Vita e morte a Londara (e a Radiorai)
di Francesco Ognibene
Esistono almeno due metodi collaudati per manipolare la percezione pubblica delle grandi questioni sulla vita umana: cambiar nome alla realtà, o rovesciare il significato delle parole. Si tratta di strategie culturali sperimentate al punto tale da trasformarle in automatismi inconsapevoli, maschere sotto le quali i fatti diventano invisibili, quasi irrilevanti. Ha cambiato nome l’aborto, dissimulato sotto le burocratiche spoglie della «interruzione volontaria di gravidanza», meglio se Ivg. Si è smaterializzata la pillola del giorno dopo (potenzialmente abortiva) chiamandola «contraccezione d’emergenza». Persino quando si parla di «autodeterminazione» occorre cercare nel doppiofondo semantico, là dove spesso si scoprirà il reale intento eutanasico di chi parla di libertà e diritti.
Ma la distanza tra idee pensate ed espresse diventa abissale quando si assiste allo stravolgimento di concetti capovolti nel loro opposto. È quanto sta accadendo in Inghilterra, dove ieri il procuratore generale del Regno, Keir Starmer, dettando i criteri in base ai quali andrà perseguito o prosciolto chi attivamente aiuta un parente o un amico a morire ha spiegato che mai si dovrà mandare in prigione la persona che ha agito per «motivi di compassione ». Già la definizione giuridica del gesto – «suicidio assistito» – apre più di un dubbio: chi stacca un sondino, inocula un farmaco letale o spegne un ventilatore polmonare causando la morte realizza un vero atto eutanasico. Chiamandolo in un altro modo si compie una falsificazione mirata a precostituire il giudizio dell’opinione pubblica, deviando l’impatto di quella che resta una morte procurata. Ma se chi ha realizzato quello che il nostro Codice penale definisce «omicidio del consenziente » riesce a dimostrare che l’ha fatto per «compassione» nessun tribunale inglese potrà più punire la cooperazione al suicidio con la pena prevista di 14 anni. Il lasciapassare per l’assoluzione è la «compassione» del gesto, che – par di capire – si traduce nella semplice assenza di motivi di risentimento o d’interesse personale. Cambiato nome e aspetto, l’eutanasia viene così accolta nelle corti di giustizia inglesi, e riesce persino nel trucco più sbalorditivo: coprire la soppressione di una vita al colmo della sua fragilità con l’onore che si tributa a chi si china sull’altro sofferente per «com-patire» insieme a lui. Lo slancio del samaritano è snaturato nella sua tragica caricatura: la mano che per secoli si è posata con amore sulla ferita ignorata da altri ora procura la morte. Uccide sì, ma per «compassione»: non sapendo più farsi carico dell’estrema fatica di vivere la fa cessare, così contribuendo a far sedimentare l’idea che sia questa la soluzione alla malattia senza speranza, alla solitudine, alla vecchiaia estrema, alla demenza. Sembra che questo crescente peso di sofferenza sia insopportabile alla nostra società sbrigativa e nichilista, e allora meglio autorizzare (e incoraggiare) il repulisti facendolo passare per ammirevole virtù. Una truffa culturale agghiacciante. L’eco di questa mentalità «compassionevole» s’è udito anche in Italia, ieri mattina, nella puntata che «Radio Anch’io» ha dedicato agli sviluppi parlamentari della legge sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento. Il servizio pubblico ha consentito che, nella generale confusione di concetti scientifici, si lasciasse dire (persino plaudendo all’efficacia dell’idea) che essendo brutto veder morire di sete pazienti come Eluana sarebbe meglio praticargli una bella iniezione, e via. A completare il pasticcio la doppia conduzione in studio con la 'voce' sanremese, che sul palco canta l’allergia a qualsiasi verità salvo poi aderire senza mostrar dubbio alcuno alla discutibilissima «verità» di chi ha portato a morte Eluana. Un bell’esempio di coerenza, davvero. Come quello dell’ex ministro che si sbraccia per la «presa in carico» dei pazienti ma poi squarcia la rete di protezione culturale che la nostra civiltà da sempre stende sotto i più deboli invocando la legge del «liberi tutti» di dare e farsi dare la morte come e quando ci pare. Ma la nuova, terribile, «compassione » autorizza anche questo.
Ma la distanza tra idee pensate ed espresse diventa abissale quando si assiste allo stravolgimento di concetti capovolti nel loro opposto. È quanto sta accadendo in Inghilterra, dove ieri il procuratore generale del Regno, Keir Starmer, dettando i criteri in base ai quali andrà perseguito o prosciolto chi attivamente aiuta un parente o un amico a morire ha spiegato che mai si dovrà mandare in prigione la persona che ha agito per «motivi di compassione ». Già la definizione giuridica del gesto – «suicidio assistito» – apre più di un dubbio: chi stacca un sondino, inocula un farmaco letale o spegne un ventilatore polmonare causando la morte realizza un vero atto eutanasico. Chiamandolo in un altro modo si compie una falsificazione mirata a precostituire il giudizio dell’opinione pubblica, deviando l’impatto di quella che resta una morte procurata. Ma se chi ha realizzato quello che il nostro Codice penale definisce «omicidio del consenziente » riesce a dimostrare che l’ha fatto per «compassione» nessun tribunale inglese potrà più punire la cooperazione al suicidio con la pena prevista di 14 anni. Il lasciapassare per l’assoluzione è la «compassione» del gesto, che – par di capire – si traduce nella semplice assenza di motivi di risentimento o d’interesse personale. Cambiato nome e aspetto, l’eutanasia viene così accolta nelle corti di giustizia inglesi, e riesce persino nel trucco più sbalorditivo: coprire la soppressione di una vita al colmo della sua fragilità con l’onore che si tributa a chi si china sull’altro sofferente per «com-patire» insieme a lui. Lo slancio del samaritano è snaturato nella sua tragica caricatura: la mano che per secoli si è posata con amore sulla ferita ignorata da altri ora procura la morte. Uccide sì, ma per «compassione»: non sapendo più farsi carico dell’estrema fatica di vivere la fa cessare, così contribuendo a far sedimentare l’idea che sia questa la soluzione alla malattia senza speranza, alla solitudine, alla vecchiaia estrema, alla demenza. Sembra che questo crescente peso di sofferenza sia insopportabile alla nostra società sbrigativa e nichilista, e allora meglio autorizzare (e incoraggiare) il repulisti facendolo passare per ammirevole virtù. Una truffa culturale agghiacciante. L’eco di questa mentalità «compassionevole» s’è udito anche in Italia, ieri mattina, nella puntata che «Radio Anch’io» ha dedicato agli sviluppi parlamentari della legge sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento. Il servizio pubblico ha consentito che, nella generale confusione di concetti scientifici, si lasciasse dire (persino plaudendo all’efficacia dell’idea) che essendo brutto veder morire di sete pazienti come Eluana sarebbe meglio praticargli una bella iniezione, e via. A completare il pasticcio la doppia conduzione in studio con la 'voce' sanremese, che sul palco canta l’allergia a qualsiasi verità salvo poi aderire senza mostrar dubbio alcuno alla discutibilissima «verità» di chi ha portato a morte Eluana. Un bell’esempio di coerenza, davvero. Come quello dell’ex ministro che si sbraccia per la «presa in carico» dei pazienti ma poi squarcia la rete di protezione culturale che la nostra civiltà da sempre stende sotto i più deboli invocando la legge del «liberi tutti» di dare e farsi dare la morte come e quando ci pare. Ma la nuova, terribile, «compassione » autorizza anche questo.
«Avvenire» del 26 febbraio 2010
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