Fulvio Abbate si è inventato un canale non conformista e a costo zero. Tutti possono farlo: un libro spiega come. Basta avere computer, telefonino, un angolo di casa e inventarsi uno stile
di Massimiliano Parente
Se non ne potete più di trasmissioni politiche canterine come Sanremo, se non ne potete più di trasmissioni comiche senza immaginazione come Annozero o Ballarò, potete sempre attaccarvi a Teledurruti, la «televisione monolocale» di Fulvio Abbate in onda quando vi pare su www.teledurruti.it. E ora c’è pure il libro, edito da Cooper (ossia da Emanuele Bevilacqua, che assomiglia a Armani da giovane, ammesso che Armani da giovane assomigliasse a Armani da giovane), intitolato Manuale italiano di sopravvivenza, sottotitolato «Come fare una televisione monolocale e vivere felici in un paese perduto».
Non crediate, se non lo conoscete, che l’autore sia uno di quei noiosissimi conformisti catastrofisti di sinistra, macché. Fulvio Abbate è un anarchico pazzo e simpatico che si ispira al rivoluzionario spagnolo Buenaventura Durruti ma si sarebbe trovato benissimo a suo agio al “Cabaret Voltaire”, tra Hugo Ball e Tristan Tzara. Oltretutto il fine della sua televisione è quello, puramente egoistico, «di rendere felice almeno un uomo nel mondo dell’informazione», cioè se stesso, per questo quando ci si attacca a Teledurruti non ci si stacca più, male che vada è impagabile vedere un uomo libero dall’auditel. Il quale uomo cacciato dall’Unità, cacciato dal Foglio, cacciato dal Riformista e approdato a il Fatto Quotidiano, per chi non lo sapesse ha fondato da tempo una sua televisione personale a budget zero, diventata giorno dopo giorno un piccolo mito. In verità «oggetto» di culto lo era fin da quando andava in onda sulle reti romane Teleambiente e Teledonna (dall’ottobre del 1998 alla primavera del 2003), e in origine, prima di essere reale, era un romanzo bello e all’epoca inedito, Teledurruti, che raccontava la trasmissione a venire, e sarebbe stato pubblicato solo in seguito da Baldini&Calstoldi, a riprova di quanto sia la fantasia a costruire la storia.
E dunque, in sintesi: come ci si fa una televisione monolocale? Tanto per cominciare, non essendoci costi, non serve la pubblicità, quindi fatela a quello che vi pare, meglio se a qualcosa di insensato, per esempio il caffè corretto al Ginseng. Non servono studi televisivi, basta un angolo di casa e soprattutto occorre avere «uno stile». Non servono neppure grandi mezzi, per gli interni è sufficiente un computer, per i servizi esterni un telefonino, il cameraman e l’anchorman siete voi, maschi o femmine che siate, o entrambi i sessi. Perché «certi giorni è bello perfino sentirsi donna nonostante si sia veri maschi», e nel caso serve solo una parrucca di carnevale verde elettrico, così è nata Fulvia Abbate, un travestimento e «un implico omaggio a Andy Warhol» (e alla Rosé Sélavy di Marcel Duchamp, aggiungerei), quindi la tv anarco-monolocale si tinge di pop (e d’altra parte proprio Mario Schifano è l’artista amico di Abbate, continuamente evocato a Teledurruti).
Ovviamente Abbate, con la scusa del libro sulla televisione monolocale, ti rifila un prontuario intellettuale, una storia d’Italia costruita sui dettagli, sugli scarti dell’esistenza in realtà mai tanto esistenzialmente fondamentali. Perché se l’abito non fa il monaco tutto fa storia, e lo scrittore monolocale ha abituato i suoi telespettatori a puntate monografiche su qualsiasi cosa, dai portapenne al vostro paio di occhiali che sarebbe tanto bello poter chiamare quando li perdete («Perché gli oggetti non hanno un numero di telefono?»). È diventata una star della rete perfino la mamma di Abbate, Gemma Politi, una professoressa in pensione novantenne scassacazzi e cazzutissima che vorrebbe parlare a ruota libera e è regolarmente interrotta dal figlio («Mamma, non dire banalità!»).
