I dati di vendita parlano chiaro: in libreria la storia "tira" purché non sia quella che ha fatto l'Italia
di Giordano Bruno Guerri
Come ogni domenica, una delle mie prime letture è stata la classifica dei libri sul Corriere della Sera, per interesse professionale e personale. Ieri Follia?, la biografia di Vincent van Gogh che ho scritto per Bompiani, è entrata nell’elenco della saggistica più venduta, al sedicesimo posto, davanti a Donne di cuori di Bruno Vespa (Mondadori) e a Dalla parte dei vinti di Piero Buscaroli (sempre Mondadori). Sono tre volumi che, sia pure di striscio, possono essere considerati di storia. Gli altri diciassette titoli riguardavano la saggistica più varia, da quella politica a quella sociale.
L’assenza di veri argomenti storici non è strana, dipende da cosa offre il mercato, perché la storia viene letta volentieri, in Italia. Infatti, proseguendo lo sfoglio dei giornali, ho trovato un bell’articolo di Andrea Romano sul Sole 24 ore. Da un’analisi del rilevamento Nielsen BookScan (il sistema di monitoraggio più avanzato del mercato librario), risulta che tutto sommato l’«argomento tira». Solo per fare qualche esempio, i volumi sull’antica Roma coprono l’11,6 per cento di tutti i libri venduti in Italia tra il 2007 e il 2009, precedendo addirittura quelli sul fascismo (7,3 per cento). La grande, singolare sorpresa, riguarda il Risorgimento, che arriva appena all’1,3 per cento, superato dal Medioevo (3,8 per cento); persino le vicende dell’Impero Ottomano o quelle antiche dell’Estremo oriente stanno per superarlo, con il loro 1 per cento. Insomma, è davvero molto scarso l’interesse dei lettori verso il nostro Risorgimento, proprio nell’approssimarsi dei 150 dell’Unità d’Italia.
Come scrive Romano, «è legittimo dubitare che una nuova e robusta iniezione di retorica risorgimentale riesca ad avvicinare» l’obiettivo di stimolare l’interesse a capire come è nato il nostro Stato. Così come non ci riusciranno le varie celebrazioni più o meno ufficiali, se non sapranno individuare un taglio narrativo e interpretativo nuovo e originale. Sono d’accordo con Andrea Romano anche quando sostiene che gli ultimi governi (di destra e di sinistra) avrebbero dovuto «farsi carico di ritrovare una narrazione nazionale dotata di un’autentica capacità attrattiva». Sono d’accordo, cioè, se parla di strumenti e non di contenuti: io stesso, con il collega Massimo Tosti, ho ideato e proposto un Museo Virtuale dell’Unità d’Italia, un modo per non riesporre le vecchie divise di Garibaldi, le bandiere lacere e le oleografie risorgimentali, bensì per ricostruire la storia attraverso le strepitose tecnologie di cui oggi disponiamo. Chi sa che accoglienza avrà la proposta fra chi decide, se si capirà che una battaglia ricostruita con l’incanto della realtà virtuale è molto più efficace e attraente della stessa cosa fatta con i soldatini di piombo e i grafici. Mi trovo in totale disaccordo con Romano, se invece – come credo e temo – vuole sostenere che gli ultimi governi «non hanno prodotto qualcosa che somiglia a un’idea di patria» e quindi neanche di storia patria. Se l’idea di patria è necessaria, è un disastro – un disastro vero - l’idea di storia patria insufflata dai governi e dal potere politico. Prima di tutto, perché la politica produce interpretazioni storiche distorte, tendenziose e utilitaristiche.
Non abbiamo una degna e realistica storia del Risorgimento, perché venne ricostruita dai suoi stessi autori e conservata tale e quale dal fascismo, cui la retorica risorgimentale – così simile alla propria - conveniva assai. Allo stesso modo - per decenni, e tuttora - non abbiamo avuto un’attendibile, realistica storia del fascismo, in quanto non conveniva alle successive classi politico-intellettuali dominanti, sia quella comunista sia quella cattolica. Il vero lettore di storia non casca nelle interpretazioni governative perché – essendo un vero lettore di storia - automaticamente non può essere un fesso. Infatti, guarda caso, la più venduta è la storia dell’Antica Roma, che è in piena fase di riscoperta interpretativa, di rianalisi: in una parola, di revisionismo. Proprio come il fascismo e il Medioevo.
Il Risorgimento invece no. Dall’Alpi a Lampedusa, dalle elementari all’università viene riproposto sempre uguale, non come un argomento vivo in piena evoluzione di studio, ma come una farfalla (tricolore) infilzata e immobile per sempre, nella sua bellezza che si vorrebbe statuaria come la statuistica relativa. Controprova? Il libro sul Risorgimento più venduto e letto degli ultimi anni è stato Il Regno del Nord di Arrigo Petacco (Mondadori), in controtendenza rispetto alla lettura tradizionale del periodo. Contro-controprova con scommessa? Fra meno di un anno, uno dei libri più discussi, letti e venduti sarà quello che sto scrivendo: La prima guerra civile italiana. 1861-1870: una storia del brigantaggio post-unitario, del quale ci hanno sempre raccontato che si trattava di quattro criminali selvaggi che non volevano bene al proprio Paese. Cosa volete importi agli italiani dell’incontro di Teano (oggi è un autogrill), se non si spiega, prima, come mai esistano e da dove nascono gli attuali dissidi e incomprensioni fra Nord e Sud?
