chierici, o può estendersi all’intero consumo culturale?
Ecco la domanda alla quale la storia, la sociologia o la pedagogia scolastica dovrebbero fornire elementi di risposta.
L’uso del libro da parte di soggetti privilegiati lo trasforma in un segreto di cui essi sono i ' veri' depositari. Erige fra esso e i suoi lettori una frontiera che può essere oltrepassata solo con un passaporto rilasciato da questi interpreti, trasformando la loro lettura (anch’essa legittima) in una ' letteralità' ortodossa che riduce le altre interpretazioni (egualmente legittime) all’eresia (in quanto non ' conformi' al senso del testo) o all’insignificanza (destinandole così all’oblio). Da questo punto di vista, il senso ' letterale' è l’indice e l’effetto del potere sociale di un’élite. Offerto di per sé a una lettura plurale, il testo diviene così un’arma culturale, una riserva di caccia, il pretesto di una norma che legittima, come ' letterale', l’interpretazione dei professionisti e dei chierici socialmente autorizzati.
D'altro canto, se la manifestazione della libertà del lettore attraverso il testo è tollerata fra i chierici (bisogna però chiamarsi Roland Barthes per permettersela), è viceversa interdetta agli allievi (aspramente o abilmente ricondotti dai maestri all’ovile del senso 'ricevuto') o al pubblico (debitamente avvertito di 'ciò che bisogna pensare' e le cui invenzioni, considerate trascurabili, sono ridotte al silenzio). È dunque la gerarchizzazione sociale che nasconde la realtà delle pratiche di lettura o le rende irriconoscibili. Fino a ieri, la Chiesa, con la sua cesura fra chierici e 'fedeli', considerava la Scrittura come una ' Lettera' indipendente dalle interpretazioni dei lettori e custodita dagli esegeti: l’autonomia del testo era la riproduzione dei rapporti socioculturali all’interno di un’istituzione in cui gli addetti stabilivano come dovesse essere interpretato. Con l’indebolimento di quest’ultima, fra il testo e i suoi lettori è apparsa quella reciprocità ch’essa nascondeva, come se, nel suo ritrarsi, lasciasse intravedere la pluralità indefinita delle ' scritture' prodotte dai lettori, la cui creatività aumentava parallelamente all’indebolimento della gerarchia che la controllava. Questo processo, visibile dopo la Riforma, già inquietava i pastori del XVII secolo. Oggi, l’isolamento dei lettori dal testo di cui il produttore o il maestro si considerano padroni avviene attraverso i dispositivi sociopolitici della scuola, della stampa o della televisione.
Ma dietro lo sfondo teatrale di questa nuova ortodossia si nasconde (come già avveniva ieri) l’attività silenziosa, trasgressiva, ironica o poetica, di lettori (o telespettatori) che mantengono le distanze nel privato e all’insaputa dei ' padroni' del pensiero. La lettura si situerebbe dunque nel punto di congiunzione di una stratificazione sociale (dei rapporti di classe) e di operazioni poetiche (costruzione del testo da parte del lettore): il lettore è spinto così da questa struttura gerarchica a conformarsi all’' informazione' distribuita da un’élite, ma si prende la sua rivincita insinuando astutamente la sua inventività nelle falle di un’ortodossia culturale. In questo modo, da un lato si occulta ciò che non è conforme alla volontà dei ' padroni' rendendolo invisibile ai loro occhi; dall’altro, lo si dissemina nelle sfere della vita privata. Entrambe le operazioni concorrono dunque a fare della lettura un’attività sconosciuta da cui emergono per un verso, in forma teatrale e impositiva, l’unica interpretazione letterale autorizzata, e per un altro, le tracce di una poetica comune , che affiorano come piccole bolle, rare e intermittenti, sulla superficie dell’acqua.
Li stacca dalla loro origine (perduta o secondaria). Ne combina i frammenti e introduce un insaputo nello spazio che essi consentono di creare grazie alla loro pluralità indefinita di significati. Questa attività di ' lettura' è riservata ai critici letterari (sempre privilegiati attraverso gli studi sulla lettura), ovvero a una nuova categoria di chierici, o può estendersi all’intero consumo culturale?
