Esce il romanzo postumo dello scrittore friulano morto lo scorso dicembre: un testamento morale in cui mette in guardia dal materialismo miope, considerato una filosofia senza fondamento Invece è necessario riprendere coscienza della «nostalgia dell’Infinito»
di Fulvio Panzeri
Nella sua autobiografia, La penna d’oro, pubblicata un anno prima della sua morte, negli ultimi giorni del 2009, Carlo Sgorlon parla di numerosi romanzi rimasti inediti, il cui tema è quello della metafisica e del rapporto dell’Essere in relazione all’Universo. Scriveva Sgorlon: «Come i teosofi, sento che noi abbiamo, per così dire, una proiezione cosmica, perché siamo la risultante di lunghissime azioni ed evoluzioni dell’Essere, misterioso nella sua origine e nelle sue modificazioni. In romanzi ancora inediti questa inquietudine diventa più frequente e macroscopica. Con maggior evidenza rivela le fonti della mia religiosità, ossia il mistero sterminato dell’Universo». Esce ora un suo romanzo postumo, Il circolo Swedenborg, che fonda la sua ragione proprio su questa necessità di una nuova 'età dello Spirito' che Sgorlon ha sentito come necessità forte e assolutamente necessaria per superare la barbarie del nostro tempo, il suo materialismo, il suo esasperato individualismo. In una posizione che lo pone sulla linea del Dialogo tra un fisico e un metafisico tratto dalle Operette morali di Leopardi, che Sgorlon usa per mettere a nudo le proprie idee e lo fa diventare uno dei libri di riferimento del protagonista del suo romanzo, che a livello ideale, si sovrappone al pensiero dell’autore.
Tanto che segnala quanto lui si senta allo stesso tempo sia l’uno, che l’altro, sia il fisico che il metafisico e che quello che gli sta più a cuore «è la metafisica, ossia la filosofia dell’Essere». In questo romanzo Sgorlon rimane fedele ai temi che hanno contraddistinto la sua narrativa: il mito («I miti a volte erano anche delle verità storiche, però senza smettere per questo di essere favole del mare nel pensiero di tutti coloro che di queste cose si occupavano. Ma, in un certo modo, il mare stesso nella sua totalità era una specie di leggenda»); il viaggio come dimensione di scoperta e di incontro con le altre culture; la tradizione come nutrimento («Oggi contava solo il presente, e il passato cadeva subito in un pozzo, dentro un tombino; pochi riuscivano a occuparsene ancora, perché tra gli uomini e il tempo trascorso si era aperto un abisso invalicabile»); la cultura slava, qui con un riferimento particolare ad una Romania che è al di là di tutti gli stereotipi che sono stati creati in questi anni, vista nell’ottica di una dimensione culturale forte e segnata dalla lezione di Mircea Eliade, una Romania che viene identificata nella figura femminile, quella di Octavia, ritratto romanzesco bellissimo, soprattutto in relazione alla figura del protagonista. Lui, Ermete Lunati Eudòxios, attraversa questa storia senza rivelare fino in fondo qual è la sua vera natura, quella di un uomo alla ricerca della sua verità più autentica, soprattutto in relazione alla propria identità nell’Universo. È un uomo che attraversa il nostro presente, ne coglie le debolezze e non si limita ad accettare come dato di fatto questa decadenza. Le sue idee, questa centralità che la metafisica assume nella sua esistenza, diventano la risposta positiva, per un cambiamento che passa attraverso il riconoscimento di una dimensione altra, rispetto a quella debole che mette in luce il presente. La sua è stata una vita all’insegna del viaggio, come ufficiale sulle navi, poi inseguendo Octavia, la ragazza rumena che vuole studiare in Italia, ma è privi di mezzi e la trova in una delle scene più originali del romanzo, mentre scopre che ha deciso di fare la camionista. Decide di portarla via con sé e, quando il destino gli offre un dono inaspettato, una fortuna economica ereditata dal padre, trova sulla sua strada una vecchia abbazia nel Nord Italia e vi fonda, con Octavia, una comunità di persone affascinate dalla teosofia, il 'Circolo Swedenborg', in omaggio al botanico e visionario svedese. Si riuniscono 'nell’ambiente che era stato il cenacolo dei benedettini. Ognuno sentiva che erano, l’uno e l’altro, luoghi carichi di un fascino che veniva da un’antica spiritualità'. E soprattutto dalla memoria di Gioacchino da Fiore che viene considerato una sorta di archetipo e di modello, con quella sua idea di una ritrovata «epoca dello Spirito… un’epoca che avrebbe sostituito quella della metafisica materialista, cui oggi tutti appartenevano e da cui tutto si sviluppava». Attraverso le letture e gli studi di Ermete, i successi, ma anche le diffidenze e le difficoltà che questa sua comunità incontra, Carlo Sgorlon ci restituisce il romanzo al quale affida il suo testamento morale, in cui mette in guardia dal materialismo miope, considerato una filosofia senza fondamento. Per uscire da questa condizione d’esilio è necessario riprendere coscienza della «nostalgia dell’Infinito», perché «l’universo poteva essere visto come l’immenso volto di Dio».