Di cosa parlare nella vostra televisione monolocale? Di quello che vi pare. Potete cominciare dal vostro cane o gatto e da lì, seguendo il filo dei pensieri, potrete arrivare al bassotto al guinzaglio di Balla o al pappagallo impagliato della Félicite di Flaubert. O ripescare il pupazzo Rockfeller e dedicargli una puntata tipo: «Concita De Gregorio è il Rockfeller del ventriloquo Veltroni». O riflettere a voce alta sulle rivoluzioni politiche e rivoluzioni sessuali, magari combinate insieme, dal Sessantotto al 69, perché «la sparizione di un certo afflato politico e rivoluzionario si accompagna alla sparizione di un leggendario e sicuro atto d’amore, il 69», e segue trattato tascabile sul tema. Non ci vuole niente neppure a mettere su una trasmissione religiosa, non dovete studiare teologia o prendere i voti, «occorre una camicia (possibilmente scura, antracite va già bene) e una fettuccia di carta bianca rettangolare, ti basterà infilare quest’ultima sotto il colletto chiuso, ed ecco un clergyman impeccabile. Ora sei un ottimo prete» e amen. Gli ospiti? Se nessuno viene da voi, poco male: basta un pupazzetto di King Kong e avrete King Kong lì, nella vostra televisione monolocale. Tuttavia Fulvio o Fulvia Abbate non è solo anarco-pop, talvolta riesce a essere insopportabilmente neo-borghese e family-kitsch, e una volta, pur non pagando il canone, ho protestato: in questo magnifico frullatore fai tutto, ma non piazzarci tua figlia Carla, per favore no, non sento scuse estetizzanti. Invece niente, Carla di qua, Carla di là.
C’è una cosa, infine, che Fulvio Abbate non vi dice nel suo libro: per evitare l’effetto Hyde Park Corner, bisogna essere Fulvio Abbate, altrimenti vi diranno che sembri Fulvio Abbate, e siccome questa possibilità ve l’ha fregata lui fate quello che vi viene, se vi viene. Insomma, se non ne potete più della tragedia di Sanremo o dei giulivi Annozero e Ballarò attaccatevi a Teledurruti, se non ne potete più neppure di Teledurruti comprate il libro e mettetevi all’opera, male che vada avrete reso felici voi stessi, non è poco.
Non crediate, se non lo conoscete, che l’autore sia uno di quei noiosissimi conformisti catastrofisti di sinistra, macché. Fulvio Abbate è un anarchico pazzo e simpatico che si ispira al rivoluzionario spagnolo Buenaventura Durruti ma si sarebbe trovato benissimo a suo agio al “Cabaret Voltaire”, tra Hugo Ball e Tristan Tzara. Oltretutto il fine della sua televisione è quello, puramente egoistico, «di rendere felice almeno un uomo nel mondo dell’informazione», cioè se stesso, per questo quando ci si attacca a Teledurruti non ci si stacca più, male che vada è impagabile vedere un uomo libero dall’auditel. Il quale uomo cacciato dall’Unità, cacciato dal Foglio, cacciato dal Riformista e approdato a il Fatto Quotidiano, per chi non lo sapesse ha fondato da tempo una sua televisione personale a budget zero, diventata giorno dopo giorno un piccolo mito. In verità «oggetto» di culto lo era fin da quando andava in onda sulle reti romane Teleambiente e Teledonna (dall’ottobre del 1998 alla primavera del 2003), e in origine, prima di essere reale, era un romanzo bello e all’epoca inedito, Teledurruti, che raccontava la trasmissione a venire, e sarebbe stato pubblicato solo in seguito da Baldini&Calstoldi, a riprova di quanto sia la fantasia a costruire la storia.
