di Francesco Cundari
"Anch'io sono convinto che non c'è una nuova tangentopoli, ma un fenomeno di malcostume diffuso e casi di chi se ne approfitta. Non e' sufficiente essere arrestati per essere automaticamente delinquenti". Lo ha detto il presidente della Camera Gianfranco Fini, parlando delle inchieste giudiziarie in corso sulla corruzione.
La pubblicazione delle intercettazioni sui giornali è ormai un genere letterario a sé stante, con i suoi precisi canoni, le sue regole e i suoi cliché. Ogni ondata ha la sua frase simbolo: una battuta di pochi secondi esce all’improvviso dalla marea delle chiacchiere, traccia d’un colpo i confini dell’insieme e ne definisce il senso. “Stamo a fa’ i furbetti del quartierino”, disse Stefano Ricucci, e dal momento in cui quella battuta venne pubblicata sui giornali questa fu l’immagine, il senso e la spiegazione dell’intera vicenda, la vicenda dei “furbetti del quartierino”. Nel nuovo romanzo telefonico attualmente in via di pubblicazione, quello sulla Protezione civile, la frase simbolo è ovviamente l’affermazione dell’imprenditore che dice al cognato di aver riso dentro al suo letto, dopo il terremoto dell’Aquila, pensando agli affari che avrebbe potuto fare con la ricostruzione.
L’imprenditore ha poi dichiarato che era il cognato a dirlo, mentre lui inorridiva, e che pertanto c’è un errore nella trascrizione, ma qui si aprirebbe un altro discorso (spesso le trascrizioni della stessa conversazione cambiano moltissimo a seconda del giornale che le pubblica, e a volte anche a seconda dell’edizione dello stesso giornale, ma nessuno sembra badarci troppo). Dal momento in cui il verbale delle risate è stato pubblicato è cresciuta, comprensibile, la generale indignazione: manifestazioni di chi sotto le macerie ha perso i propri cari, gli amici, la casa e il lavoro, dietro cartelli e striscioni con scritto “io non ridevo”; dichiarazioni sempre più dure, da politici e giornalisti, amministratori locali e famigliari delle vittime; il governo che si affretta a chiarire: “Non un euro a chi rideva”. Un crescendo senza interruzione, un coro unanime, senza un dissenso. E chi mai potrebbe difendere un comportamento tanto disumano? E così, con le nostre indignate dichiarazioni o con il nostro acquiescente silenzio, abbiamo avallato il principio secondo cui le parole pronunciate al telefono da due privati cittadini sono soggette a un giudizio di moralità da parte dell’opinione pubblica.
Volenti o nolenti, entusiasti o renitenti, ci siamo costituiti in tribunale e abbiamo condannato due persone alla gogna, semplicemente per quello che si sono dette al telefono, per il valore etico delle loro parole, pronunciate nel corso di una privata conversazione. E nessuno finora ha trovato in questo niente da ridire. Mi auguro naturalmente di sbagliare e che simili proteste siano sfuggite soltanto a me, ma ne dubito: in questo paese, che pure secondo le statistiche ufficiali è probabilmente quello con il più alto numero di liberali per chilometro quadrato, stenta ad affermarsi il principio per cui la battaglia in difesa della libertà di tutti non si gioca sui diritti di Heidi o di Madre Teresa di Calcutta, ma proprio sui diritti dei più odiosi, brutti, sporchi e cattivi. D’altra parte, dopo avere passato anni a leggere commenti indignati su questa o quella intercettazione, sempre accompagnati da un prudente “al di là dell’eventuale rilevanza penale”, come fosse una condizione accessoria per intercettare, pubblicare e commentare le private conversazioni di un cittadino, cos’altro dovremmo aspettarci? Il principio è passato.
E così si giustifica, in nome della trasparenza, un comportamento che è ormai il massimo dell’arbitrio e dell’opacità, terreno ideale per ogni genere di manovra e di ricatto, permettendo di lanciare accuse, linciare e sputtanare praticamente chiunque, anche solo sulla base delle affermazioni di terzi da nessuno verificate, fossero pure due pazzi ubriachi appena evasi da un manicomio criminale. Ma non c’è alternativa, si difendono i direttori di giornale quando qualcuno si azzardi a domandare per quale motivo si debbano pubblicare gli sms della moglie di un uomo indagato per reati finanziari, magari aggiungendoci pure la vigliacca ironia del cronista sull’uso della punteggiatura o sul merito dei messaggini. E come potrebbero decidere cosa sia da pubblicare e cosa no, arrogarsi il diritto di selezionare, tagliare e cucire, censurare e manipolare i documenti di cui entrano in possesso? Peccato che solo in quest’ultima inchiesta, a quanto scrive il Corriere della Sera, le pagine di intercettazioni allegate all’ordinanza del gip siano ventimila. Dicasi: ventimila.
Se davvero i giornali si limitassero a pubblicare tutto quello di cui dispongono, senza effettuare alcuna selezione, alcuna censura, alcuna manipolazione, dovrebbero smettere di pubblicare le chiacchiere di Bertolaso e soci non prima del 2020.
Se poi davvero si comportassero sempre allo stesso modo, per tutte le inchieste di cui si occupano, non resterebbe spazio nemmeno per la pagina dei programmi tv. La barzelletta dei giornali che si limitano a pubblicare tutto quello che trovano, in modo sempre ugualmente asettico e scrupoloso, non fa più ridere nemmeno gli affezionati. La verità è che i giornali sono attori consapevoli e volenterosissimi di questo meccanismo infernale, che regala loro un potere enorme. Un potere incontrollato che tutti noi contribuiamo ad accrescere, spogliandoci dei nostri più elementari diritti di cittadini, nel momento stesso in cui accettiamo di partecipare alla gogna contro questo o quel farabutto sorpreso a sragionare al telefono.