Ecco la domanda alla quale la storia, la sociologia o la pedagogia scolastica dovrebbero fornire elementi di risposta.
L’uso del libro da parte di soggetti privilegiati lo trasforma in un segreto di cui essi sono i ' veri' depositari. Erige fra esso e i suoi lettori una frontiera che può essere oltrepassata solo con un passaporto rilasciato da questi interpreti, trasformando la loro lettura (anch’essa legittima) in una ' letteralità' ortodossa che riduce le altre interpretazioni (egualmente legittime) all’eresia (in quanto non ' conformi' al senso del testo) o all’insignificanza (destinandole così all’oblio). Da questo punto di vista, il senso ' letterale' è l’indice e l’effetto del potere sociale di un’élite. Offerto di per sé a una lettura plurale, il testo diviene così un’arma culturale, una riserva di caccia, il pretesto di una norma che legittima, come ' letterale', l’interpretazione dei professionisti e dei chierici socialmente autorizzati.
D'altro canto, se la manifestazione della libertà del lettore attraverso il testo è tollerata fra i chierici (bisogna però chiamarsi Roland Barthes per permettersela), è viceversa interdetta agli allievi (aspramente o abilmente ricondotti dai maestri all’ovile del senso 'ricevuto') o al pubblico (debitamente avvertito di 'ciò che bisogna pensare' e le cui invenzioni, considerate trascurabili, sono ridotte al silenzio). È dunque la gerarchizzazione sociale che nasconde la realtà delle pratiche di lettura o le rende irriconoscibili. Fino a ieri, la Chiesa, con la sua cesura fra chierici e 'fedeli', considerava la Scrittura come una ' Lettera' indipendente dalle interpretazioni dei lettori e custodita dagli esegeti: l’autonomia del testo era la riproduzione dei rapporti socioculturali all’interno di un’istituzione in cui gli addetti stabilivano come dovesse essere interpretato. Con l’indebolimento di quest’ultima, fra il testo e i suoi lettori è apparsa quella reciprocità ch’essa nascondeva, come se, nel suo ritrarsi, lasciasse intravedere la pluralità indefinita delle ' scritture' prodotte dai lettori, la cui creatività aumentava parallelamente all’indebolimento della gerarchia che la controllava. Questo processo, visibile dopo la Riforma, già inquietava i pastori del XVII secolo. Oggi, l’isolamento dei lettori dal testo di cui il produttore o il maestro si considerano padroni avviene attraverso i dispositivi sociopolitici della scuola, della stampa o della televisione.
Ma dietro lo sfondo teatrale di questa nuova ortodossia si nasconde (come già avveniva ieri) l’attività silenziosa, trasgressiva, ironica o poetica, di lettori (o telespettatori) che mantengono le distanze nel privato e all’insaputa dei ' padroni' del pensiero. La lettura si situerebbe dunque nel punto di congiunzione di una stratificazione sociale (dei rapporti di classe) e di operazioni poetiche (costruzione del testo da parte del lettore): il lettore è spinto così da questa struttura gerarchica a conformarsi all’' informazione' distribuita da un’élite, ma si prende la sua rivincita insinuando astutamente la sua inventività nelle falle di un’ortodossia culturale. In questo modo, da un lato si occulta ciò che non è conforme alla volontà dei ' padroni' rendendolo invisibile ai loro occhi; dall’altro, lo si dissemina nelle sfere della vita privata. Entrambe le operazioni concorrono dunque a fare della lettura un’attività sconosciuta da cui emergono per un verso, in forma teatrale e impositiva, l’unica interpretazione letterale autorizzata, e per un altro, le tracce di una poetica comune , che affiorano come piccole bolle, rare e intermittenti, sulla superficie dell’acqua.
«Avvenire» del 28 febbraio 2010
Nessun commento:
Posta un commento