Tanto che segnala quanto lui si senta allo stesso tempo sia l’uno, che l’altro, sia il fisico che il metafisico e che quello che gli sta più a cuore «è la metafisica, ossia la filosofia dell’Essere». In questo romanzo Sgorlon rimane fedele ai temi che hanno contraddistinto la sua narrativa: il mito («I miti a volte erano anche delle verità storiche, però senza smettere per questo di essere favole del mare nel pensiero di tutti coloro che di queste cose si occupavano. Ma, in un certo modo, il mare stesso nella sua totalità era una specie di leggenda»); il viaggio come dimensione di scoperta e di incontro con le altre culture; la tradizione come nutrimento («Oggi contava solo il presente, e il passato cadeva subito in un pozzo, dentro un tombino; pochi riuscivano a occuparsene ancora, perché tra gli uomini e il tempo trascorso si era aperto un abisso invalicabile»); la cultura slava, qui con un riferimento particolare ad una Romania che è al di là di tutti gli stereotipi che sono stati creati in questi anni, vista nell’ottica di una dimensione culturale forte e segnata dalla lezione di Mircea Eliade, una Romania che viene identificata nella figura femminile, quella di Octavia, ritratto romanzesco bellissimo, soprattutto in relazione alla figura del protagonista. Lui, Ermete Lunati Eudòxios, attraversa questa storia senza rivelare fino in fondo qual è la sua vera natura, quella di un uomo alla ricerca della sua verità più autentica, soprattutto in relazione alla propria identità nell’Universo. È un uomo che attraversa il nostro presente, ne coglie le debolezze e non si limita ad accettare come dato di fatto questa decadenza. Le sue idee, questa centralità che la metafisica assume nella sua esistenza, diventano la risposta positiva, per un cambiamento che passa attraverso il riconoscimento di una dimensione altra, rispetto a quella debole che mette in luce il presente. La sua è stata una vita all’insegna del viaggio, come ufficiale sulle navi, poi inseguendo Octavia, la ragazza rumena che vuole studiare in Italia, ma è privi di mezzi e la trova in una delle scene più originali del romanzo, mentre scopre che ha deciso di fare la camionista. Decide di portarla via con sé e, quando il destino gli offre un dono inaspettato, una fortuna economica ereditata dal padre, trova sulla sua strada una vecchia abbazia nel Nord Italia e vi fonda, con Octavia, una comunità di persone affascinate dalla teosofia, il 'Circolo Swedenborg', in omaggio al botanico e visionario svedese. Si riuniscono 'nell’ambiente che era stato il cenacolo dei benedettini. Ognuno sentiva che erano, l’uno e l’altro, luoghi carichi di un fascino che veniva da un’antica spiritualità'. E soprattutto dalla memoria di Gioacchino da Fiore che viene considerato una sorta di archetipo e di modello, con quella sua idea di una ritrovata «epoca dello Spirito… un’epoca che avrebbe sostituito quella della metafisica materialista, cui oggi tutti appartenevano e da cui tutto si sviluppava». Attraverso le letture e gli studi di Ermete, i successi, ma anche le diffidenze e le difficoltà che questa sua comunità incontra, Carlo Sgorlon ci restituisce il romanzo al quale affida il suo testamento morale, in cui mette in guardia dal materialismo miope, considerato una filosofia senza fondamento. Per uscire da questa condizione d’esilio è necessario riprendere coscienza della «nostalgia dell’Infinito», perché «l’universo poteva essere visto come l’immenso volto di Dio».
Carlo Sgorlon, Il Circolo Swedenborg, Mondadori, pp. 300, € 19,00
«Avvenire» del 20 febbraio 2010
1 commento:
Davvero Sgorlon può essere considerato un padre spirituale per noi friulani.
Desidero esprimere una lettura interpretativa che colgo in questa sua estrema fatica letteraria.
Egli cela nei personaggi del romanzo la sua persona che io indico in Ermete, e in Octavia quella di sua moglie.
Il circolo rappresentato dalla sede conventuale non é altro che la sua dimora, ove egli ha tanto scritto e sognato l'arcano, da identificarsi con la sua casa di Cassacco.
L'immensa eredità che il giovane Ermete dispensa generosamente rappresenta metaforicamente la sua eredità spirituale che dona a tutti noi indicandoci la via dei valori dell'animo, infiniti, in contrapposizione a quelli materiali che hanno termine nell'autodistruzione.
Una lettura, la mia, che nulla toglie a ciò che di Carlo Sgorlon é stato scritto.
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