La pubblicazione delle intercettazioni sui giornali è ormai un genere letterario a sé stante, con i suoi precisi canoni, le sue regole e i suoi cliché. Ogni ondata ha la sua frase simbolo: una battuta di pochi secondi esce all’improvviso dalla marea delle chiacchiere, traccia d’un colpo i confini dell’insieme e ne definisce il senso. “Stamo a fa’ i furbetti del quartierino”, disse Stefano Ricucci, e dal momento in cui quella battuta venne pubblicata sui giornali questa fu l’immagine, il senso e la spiegazione dell’intera vicenda, la vicenda dei “furbetti del quartierino”. Nel nuovo romanzo telefonico attualmente in via di pubblicazione, quello sulla Protezione civile, la frase simbolo è ovviamente l’affermazione dell’imprenditore che dice al cognato di aver riso dentro al suo letto, dopo il terremoto dell’Aquila, pensando agli affari che avrebbe potuto fare con la ricostruzione.
L’imprenditore ha poi dichiarato che era il cognato a dirlo, mentre lui inorridiva, e che pertanto c’è un errore nella trascrizione, ma qui si aprirebbe un altro discorso (spesso le trascrizioni della stessa conversazione cambiano moltissimo a seconda del giornale che le pubblica, e a volte anche a seconda dell’edizione dello stesso giornale, ma nessuno sembra badarci troppo). Dal momento in cui il verbale delle risate è stato pubblicato è cresciuta, comprensibile, la generale indignazione: manifestazioni di chi sotto le macerie ha perso i propri cari, gli amici, la casa e il lavoro, dietro cartelli e striscioni con scritto “io non ridevo”; dichiarazioni sempre più dure, da politici e giornalisti, amministratori locali e famigliari delle vittime; il governo che si affretta a chiarire: “Non un euro a chi rideva”. Un crescendo senza interruzione, un coro unanime, senza un dissenso. E chi mai potrebbe difendere un comportamento tanto disumano? E così, con le nostre indignate dichiarazioni o con il nostro acquiescente silenzio, abbiamo avallato il principio secondo cui le parole pronunciate al telefono da due privati cittadini sono soggette a un giudizio di moralità da parte dell’opinione pubblica.
Volenti o nolenti, entusiasti o renitenti, ci siamo costituiti in tribunale e abbiamo condannato due persone alla gogna, semplicemente per quello che si sono dette al telefono, per il valore etico delle loro parole, pronunciate nel corso di una privata conversazione. E nessuno finora ha trovato in questo niente da ridire. Mi auguro naturalmente di sbagliare e che simili proteste siano sfuggite soltanto a me, ma ne dubito: in questo paese, che pure secondo le statistiche ufficiali è probabilmente quello con il più alto numero di liberali per chilometro quadrato, stenta ad affermarsi il principio per cui la battaglia in difesa della libertà di tutti non si gioca sui diritti di Heidi o di Madre Teresa di Calcutta, ma proprio sui diritti dei più odiosi, brutti, sporchi e cattivi. D’altra parte, dopo avere passato anni a leggere commenti indignati su questa o quella intercettazione, sempre accompagnati da un prudente “al di là dell’eventuale rilevanza penale”, come fosse una condizione accessoria per intercettare, pubblicare e commentare le private conversazioni di un cittadino, cos’altro dovremmo aspettarci? Il principio è passato.
E così si giustifica, in nome della trasparenza, un comportamento che è ormai il massimo dell’arbitrio e dell’opacità, terreno ideale per ogni genere di manovra e di ricatto, permettendo di lanciare accuse, linciare e sputtanare praticamente chiunque, anche solo sulla base delle affermazioni di terzi da nessuno verificate, fossero pure due pazzi ubriachi appena evasi da un manicomio criminale. Ma non c’è alternativa, si difendono i direttori di giornale quando qualcuno si azzardi a domandare per quale motivo si debbano pubblicare gli sms della moglie di un uomo indagato per reati finanziari, magari aggiungendoci pure la vigliacca ironia del cronista sull’uso della punteggiatura o sul merito dei messaggini. E come potrebbero decidere cosa sia da pubblicare e cosa no, arrogarsi il diritto di selezionare, tagliare e cucire, censurare e manipolare i documenti di cui entrano in possesso? Peccato che solo in quest’ultima inchiesta, a quanto scrive il Corriere della Sera, le pagine di intercettazioni allegate all’ordinanza del gip siano ventimila. Dicasi: ventimila.
Se davvero i giornali si limitassero a pubblicare tutto quello di cui dispongono, senza effettuare alcuna selezione, alcuna censura, alcuna manipolazione, dovrebbero smettere di pubblicare le chiacchiere di Bertolaso e soci non prima del 2020.
Se poi davvero si comportassero sempre allo stesso modo, per tutte le inchieste di cui si occupano, non resterebbe spazio nemmeno per la pagina dei programmi tv. La barzelletta dei giornali che si limitano a pubblicare tutto quello che trovano, in modo sempre ugualmente asettico e scrupoloso, non fa più ridere nemmeno gli affezionati. La verità è che i giornali sono attori consapevoli e volenterosissimi di questo meccanismo infernale, che regala loro un potere enorme. Un potere incontrollato che tutti noi contribuiamo ad accrescere, spogliandoci dei nostri più elementari diritti di cittadini, nel momento stesso in cui accettiamo di partecipare alla gogna contro questo o quel farabutto sorpreso a sragionare al telefono.
«Il Foglio» del 23 febbraio 2010
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