E dunque, in sintesi: come ci si fa una televisione monolocale? Tanto per cominciare, non essendoci costi, non serve la pubblicità, quindi fatela a quello che vi pare, meglio se a qualcosa di insensato, per esempio il caffè corretto al Ginseng. Non servono studi televisivi, basta un angolo di casa e soprattutto occorre avere «uno stile». Non servono neppure grandi mezzi, per gli interni è sufficiente un computer, per i servizi esterni un telefonino, il cameraman e l’anchorman siete voi, maschi o femmine che siate, o entrambi i sessi. Perché «certi giorni è bello perfino sentirsi donna nonostante si sia veri maschi», e nel caso serve solo una parrucca di carnevale verde elettrico, così è nata Fulvia Abbate, un travestimento e «un implico omaggio a Andy Warhol» (e alla Rosé Sélavy di Marcel Duchamp, aggiungerei), quindi la tv anarco-monolocale si tinge di pop (e d’altra parte proprio Mario Schifano è l’artista amico di Abbate, continuamente evocato a Teledurruti).
Ovviamente Abbate, con la scusa del libro sulla televisione monolocale, ti rifila un prontuario intellettuale, una storia d’Italia costruita sui dettagli, sugli scarti dell’esistenza in realtà mai tanto esistenzialmente fondamentali. Perché se l’abito non fa il monaco tutto fa storia, e lo scrittore monolocale ha abituato i suoi telespettatori a puntate monografiche su qualsiasi cosa, dai portapenne al vostro paio di occhiali che sarebbe tanto bello poter chiamare quando li perdete («Perché gli oggetti non hanno un numero di telefono?»). È diventata una star della rete perfino la mamma di Abbate, Gemma Politi, una professoressa in pensione novantenne scassacazzi e cazzutissima che vorrebbe parlare a ruota libera e è regolarmente interrotta dal figlio («Mamma, non dire banalità!»).
Di cosa parlare nella vostra televisione monolocale? Di quello che vi pare. Potete cominciare dal vostro cane o gatto e da lì, seguendo il filo dei pensieri, potrete arrivare al bassotto al guinzaglio di Balla o al pappagallo impagliato della Félicite di Flaubert. O ripescare il pupazzo Rockfeller e dedicargli una puntata tipo: «Concita De Gregorio è il Rockfeller del ventriloquo Veltroni». O riflettere a voce alta sulle rivoluzioni politiche e rivoluzioni sessuali, magari combinate insieme, dal Sessantotto al 69, perché «la sparizione di un certo afflato politico e rivoluzionario si accompagna alla sparizione di un leggendario e sicuro atto d’amore, il 69», e segue trattato tascabile sul tema. Non ci vuole niente neppure a mettere su una trasmissione religiosa, non dovete studiare teologia o prendere i voti, «occorre una camicia (possibilmente scura, antracite va già bene) e una fettuccia di carta bianca rettangolare, ti basterà infilare quest’ultima sotto il colletto chiuso, ed ecco un clergyman impeccabile. Ora sei un ottimo prete» e amen. Gli ospiti? Se nessuno viene da voi, poco male: basta un pupazzetto di King Kong e avrete King Kong lì, nella vostra televisione monolocale. Tuttavia Fulvio o Fulvia Abbate non è solo anarco-pop, talvolta riesce a essere insopportabilmente neo-borghese e family-kitsch, e una volta, pur non pagando il canone, ho protestato: in questo magnifico frullatore fai tutto, ma non piazzarci tua figlia Carla, per favore no, non sento scuse estetizzanti. Invece niente, Carla di qua, Carla di là.
C’è una cosa, infine, che Fulvio Abbate non vi dice nel suo libro: per evitare l’effetto Hyde Park Corner, bisogna essere Fulvio Abbate, altrimenti vi diranno che sembri Fulvio Abbate, e siccome questa possibilità ve l’ha fregata lui fate quello che vi viene, se vi viene. Insomma, se non ne potete più della tragedia di Sanremo o dei giulivi Annozero e Ballarò attaccatevi a Teledurruti, se non ne potete più neppure di Teledurruti comprate il libro e mettetevi all’opera, male che vada avrete reso felici voi stessi, non è poco.
«Il Giornale» del 23 febbraio 2010
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