L’assenza di veri argomenti storici non è strana, dipende da cosa offre il mercato, perché la storia viene letta volentieri, in Italia. Infatti, proseguendo lo sfoglio dei giornali, ho trovato un bell’articolo di Andrea Romano sul Sole 24 ore. Da un’analisi del rilevamento Nielsen BookScan (il sistema di monitoraggio più avanzato del mercato librario), risulta che tutto sommato l’«argomento tira». Solo per fare qualche esempio, i volumi sull’antica Roma coprono l’11,6 per cento di tutti i libri venduti in Italia tra il 2007 e il 2009, precedendo addirittura quelli sul fascismo (7,3 per cento). La grande, singolare sorpresa, riguarda il Risorgimento, che arriva appena all’1,3 per cento, superato dal Medioevo (3,8 per cento); persino le vicende dell’Impero Ottomano o quelle antiche dell’Estremo oriente stanno per superarlo, con il loro 1 per cento. Insomma, è davvero molto scarso l’interesse dei lettori verso il nostro Risorgimento, proprio nell’approssimarsi dei 150 dell’Unità d’Italia.
Come scrive Romano, «è legittimo dubitare che una nuova e robusta iniezione di retorica risorgimentale riesca ad avvicinare» l’obiettivo di stimolare l’interesse a capire come è nato il nostro Stato. Così come non ci riusciranno le varie celebrazioni più o meno ufficiali, se non sapranno individuare un taglio narrativo e interpretativo nuovo e originale. Sono d’accordo con Andrea Romano anche quando sostiene che gli ultimi governi (di destra e di sinistra) avrebbero dovuto «farsi carico di ritrovare una narrazione nazionale dotata di un’autentica capacità attrattiva». Sono d’accordo, cioè, se parla di strumenti e non di contenuti: io stesso, con il collega Massimo Tosti, ho ideato e proposto un Museo Virtuale dell’Unità d’Italia, un modo per non riesporre le vecchie divise di Garibaldi, le bandiere lacere e le oleografie risorgimentali, bensì per ricostruire la storia attraverso le strepitose tecnologie di cui oggi disponiamo. Chi sa che accoglienza avrà la proposta fra chi decide, se si capirà che una battaglia ricostruita con l’incanto della realtà virtuale è molto più efficace e attraente della stessa cosa fatta con i soldatini di piombo e i grafici. Mi trovo in totale disaccordo con Romano, se invece – come credo e temo – vuole sostenere che gli ultimi governi «non hanno prodotto qualcosa che somiglia a un’idea di patria» e quindi neanche di storia patria. Se l’idea di patria è necessaria, è un disastro – un disastro vero - l’idea di storia patria insufflata dai governi e dal potere politico. Prima di tutto, perché la politica produce interpretazioni storiche distorte, tendenziose e utilitaristiche.
Non abbiamo una degna e realistica storia del Risorgimento, perché venne ricostruita dai suoi stessi autori e conservata tale e quale dal fascismo, cui la retorica risorgimentale – così simile alla propria - conveniva assai. Allo stesso modo - per decenni, e tuttora - non abbiamo avuto un’attendibile, realistica storia del fascismo, in quanto non conveniva alle successive classi politico-intellettuali dominanti, sia quella comunista sia quella cattolica. Il vero lettore di storia non casca nelle interpretazioni governative perché – essendo un vero lettore di storia - automaticamente non può essere un fesso. Infatti, guarda caso, la più venduta è la storia dell’Antica Roma, che è in piena fase di riscoperta interpretativa, di rianalisi: in una parola, di revisionismo. Proprio come il fascismo e il Medioevo.
Il Risorgimento invece no. Dall’Alpi a Lampedusa, dalle elementari all’università viene riproposto sempre uguale, non come un argomento vivo in piena evoluzione di studio, ma come una farfalla (tricolore) infilzata e immobile per sempre, nella sua bellezza che si vorrebbe statuaria come la statuistica relativa. Controprova? Il libro sul Risorgimento più venduto e letto degli ultimi anni è stato Il Regno del Nord di Arrigo Petacco (Mondadori), in controtendenza rispetto alla lettura tradizionale del periodo. Contro-controprova con scommessa? Fra meno di un anno, uno dei libri più discussi, letti e venduti sarà quello che sto scrivendo: La prima guerra civile italiana. 1861-1870: una storia del brigantaggio post-unitario, del quale ci hanno sempre raccontato che si trattava di quattro criminali selvaggi che non volevano bene al proprio Paese. Cosa volete importi agli italiani dell’incontro di Teano (oggi è un autogrill), se non si spiega, prima, come mai esistano e da dove nascono gli attuali dissidi e incomprensioni fra Nord e Sud?
«Il Giornale» del 22 febbraio 2010
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